Bufalo Bill (LP, Album) RCA
Italiana, RCA Italiana TPL1-1192, TPL1 1192 Italy
1976
Bufalo Bill (Cass,
Album) RCA Italiana TPK1 1192 Italy 1976
Bufalo Bill (CD, Album, RE)
RCA Italiana PD 666 Italy 1989
Bufalo Bill (CD, Album, RE)
RCA PD 74046 Italy 1989
Bufalo Bill (CD, Album, RE, RM, Dig) RCA Italiana, BMG 74321 773462 Italy 2001
Bufalo Bill (CD, Album, RE, RM, Cas) Corriere
Della Sera, Sorrisi E Canzoni TV 9-771825 788145 90005 Italy 2009
Bufalo Bill (CD,
Album, RE, Dig) Sony Music, RCA 88843067552 Italy 2014
Bufalo Bill (CD, Album,
RE) Sorrisi E Canzoni TV, BMG Italy GA 20 04 04 Italy Unknown
Anche se ormai mi ci sono
affezionato, la copertina di "Bufalo Bill" è un ripiego: io avrei voluto
farla con una litografia di un espressionista tedesco, Otto Dix, che
raffigurava dei pellerossa un po' fasulli che cavalcavano in stile circense
sullo sfondo di una bandiera a stelle e strisce, e che mi aveva fornito
l'ispirazione primaria per scrivere la canzone. Poi non si riuscirono ad
avere i diritti di riproduzione di questa cosa, né credo che la RCA si sia
data tutto questo gran da fare, anche perché in effetti non era un'idea così
commerciale, anzi. Così recuperammo questa specie di Calamity Jane da una
rivista americana, che tutto sommato ha anche lei qualche freccia al suo
arco."
Era una cosa di Otto Dix, vediamo se sta qua. Va a colpo sicuro.
Era questa l'incisione che volevo mettere sulla copertina del disco: si
intitola cavalleria americana, ma è proprio il circo di Bufalo Bill di
passaggio in europa".
Purtroppo la RCA non mi aiutò a prendere i diritti di questa immagine.
Tanti anni fa mi ero imbattuto quasi per caso nelle opere di gente come
Otto Dix, George Grosz, i pittori dell'espressionismo tedesco, un
passaggio culturale intenso e drammatico nella storia d'europa. Così
cominciai a interessarmene, cercai di conoscerli meglio. Di questa
incisione mi innamorai letteralmente perché mi sembrava riassumere tante
cose significative: l'America vista con i nostri occhi da europei e
quindi un po' l'America di Kafka, un libro amatissimo ... il confronto
fra il vecchio e il nuovo continente, la frontiera dei pionieri da una
parte e la nostra tradizione culturale dall'altra ... l'America dei
fumetti western letti da bambino: Buffalo Bill (ma con una "f" sola,
all'italiana!). Insomma, la "cavalleria americana" di Otto dix,
l'incisione ispirata da uno spettacolo del circo di Bufalo Bill nel
cuore della vecchia Europa incarnava perfettamente il mondo evocato
dalla mia canzone: un mito che si trasforma in caricatura di se stesso,
un eroe al crepuscolo fra epos e operetta... e quei pellerossa truccati
da cattivi ... sarebbe stato perfetto, ma non era abbastanza commerciale
e così optammo per quella pin-up con la pistola in mano presa da un
calendario di Gil
Elvgren del 1948. Molto americana anche lei, tutto sommato, e molto più
accattivante.
Tratto da
"Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera
|
Dopo il successo ottenuto con Rimmel e la
conseguente notorietà, Francesco è di nuovo nelle sale Rca per realizzare quello
che definisce uno dei suoi album più belli. E’ il disco in cui si nota
maggiormente l’influenza che i cantanti americani - Dylan su tutti - hanno su di
lui. E’ perfettamente americano, con la A maiuscola e con tutti i denti a posto.
Attraverso l’epica ode dedicata a William
Frederick Cody, Francesco ci accompagna su un treno che corre lungo i binari
della nuova frontiera disegnata dalle rotaie della Northern Pacific, in cui si
sente fortissimo l’odore degli ultimi bisonti del Dakota e quello del nuovo
"cavallo d'acciaio": il grasso della locomotiva. Ma è anche l'America di
Hemingway, dei Kennedy, di Donald Duck, di Kerouac, di Steinbeck e di tutte le
altre letture che il ragazzo ha fatto, confermando un legame - mai interrotto -
con la cultura americana.
In quest’anno ci governano prima Moro con una
coalizione politica DC e poi, in estate, Andreotti; l’Apple presenta il primo
personal computer; Alan Guth formula la teoria del Big Bang inflattivo; vengono
scoperti gli oncogeni; in Uganda, a Entebbe, un commando israeliano libera cento
ostaggi del volo Tel Aviv–Parigi; nasce “La Repubblica” di Scalfari; viene
inventata la prima scheda telefonica; le BR alzano il tiro: i giudici Coco ed
Occorsio; in TV va in onda l'ultimo spot di "Carosello";
la lira precipita fino a quota 880 contro il dollaro; viene ricatturato a Milano
Renato Curcio; la Corte di Cassazione vieta la proiezione del film "Ultimo
tango a Parigi"; scoppia lo scandalo Lockheed: l'industria americana produttrice
di aerei conferma di aver versato oltre un miliardo di tangenti a politici
italiani per le forniture degli "Ercules C130" all'esercito italiano. La
Commissione parlamentare inquirente mette sotto accusa per corruzione i ministri
Tanassi e Gui; un violento terremoto pari al 9° grado della scala Mercalli
colpisce il Friuli; a Seveso, alle porte di Milano, scoppia il reattore di una
fabbrica di prodotti chimici e la nube tossica carica di diossina invade il
territorio. Solo dopo 15 giorni viene decisa l'evaquazione della popolazione e
la recinzione dell'intera zona, quando era ormai diventata diserbata e
disfogliata, con tutte le colture distrutte per anni; Craxi viene eletto
segretario del PSI; addio al gettone telefonico; la sonda americana "Viking I"
atterra su Marte; grave incidente a Niki Lauda sul circuito del "Nürburgring"
durante il gran premio di Germania di Formula; Jimmy Carter viene eletto
Presidente degli Stati Uniti; Muoiono Luchino Visconti, Mao Tze Tung, Luciano Re
Cecconi.
Nello sport Adriano Panatta vince il Roland
Garros di Parigi e in estate guida l'Italia alla conquista della Coppa Davis con
Barazzutti, Zugarelli e Bertolucci (All. Pietrangeli); Franz Beckenbauer
vince ancora il Pallone d’Oro; la stella alle Olimpiadi di Montreal è la
ginnasta romena Nadia Comaneci e la domenica sera Adriano De Zan ci racconta che
Il Torino vince lo scudetto con Castellini, Salvadori, Santin, Sala, Mozzini,
Caporale,
Sala, Pecci, Graziani, Zaccarelli, Pulici (All. Radice).
Il Premio Strega va a Fausta Cialente con Le
quattro ragazze Wieselberger e il Campiello va a Gaetano Tumiati con Il busto di
gesso.
Dopo la scomparsa di grandi registi come
Visconti, Rossellini, Pasolini e De Sica, le nuove leve del cinema italiano si
danno da fare: assieme a Maestri come
Antonioni e Fellini, emergono Bellocchio, Ferreri e Bertolucci. Al cinema
vediamo Serpico, Rocky, Quinto potere, Il comune senso del pudore, Tutti gli
uomini del Presidente, King Kong, Taxi Driver, Casanova, Novecento, Brutti
sporchi e cattivi, Cadaveri eccellenti, Toto modo, Il deserto dei Tartari,
Guerre stellari, L’anatra all'arancia.
La dieta mediterranea conquista gli USA, è
seguita anche da campioni sportivi e stimola i consumi di pasta non solo negli
Stati Uniti, ma anche in Europa e nella stessa Italia.
Viaggiamo con la Wolkswagen Golf GTI, la Ford
Granada, la Innocenti Bertone, il Fantic Motor Caballero.
La moda impone maglie e camice attillate
unisex, pantaloni magari scampanati ma sicuramente bassi di cavallo e
soprattutto stretti in vita e comunque tendenzialmente unisex. Le tasche sono
cucite esternamente ma solo per una questione di look e design. Non brillano di
praticità date le loro strettissime ed
aderentissime misure che di fatto non permettono nemmeno di inserire un normale
pacchetto di sigarette se non con la conseguenza di schiacciarlo. Di moda vanno
gli occhiali Lozza, il Bulldog e il
Chihuahua, l’autoradio Blaupunkt, i jeans Wrangler, il Bulova Accutron, i nuovi
stereo7, i pacchiani accessori per abbellire l'interno dell'automobile, lo
schermo a colori sulla tv in bianco e nero per simulare il colore, gli scarpini
da calcio Pantofola d'oro e Tepa Sport.
Giochiamo con Barbie, Big Jim, Shangai, la
bicicletta Graziella, le bambole Furga, Migliorati, Ratti, la lavagna magica, il
kaleidoscopio, Gi Joe, mettersi il Vinavil sulle mani per poi togliere le
pellicine e…… suonare i citofoni condominiali.
In televisione c’è Sandokan, L'altra
domenica, Non stop, Sulle strade di San Francisco, Hulk, Attenti a quei due, il
Gesù di Zeffirelli, Michele Strogoff, Furia.
Spot
da ricordare sono “Petrus l'amarissimo che fa benissimo”; il cavallo bianco del
bagnoschiuma Vidal; 'Capitano, lo possiamo torturare? Ma cosa vuoi torturare
tu?“ e “dormo tranquillo e asciutto, Lines notte assorbe tutto”
Ci intossichiamo con Big Babol, Tavolette
Nestlè, Tin Tin Motta, le gomme di Brooklyn, le caramelle Elah alla liquirizia e
alla frutta, i biscottini rotondi Tuc e Ritz, i biscotti Bucaneve Doria, i
biscotti Biscolussi e Gran Turchese, la Brioss Ferrero
I nostri soldi vanno in fumo anche attraverso
Diana, Linda, Muratti, Rothmans, Stop con filtro e senza filtro.
Leggiamo Cristall, Ghibli, I Fantastici
Quattro, il Manuale di Paperinik e quello delle Giovani marmotte, il Corriere
della Sera, Sorrisi e Canzoni, Porci con le ali, Il formaggio e i vermi,
l'enciclopedia Tecnirama, Muzak, Re Nudo.
A Sanremo vince Peppino di Capri con “Non lo
faccio più”, allo Zecchino d’oro vince "La Teresina" e al Festivalbar Gianni
Bella con "Non si può morire dentro".
La mitizzazione del passato felice degli anni
Sessanta e Settanta viene identificato come American Graffiti dal telefilm Happy
Days, che aveva come protagonisti giovani spensierati senza alcuna frustrazione,
alle canzoni surf dei Beach Boys, nonché la riscoperta dei Beatles attraverso
John Lennon. Tutto inizia a ruotare in un passato che i teenager non hanno
vissuto ma in cui vogliono indentificarsi.
In Italia la musica si divide in impegnata e
in disimpegnata. I cantautori vengono su come funghi nonostante polemiche,
contestazioni, processi e disordini causati dagli autoriduttori che disturbano i
festival dell’Unità e i teatri al grido di "la musica è nostra ed è gratis". I
cantautori di successo vengono pubblicamente "processati" e accusati di
tradimento. Famosi restano i processi a De Gregori, Venditti, Bennato e i
subbugli ai concerti dei Led Zeppelin e di Carlos Santana. Tutto ciò accade solo
in Italia, al punto che i circuiti internazionali hanno evitato per anni
il nostro paese, costringendo i veri appassionati ad emigrare per ascoltare i
loro idoli.
I Sex Pistols debuttano al Club 100: nasce il
punk-rock in Gran Bretagna; esplode la musica reggae di Bob Marley; i Blondie
lanciano la "disco-punk"; al Winterland di San Francisco The Band celebra lo
scioglimento con un mega-concerto denominato "The Last Waltz” in cui sono
presenti numerosi ospiti d'eccezione. Dal concerto vengono tratti un disco
triplo e un film diretto da Martin Scorsese; William Ackerman fonda la Windham
Hill e inventa la musica new-age; i Throbbing Gristle coniano il termine
"industrial music"; boom dell'elettronica con "Oxygene" di Jean-Michel Jarre
Si afferma la musica funk e il
tentativo di fusione tra rock e musica sinfonica operato dagli Emerson Lake &
Palmer, ma l’anno vede l'esplosione del fenomeno disco-music: le piste da ballo
del sabato sera sono dominate soprattutto da Barry White e Donna Summer, ma
anche dal funk di George Clinton, James Brown, o Kool & The Gang.
In Italia, la tradizione del rock, nata sul
finire degli anni Sessanta con gruppi come i Camaleonti, i Dik-Dik, l’Equipe 84,
si rinnova con gli Area di Demetrio Stratos, Perigeo, il Banco Mutuo Soccorso,
la Premiata Forneria Marconi e i sempreverdi Orme, New Trolls e Nomadi.
Ascoltiamo Ancora tu, La tartaruga,
Margherita, Sei forte papà, Europa, Johnny Bassotto, Linda bella Linda, Tu ca
nun chiagne, Linda, Svalutation, Gli occhi di tua madre, Don't go breaking my
heart, Due ragazzi nel sole, Il maestro di violino, Preghiera, Senza parole,
Hurricane, Music, Gimme some, Io camminerò, La mia estate con te, Sambariò, Volo
AZ 504, M'innamorai, Se mi lasci non vale, I'm easy, Histoire d'O, Come stai con
chi sei, Black Emmanuelle. Per un'ora d'amore, Ullalà, La torre di Babele, 22ma
Raccolta Fausto Papetti, Hacia la libertad, Let the music play, Arabian nights,
A trick of the tail, Poohlover, Mahogany, La voglia la pazzia l'incoscienza
l'allegria.
Gli album più venduti in Italia sono Wish you
were here, Amigos Santana, La batteria il contrabbasso ecc., Desire,
Minacantalucio, Via Paolo Fabbri 43, A love trilogy, 21ma Raccolta Fausto
Papetti, BUFALO BILL, Concerto per Margherita.
Ma la puntina la poggiamo anche su dischi
come Legalize It, Bright Size Life, This Masquesrade, Tom Petty: and the
Heartbreakers, Desire, Hotel California, Music from the Penguin Cafe, Hard Rain,
Songs in the Key of Life, Bob Marley Live, Ho visto anche degli zingari felici,
Una storia disonesta, Wings over America, La torre di Babele, Automobili, Mio
fratello e' figlio unico, Ullala, Wind & Wuthering, A Trick Of The Tail, Ballata
per quattro stagioni.
Tormentone dell’estate: Come pioveva,
dei Beans.
http://www.rimmelclub.it/storia/storia.htm |
A Francesco fu timidamente fatto sapere che qualora avesse provato il
desiderio di mettere su di un nastro qualche nuova idea, avrebbe
naturalmente potuto disporre liberamente delle magnifiche sale della Rca
e di tutta l'assistenza necessaria. Francesco non se lo fece ripetere
due volte (…) Una presenza, che a mio avviso contribuì non poco al nuovo
sound, fu quella dell'ottimo Toto Torquati, un musicista di grandissima
sensibilità. Nacque così, serenamente, quello che io ritengo il
long-playing più bello mai realizzato da Francesco e il più
completo.
E’ il disco più vicino al centro della sua anima di allora, e il più
universale come contenuti: ogni singola canzone, anche se isolata dalle
altre, risulta più universale come contenuti. Vi sono canzoni fortemente
politiche, come Ninetto e la colonia e Disastro aereo sul canale di
Sicilia; canzoni epiche come Bufalo Bill e Festival; canzoni sociali,
come Giovane esploratore Tobia o Ipercarmela, canzoni quasi
psicoanalitiche come L'uccisione di Babbo Natale o Ultimo discorso
registrato, canzoni d'amore come Atlantide o la splendida Santa Lucia.
(…) C'erano le ragazze Baba Yaga, che avevano già cantato nei dischi di
Francesco, serissime come sempre. (…) Credo che questo fu il periodo più
felice di Francesco, il più tumultuoso e frenetico. (…). Ogni sua
dichiarazione era oggetto di polemiche, come quella volta che in
un'intervista fece riferimento al "mare tranquillizzante delle canzoni
di Claudio Baglioni", suscitandone il suo risentimento.
Nel mese di
maggio del 1976 l'album "Bufalo Bill" di Francesco De Gregori entra in
classifica per la prima volta direttamente al 2° posto. Sempre in questo mese,
la RCA immetterà sul mercato una nuova collana di albums [supporto: 33 giri,
Stereo 8 e musicassette] a prezzo medio denominato "LineaTre". Il progetto viene
presentato a Roma, presso l'Hotel Jolly, dal 5 al 7 maggio. Tra le prime
emissioni, compare anche Francesco De Gregori, Riccardo Cocciante, Lucio Dalla,
e altri.
Come Rimmel, anche Bufalo bill fu registrato durante le pause di una di
quelle che ancora nemmeno si chiamavano tournèe ... diciamo una serie di
concerti fra la fine del 1975 e l'inizio del 1976.
E' vero che cercai di staccarmi un po' dal suono di Rimmel, un suono
abbastanza commerciale che avevo
cercato e trovato ed era piaciuto alla gente ed era piaciuto anche a me:
ma dopo un anno mi sembrava giusto sparigliare un po', anche perché a
quell'età si cambia velocemente idea su tante cose. E in un anno
era cambiato anche il mio modo di scrivere canzoni".
Certo, John Wesley Harding è un disco che conosco bene e che ho amato
moltissimo ... "the ballad of frankie lee ano judas priest" in
particolare ... però non credo di aver mai detto ai musicisti in studio
che volevo il sound di Dylan con the Band. la verità è che le persone
che hanno lavorato in questo disco non sono le stesse di Rimmel, anche
per questo il suono è differente. e non credo proprio di aver dato a
loro indicazioni così precise su quello che volevo ottenere, non è che
lo sapessi bene nemmeno io. Così forse portai in studio un po' di dischi
che in quel momento mi piacevano per indirizzare tutto il lavoro in una
direzione meno scontata, meno pop. Sai, nelle registrazioni di allora,
in particolare negli studi RCA dove io lavoravo, c'era questa tendenza
ad essere molto perfettini, molto puliti ... the Tiburtina sound, ad
esempio, avere la ritmica incollata, cassa e basso perfettamente
sincronizzati, tutte cose che invece nella musica che piace a me non
vengono al primo posto. Quindi per schiodarli da questo ideale di
calligrafia sonora, da questa idea del compitino fatto per bene io gli
facevo ascoltare tutto quello che poteva essere utile ad andare nella
direzione opposta. E alla fine i musicisti si adeguavano, qualcuno
addirittura finiva per apprezzare.
I musicisti che rispondevano ai nomi di Carlo Felice Marcovecchio,
Roberto Rosati, Mario Scotti, Toto Torquati: "era tutta gente che
lavorava con regolarità negli studi RCA di quel periodo, gente scafata,
collaudata e assai richiesta. Solo Toto Torquati era un 'prelievo
esterno', un ottimo tastierista che aveva suonato con Baglioni per le
registrazioni di "Questo piccolo grande amore". Lo conoscevo dai tempi
del folkstudio, dove suonava di preferenza jazz e blues e metteva
settime maggiori dappertutto. Mi piaceva averlo con me perché era
sicuramente il meno prevedibile, il meno "allineato" di tutti. Insomma,
era un gruppo di musicisti molto vario e tutto sommato poco tradizionale
... in studio fu proprio Torquati quello che mi aiutò di più,
soprattutto su pezzi come Atlantide o Santa Lucia ... era quello fra
tutti più vicino al mio mondo.
Stupisce l'assoluta perfezione sonora di questo disco, un suono
brillante che a tanti anni di distanza sembra essere registrato oggi con
le più moderne tecnologie: "ma non ti puoi immaginare la fatica che
abbiamo fatto per registrarlo così! Ricordo sempre grandi incomprensioni
con i tecnici. Per loro era una prassi normale rifare ogni registrazione
un sacco di volte, sovrapporre parti nuove a parti vecchie, incollare
nastri, mettere delle toppe sugli errori registrando al volo un piccolo
frammento sonoro da sostituire a quello sbagliato: 'sona, diceva, sona
che ti prendo io '. Alla fine il risultato era una mancanza totale di
naturalezza e tutto il suono era già preconfezionato, nasceva già
avvolto nella sua bella plastichetta. Le chitarre, ad esempio: tu
entravi in sala, ti sedevi davanti al microfono e suonavi la tua
chitarra acustica. Poi andavi di là a sentire la registrazione ed era
tutto un altro suono, di solito l'opposto di quello che cercavi. Allora
dicevi al fonico di venire a sentire bene il suono naturale della
chitarra: lo senti com'è? lo senti il vero suono di una chitarra com'è?
e quello ti rispondeva "sì, è brutto".
Insomma a volte era una bella lotta e in definitiva abbiamo lavorato
molto per ottenere quello che adesso si sente sul disco. C'è chi dice
che in quegli anni le chitarre acustiche registrate negli studi della
RCA avessero tutte lo stesso suono un po' da grattugia e io facevo di
tutto per non adeguarmi.
Tratto da
"Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera
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Quando io ero ragazzino
divoravo veramente i primi fumetti, di tutti i generi, ma anche quelli di
ambientazione Western e il mio eroe preferito era Buffalo Bill, di cui io da
ragazzino sapevo soltanto che era molto bravo a cavalcare e a sparare agli
indiani e ai bufali, e che era un personaggio mitologico.
Poi, cresciuto un po’,
ho indagato sulla sua vita che era anche più profana e laica, nel senso che
tutto questo sparare in giro per la prateria era perché le grandi Compagnie
americane assoldavano i fucilieri cavallerizzi come lui per ripulire la prateria
dai bufali e, haimè, anche dagli indiani, perché bufali e indiani erano
considerati un ostacolo al progresso. Va bè, questo rende più profana la figura
di Buffalo Bill come stipendiato da una grossa Agenzia.
La cosa che ho scoperto
successivamente è che lui, quando cominciò ad essere a rischio di
disoccupazione, (perché i bufali e gli indiani stavano finendo) si riconvertì in
uomo di spettacolo. Mise sù un circo col quale cominciò a girare l'Europa
portandosi appresso dei figuranti, degli indiani finti col viso dipinto di rosso
e dei cavalli veri. Insomma, era tutta una messa in scena in cui riproponeva il
clima del vecchio West, infatti lo spettacolo si chiamava Old Wild West Show.
Più o meno questa è la
canzone senonché, dopo, irrompe in tutto questo clima della parabola di vita di
quest’uomo uno strano personaggio, per soli due versi…. e sono molto fiero di
averli scritti: “il mio amico culo di gomma, famoso meccanico”. Ecco, i più
attenti dicono “ma che c’entra? Chi è questo che arriva col culo di gomma?”.
Perché io nella canzone volevo sottolineare quello che è stato un passaggio
storico dell’America dall’epoca epica di Buffalo Bill, delle ferrovie e
dell’avanzata verso la frontiera, all'epoca industriale di cui il simbolo
sovrano è l'automobile e quindi Culo di gomma famoso meccanico è uno degli
ultimi amici di Buffalo Bill che si presenta un giorno al volante di una
macchina scoppiettante che è destinata a sostituire i cavalli. Un po’ come le
armi da fuoco che a un certo punto dell’Orlando furioso sostituiscono le spade.
(Francesco De
Gregori, agosto 2024)
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L'aria aperta, il tempo lungo, l'incipit straordinario ci assettano in un mondo
che non è questo o un altro o un altro ancora: è il mondo. C'è un paese felice,
dio che lo guarda dall'alto, i soldati che lo difendono, e davanti ad una
situazione simile c'è da scommettersi che un ragazzo parteggierebbe per questo.
Il paese era molto giovane, i soldati a cavallo erano la sua difesa,
il verde
brillante della prateria dimostrava in maniera lampante l'esistenza di Dio,
del Dio che progetta la frontiera e costruisce la ferrovia.
A quel tempo io ero un ragazzo che giocava a ramino e fischiava alle donne.
Credulone e romantico, con due baffi da uomo.
Se avessi potuto scegliere tra la vita e la morte,
tra la vita e la morte, avrei
scelto l'America!
Tra Bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi:
la locomotiva ha la
strada segnata, il Bufalo può scartare di lato e cadere.
Questo decise la sorte del Bufalo, l'avvenire dei mie baffi e il mio mestiere.
Ora ti voglio dire: c'è chi uccide per rubare e c'è chi uccide per amore,
il
cacciatore uccide sempre per giocare, io uccidevo per essere il migliore.
Mio padre guardiano di mucche, mia madre una contadina,
io unico figlio biondo
quasi come Gesù.
Avevo pochi anni e vent'anni sembran pochi,
poi ti volti a guardarli e non li
trovi più.
E mi ricordo infatti un pomeriggio triste,
io col mio amico "Culo di gomma"
famoso meccanico.
Sul ciglio di una strada a contemplare l'America,
diminuzione dei cavalli,
aumento dell'ottimismo,
Mi presentarono i miei cinquant'anni
e un contratto col Circo "Pace e bene" a
girare l'Europa.
E firmai, col mio nome firmai, e il mio nome era Bufalo Bill.
Mi è venuta vedendo un disegno di
Otto Dix che mi è piaciuto tanto e si chiama "Bufalo Bill al circo"; Si vedono
tre indiani dipinti con una cattiveria spaventosa cioè indiani imbruttiti,
indiani finti; lì scattò il meccanismo della canzone cioè di vedere dietro il
mito dell'America pulita, dell'America dei grattacieli, l'America dei ghetti.
Io osservo l'America un po' come al cinema, attraverso i prodotti di Hollywood,
i figli dell'"uomo da marciapiede", ma mi rendo anche conto che tutto sommato
abbiamo dei debiti da pagare agli USA, cioè siamo in mano loro, se muovono un
dito andiamo in fallimento, sul piano finanziario. C'è anche questo, il quadro
mi ha dato l'aggancio immediato, poi la canzone l'ho scritta perchè mi
interessava parlare dell'America. E' la biografia di Bufalo Bill, più o meno
romanzata perchè ci sono certe coincidenze non precise, l'avvento della
motorizzazione non so bene quando ci sia stato in America rispetto all'età di
Bufalo Bill però è la storia di Bufalo Bill e di un certo periodo di storia
americana, il mito della nuova frontiera, il mito dell'Ovest. A un certo
punto di "Bufalo Bill" viene fuori questa strana espressione "culo di gomma".
E' l'episodio del meccanico, quando si passa dall'America del Bufalo, delle
prime ferrovie, della caccia all'oro del periodo mitico, al periodo
dell'ottimismo, della tranquillità, il periodo che arriverà fino al 1929 al
crollo di Wall Street. La motorizzazione coincide con la fine del West, come
l'introduzione delle armi da fuoco coincide con la fine del periodo
cavalleresco. "Culo di gomma" perchè mi sono messo un po' nel linguaggio
di questi americani che vedevano il mondo probabilmente diviso tra quelli lie
andavano a cavallo e quelli che non ci andavano; e chi non ci andava
probabilmente aveva il culo più molle e il meccanico che si intende di pistoni e
cilindri perciò viene definito "culo di gomma" quindi una specie di
sottoprodotto umano agli occhi di Bufalo Bill. Queste sono tutte cose che mi
sono inventato io; magari Bufalo Bill andava in macchina alla fine
|
In un solo anno, arriva Bufalo Bill.
Forse avevano ragione Brel e Fo e il vecchio Rimbaud a dire che si
scrive fino a vent'anni. Il resto è in più o inutile.
Bufalo
Bill (che per me resta a tutt'oggi il suo disco più completo, umano,
pensoso, vero) introduce lo sconforto, la soluzione
impossibile, la paura del tempo e degli uomini,
l'ipocrisia, il mondo com'è (dopo due anni di mondo come lo vedo), il
disagio e la fatica, l'odio travestito da amore, la terza età in cui
spaventa il dubbio e a volte più del dubbio, la certezza di un mondo che
va lentamente a rotoli. De Gregori esaurisce l'uomo, la sua parabola, la
sua storia in tre episodi: infanzia, sicurezza apparente, delusione mai
vinta.
Bufalo Bill non è solo
America, anche se la metafora, ampia già dall'inizio lì ci colloca: è un
mondo che scompare e non è più lo stesso, è un uomo eroe a 20 anni e
buffone a 50, è un conflitto natura / industria, natura / progresso,
finalmente descritto senza gli usuali stereotipi di fabbriche, operai o
via dicendo (lo han fatto in 10.000). L'aria aperta, il tempo lungo,
l'incipit straordinario ci assettano in un mondo che non è questo o un
altro o un altro ancora: è il mondo. C'è un paese felice, dio che lo
guarda dall'alto, i soldati che lo difendono, e davanti ad una
situazione simile c'è da scommettersi che un ragazzo parteggierebbe per
questo. Perché? O, dio, la civiltà, la ragione, la locomotiva dai binari
segnati, ma (attenzione il ragazzo è romantico), il bufalo non va mai
per percorsi diretti, è modificabile, il bufalo è poesia. Dio, che
miscuglio di cose belle che ci stanno dando e di cose bellissime che
andiamo perdendo: qualcuno riuscirà mai a metterle insieme? No. O scegli
il bufalo o la ferrovia. E io, Bufalo Bill, eroe per niente, non avevo
'sti grandi ideali: uccidevo per giocare, per essere il più bravo. Tutto
ciò è primordiale, perfino mistico "il cacciatore uccide sempre per
giocare". Allora è un gioco, allora è una sorpresa, allora è un inizio
di felicità:"mia madre una contadina, mio padre un guardiano di mucche,
io unico figlio biondo quasi come Gesù". Allora Bufalo Bill non è bene
né male, è inizio, è primordio, è America di semplici cullate illusioni:
trovarlo a cinquant'anni in un circo dà l'esatta dimensione di mille
fallimenti, ma il più grave è quello di un paese che non ha saputo
mettere insieme due semplicità quella indiana e quella yankee; non
guardando mai indietro e frantumando ogni ostacolo per il suo passaggio
al futuro, alla
globalizzazione
strisciante. Bufalo Bill è
una canzone epica, elegiaca, chi riesce a capire capisca. Nemmeno De
Andrè coi suoi indiani è così dolcemente tristemente uomo deluso. Bufalo
Bill è un testo bellissimo, per respiro, ampiezza (già
dall'esordio ci sembra di essere in una prateria), bellissimo per un
inconsapevole ruolo di un eroe, che eroe non è da giovane e tantomeno da
vecchio, uomo piuttosto che crede ai suoi spazi, ai suoi colpi di fucile
come norme, regole ancestrali di vita. Uomo di grande dignità tanto da
disperdersi ,finito il sogno, e annullarsi nei circhi d'Europa. Che sia
venuto in mente un personaggio simile a De Gregori e che lo abbia
trattato così, fuor di morale (in un'epoca dilagante di morale e
moralismi) è un miracolo. Ognuno può cogliere l'universale che trascende
da questa piccola epica storia western, metafora lunga della vita di
tutti noi. Di noi? Sì di noi intesi come collettività infantile che
s'ingrippa e s'irrigidisce nel crescere sociale: l'icona della libertà
(verde brillante delle praterie, il bufalo che può scartare e cadere)
non si incastra, non riesce a fare tutt'uno con il progresso, il futuro,
la società industriale (la locomotiva ha la strada segnata), restiamo
bimbi in quella illusione (vent'anni sembran pochi) sperando che tutto
passi e tutto resti: poi all'improvviso ci voltiamo e non troviamo più
niente, diminuiscono i cavalli, aumenta l'ottimismo di tutti e resta
solo l'amico dal culo di gomma a guardare con William Cody, a
contemplare, fin dove l'occhio porta , un'America che non c'è più,
scomparsa così da un momento all'altro per il gesto di chissà che mago:
tutti belli, tutti a casa. Per capire a fondo questo spleen, questo
tarlo assurdo e ingannevole del benessere bisogna leggere e ascoltare
tutte le canzoni dell'album, e l'album è pieno di questa nuova
borghesia, insonnolentita, appagata, straniante, che tale è e tali
alleva i figli: c'è la grande restaurazione alle porte, il grande
modello americano che non annette replica e tranquillizza. Roberto
Vecchioni.
La canzone Bufalo Bill è nata soprattutto come un'idea letteraria, con
la voglia di raccontare una storia. La musica è stata fatta in seguito e
c'è un cambiamento di atmosfera e di ritmo a metà della canzone che
nasce proprio dal fatto che dovevo musicare un testo molto narrativo,
quasi un parlato ... quindi la costruzione musicale è stata fatta per il
testo e non con il testo; e quel cambiamento di ritmo è dettato dalla
necessità di far quadrare i conti con le parole: senza quel brusco
cambiamento non avrei potuto dire quelle cose, quelle parole non
sarebbero state cantabili. Poi per fortuna è successo quello che succede
nei momenti felici: tu fai certe cose perché sei costretto e alla fine
funzionano benissimo, sembrano nate solo dall'ispirazione: e invece di
produrre un risultato forzato tutto diventa fluido e naturale.
Bufalo Bill, un omaggio a una America sognata, amata, anche odiata?
L'idea mi era venuta da un film di Sam Peckinpah, "La ballata di Cable
Hogue", un bellissimo film uscito nel 1970 sulla fine dell'epopea
western, la parabola di un anziano pioniere che muore schiacciato da una
delle prime automobili. L'avvento del motore a scoppio, le quattro ruote
che sostituiscono i cavalli, la decadenza e la fine di tutto quel mondo
cavalleresco fatto di indiani e di cowboys, di strade ferrate e
praterie, Bufalo bill che arriva alla fine della sua carriera e si
riduce a fare la caricatura di se stesso in un circo in giro per il
mondo. Quale simbolo migliore di tutto questo? Così scrissi la canzone.
che è anche una dichiarazione d'amore: 'tra la vita e la morte avrei
scelto l'America' suona bene in bocca a Bufalo Bill ma è una frase che
potrei sottoscrivere tranquillamente anch'io se penso ai debiti che ho
con la cultura americana, con gente come ...Jack London o Donald Duck e
Bob Dylan. Anche se poi l'America uno come Bufalo Bill lo ha prima
consumato e poi nei fatti espulso come un corpo estraneo. Perché
l'America se vuole può essere la più crudele delle nazioni e quando
finisce il tempo degli eroi e comincia quello dei capitani d'industria
il destino di Bufalo Bill è deciso, come quello del bufalo".
Una canzone ancora oggi eseguita, seppur non troppo spesso: "mah ... la
faccio ancora ogni tanto perché
è una di quelle canzoni nelle quali la gente si identifica. Non è
facilissimo renderla bene dal vivo. Come tutto ciò che sta sui dischi,
dal vivo prende un'altra forma. A volte mi sembra che sia difficile
superare la compattezza della registrazione originale. E' un po' un
problema non buttarla in vacca dal vivo, specie quando ci sono da fare
quei coretti con le voci. .. dal vivo certe cose basta poco e diventano
pesanti. Ma ancora oggi mi piace l'idea che c'è dietro questa canzone e
quel cambiamento a metà, quando tutto deraglia in un tempo di quattro
quarti. Fu una cosa che sconcertò mia moglie quando le feci sentire la
canzone prima di andarla a registrare. Arrivato a quel punto scoppiò a
ridere e mi chiese se ero matto. Non le piaceva proprio. E credo che
anche oggi non abbia cambiato idea.
Tratto da
"Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera
GIACCIO -
"Bufalo Bill" è il titolo del nuovo album, vogliamo analizzarlo
Pezzo per pezzo; cominciamo da "Bufalo Bill" che è una canzone
sull'America.
DE GREGORI - Mi
è venuta vedendo un disegno di Otto Dix che mi è piaciuto tanto e si
chiama "Bufalo Bill al circo"; Si vedono tre indiani dipinti con una
cattiveria spaventosa cioè indiani imbruttiti, indiani finti; lì
scattò il meccanismo della canzone cioè di vedere dietro il mito
dell'America pulita, dell'America dei grattacieli, l'America dei
ghetti.
GIACCIO -
Quindi la tua immagine dell’America è un'immagine letteraria, vola
attraverso un quadro, un film.
DE GREGORI -
No, ne ho anche una mia, noi all'inizio abbiamo parlato di politica
però forse questo non l'ho detto, ma credo che noi siamo veramente
legati politicamente in maniera abbastanza pesante a questo sole
americano. Quindi io osservo l'America un po' come dici tu al
cinema, attraverso i prodotti di Hollywood, i figli dell’”uomo da
marciapiede", ma mi rendo anche conto che tutto sommato abbiamo dei
debiti da pagare agli USA, cioè siamo in mano loro, se muovono un
dito andiamo in fallimento, sul piano finanziario. C'è anche questo,
il quadro mi ha dato l'aggancio immediato, poi la canzone l'ho
scritta perchè mi interessava parlare dell'America. E' la biografia
di Bufalo Bill, più o meno romanzata perchè ci sono certe
coincidenze non precise, l'avvento della motorizzazione non so bene
quando ci sia stato in America rispetto all'età di Bufalo Bill però
è la storia di Bufalo Bill e di un certo periodo di storia
americana, il mito della nuova frontiera, il mito dell'Ovest.
GIACCIO - A un
certo punto di "Bufalo Bill" viene fuori questa strana espressione
"culo di gomma".
DE GREGORI - E'
l'episodio del meccanico, quando si passa dall'America del Bufalo,
delle prime ferrovie, della caccia all'oro del periodo mitico, al
periodo dell'ottimismo, della tranquillità, il periodo che arriverà
fino al 1929 al crollo di Wall Street. La motorizzazione coincide
con la fine del West, come l'introduzione delle armi da fuoco
coincide con la fine del periodo cavalleresco. C'è un film di
Peckinpah bellissimo, che mi ha ispirato: si chiama "La ballata di
Cable Hogue" in cui si vede uno di questi ultimi pionieri americani
che muore schiacciato da un’automobile; è una simbologia molto
semplice, ma efficace.
GIACCIO - E
"culo di gomma"?
DE GREGORI -
"Culo di gomma" perchè mi sono messo un po' nel linguaggio di questi
americani che vedevano il mondo probabilmente diviso tra quelli lie
andavano a cavallo e quelli che non ci andavano; e chi non ci andava
probabilmente aveva il culo più molle e il meccanico che si intende
di pistoni e cilindri perciò viene definito "culo di gomma" quindi
una specie di sottoprodotto umano agli occhi di Bufalo Bill. Queste
sono tutte cose che mi sono inventato io; magari Bufalo Bill andava
in macchina alla fine...
ROMANO -
Secondo pezzo della facciata "lpercarmela".
DE GREGORI -
"Ipercarmela" è vecchissima, fu scritta prima ancora che uscisse
"Rimmel". E' la storia di due emigranti contenti che stanno a Torino
e accettano la logica di Torino: il marito chiudendosi in cucina in
questo mito della proprietà della sua casa; la donna accettando il
ruolo di schiava e drogandosi di giornali femminili. Quindi due
persone perdute dal punto di vista umano, in perfetta sincronia con
la violenza della città che li ha accolti. E poi la nascita di
questa bambina: nasce con dei buoni auspici, nasce come una stella,
una cosa diversa, e sorride. Ride sempre, 'Ipercarmela' è una
canzone ingenua, iperrealistica, una canzone in cui si vedono tutti
i muscoli.
ROMANO – Bufalo
Bill finisce con un accenno a “Bandiera rossa". In “Ipercarmela” usi
un inciso inciso di "Passion fiowers , versione ballabile di "Per
Elisa" Come mai questo recubero di cose musicali?
DE GREGORI – Mi
sono divertito e stava bene non solo musicalmente ma anche col
testo.
da FRANCESCO DE
GREGORI, UN MITO
di Michelangelo Romano, Paolo Giaccio e Riccardo Piferi
-
Edizioni Lato Side – 1980
|
Ettore Castagna - "Occhi che hanno
visto terra" (World Music, Roma, n. 35, dicembre 1998) Bufalo Bill - La
canzone è un grande affresco ideologico. La transizione dall'America "di
una volta" del sogno, del mito, della frontiera a quella reale e
contemporanea, dei "culi di gomma" dove anche la vita dell'ex cowboy
finirà per essere regolata da un formale contratto di lavoro ( il circo
che ritroveremo negli ultimi mesi) si è consumata interamente. Bufalo
Bill (si noti la "versione italiana" del nome, quella anglosassone porta
una f in più e si pronuncia diversamente), il Cowboy per eccellenza,
l'uomo della frontiera libero e brado si produce in una autobiografia
improbabile. Improbabile per la sua intonazione di delirio e di sogno.
Decisamente estranea ad ogni taglio realistico della narrazione. Eppure
"vera" o meglio "verosimile". Si scopre facilmente dopo poco leggendo il
testo che il vero narratore siamo noi e che la canzone pesca in alcuni
dei vari modi di immaginare l'America tutti europei e più ancora
italiani. Proprio quella f in meno nel nome italiano dell'Eroe (rispetto
all'inglese "buffalo"), trasferisce il Bill storico delle praterie, dei
cavalli e della frontiera nel Bill dei fumetti e della leggenda
nostrana. Bill nella canzone è reale quanto Tex Willer. E probabilmente
altrettanto "italiano". Eppure il senso di esattezza che ci trasmette
questo "fumetto in musica", la precisione con la quale ci parla
dell'America, in un certo senso finisce per far riflettere. E' forse
ancora stupefacente, nonostante la televisione, scoprire quanto
l'America non sia più soltanto dell'America e quanto parte del suo
immaginario e del suo pantheon di figure mitico-simboliche sia parte
effettiva del nostro immaginario. E' questo uno degli elementi
caratterizzanti della canzone di De Gregori e cioè mostrare quanto lo
scavare nel nostro immaginario tutto italiano di praterie viste al
cinema o in televisione, di Buffalo Bill con una f in meno sia in fondo
come scavare in un patrimonio oramai comune di miti e di simboli, un
vero ponte transoceanico fra noi e l'America. Il pregio della canzone,
una volta compiuto tutto il viaggio nel simbolico, è quello di
individuare e proporre elementi di verità. Il Bill finto, fumettistico,
immaginario ci racconta un'America quanto mai cruciale e reale. Quella
che non ha forse ancora risolto il nodo del passaggio dall'era della
verginità primitiva elaborata sul genocidio rimosso degli indiani
d'America, dell'autoconsiderazione immacolata ed eroica del sè e
l'America quotidiana, frantumata, non più pura, che sostituisce i bufali
alle locomotive. Le locomotive con la loro "strada segnata"
rappresentano il trionfo dell'invariabilità, della razionalità del
percorso definito, della cancellazione della creatività nell'itinerario
da seguire. E' il bufalo che "può scartare di lato e cadere". Ma il
bufalo è pressoché estinto oramai. Scompare dalla scena l'animale
simbolico per eccellenza. La sua forza bruta e vitale come elemento di
confronto con l'uomo continuamente impegnato a piegare la prateria e la
natura selvaggia al suo volere evoca alcuni degli elementi della
tauromachia. La prateria si propone come il teatro ideale di una grande
corrida dove l'affermazione del dominio sul toro/bufalo è l'affermazione
dell'uomo bianco/tauromaco "white, anglo-saxon, protestant"
sull'insorgere bruto della natura (Non a caso il vero nome di Bufalo
Bill è William Cody e non Ciro Coccoviello). Il toro, energia "nera" e
primordiale emerge dalle profondità ctonie della prateria come paradigma
della natura da domare. Si accende l'agone mitico (uomo-bufalo), nel
teatro mitico (la prateria) e in un tempo mitico (la conquista del west)
nel quale si forgia il primigenio uomo americano. E' la sua vittoria
sulla natura (indiani compresi, fanno parte di essa perché "selvaggi")
che lo rende puro ed eroico, lo "monda" da ogni colpa. Bufalo Bill è il
torero dell'America. E' questo che permette la sua ammissione nel
Pantheon Americano. Pragmatico ed immacolato, Bill costruisce la sua
beatificazione uccidendo/immolando bufali in nome della Frontiera e
dell'America stessa. Giunta la Frontiera all'Oceano, finita l'era della
conquista come un vero eroe di un mito di fondazione, Bill non muore ma
è assunto in cielo con tutto il corpo. Si tratta del cielo
dell'immaginario ed ovviamente dell'immortalità. Passa dalla
prateria/reale al circo/ fantastico. Dopo il bagno nel sangue
dell'animale mitico (il bufalo), egli è oramai immortale, può
permettersi dunque di fermarsi "sul ciglio di una strada a contemplare
l'America". E' significativo che nell'atto del contemplare sia suo
compagno ed amico "culo di gomma, famoso meccanico". E' un simbolico
passaggio di consegne fra l'eroe del tempo mitico connotato con "nome e
cognome" e l'eroe meccanico ed anonimo dell'America che conosciamo,
industriale e dollarogena. Dal conquistatore di praterie al
conquistatore di mercati. L'uomo del cavallo "transustanzia" in quello
del copertone (culo di gomma). Svanita la frontiera, dissodata e
recintata la prateria, all'uomo del mito è preclusa oramai l'azione.
L'età mitica è finita ma Bill, padre e figlio del pragmatismo americano,
si adegua velocemente. E' lui stesso ad inaugurare quella del rito. La
gloria della frontiera sarà d'ora in poi celebrata ritualmente, la mano
passa alla letteratura, al cinema, al circo. Quando Bill firma il
contratto per il circo "pace e bene a girare l'Europa" accetta non solo
di farsi esportatore del mito americano ma di trasformarsi direttamente
in sacerdote officiante. Terminato il momento primordiale dei "miracoli"
giunge quello della predicazione, Bill erige la "sua chiesa". I
"fedeli"/pubblico pagante accorreranno per vederlo catturare il bufalo o
cavalcare eroicamente nello spazio circoscritto dall'arena del Circo
Barnum. E' il Figlio della Prateria che va per il mondo a preannunciare
l'Avvento (della Coca-Cola).
|
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una sera venni invitato alla RCA in un grande albego di Sabaudia dove c'era una
riunione degli addetti alle vendite; una specie di festa del lavoro, se così si
può dire, alla quale partecipavano vari artisti della RCA fra i quali appunto
anch'io. Naturalmente la cosa finì tardissimo e io tornai a Roma verso le cinque
del mattino e alle sette doveva passarmi a prendere Michele (Mondella) per
andare insieme a Catania dove avevo una serata. Pensai che non valeva la pena
mettersi a dormire per due ore e cominciai a scrivere questa canzone. Mi ricordo
una stanza abbastanza grande con due finestre e addossato alla parete fra queste
due finestre il pianoforte verticale. Allora mi misi lì a suonare e a scrivere
questa canzone appuntando le parole su un foglio di carta e intanto faceva
giorno piano piano e la luce entrava da queste due finestre a destra e a
sinistra del pianoforte e pensai che quello fosse il miglior giorno stereofonico
che avessi mai visto. E un po' perché sembrava proprio di stare sott'acqua, un
po' perché quello era un raro, prezioso momento di solitudine, mi venne in mente
di chiamare questa canzone "Atlantide". Più tardi in aereo feci leggere le
parole a Mondella. Ormai era giorno fatto, il sole a quell'altezza scottava
attraverso i finestrini. Sia io che Mondella avevamo dei grandi occhiali scuri
ed eravamo morti di sonno e lui mi disse che ero matto.
Lui adesso vive ad Atlantide, con un
cappello pieno di ricordi,
ha la faccia di uno che ha capito,
e anche un principio di tristezza in fondo
all'anima.
Nasconde sotto il letto un barattolo di birra disperata,
e a volte ritiene di
essere un eroe.
Lui adesso vive in California da sette anni
sotto una veranda ad aspettare le nuvole,
è diventato un grosso suonatore di chitarre
e stravede per una donna chiamata
Lisa.
Quando le dice "tu sei quella con cui vivere"
gli si forma una ruga sulla
guancia sinistra.
Lui adesso vive nel terzo raggio
dove ha imparato
a non fare più domande del tipo:
"conoscete per caso una ragazza di Roma
la cui faccia ricorda il crollo di una
diga?"
Io la conobbi un giorno ed imparai il suo nome
ma mi portò lontano il vizio
dell'amore.
E così pensava l'uomo di passaggio
mentre volava alto nel cielo di Napoli,
rubatele pure i soldi, rubatele anche i ricordi
ma lasciatele per sempre la sua
dolce curiosità.
Ditele che l'ho perduta quando l'ho capita,
ditele che la perdono per averla
tradita
Atlantide è ovviamente un mondo
scomparso o mai esistito, o solo un sogno d'infanzia o un concepir l'amore che
fosse perfetta sintonia con la propria meraviglia di vivere: così non è stato.
"Lui vive adesso in California, sotto una veranda ad aspettare le nuvole" e
dice (dice) di stravedere per una certa Lisa. La verità è
tutto l'esatto contrario, pur nella consapevolezza che "lei" è distrutta
("ha la
faccia che ricorda il crollo di una diga"), perché il "vizio" dell'amore solo
quella volta "lo portò lontano". È straordinario in "Atlantide" (mondo sommerso
e perduto) la concessione che De Gregori fa ad un TOPOS della canzone
letteraria: riferirsi a qualcuno, chiedere per interposta persona un messaggio
alla donna che ha amato. Ma è straordinario anche come lo fa: due versi e niente
più: "ditele che l'ho perduta quando l'ho capita / ditele che la perdono per
averla tradita", due versi che sono due contraddizioni in termini per chi vive
di norme. Ma a pensarci bene è così sempre e per quasi tutti. E Allora i versi
suonano così: "Ditele che dopo aver vissuto per me stesso, e troppo, e oltre il
limite, quando ho cominciato a capire lei non c'era più tempo" "Ditele che la
comprendo, perché da egoista quale sono, ora solo ora la perdono, la comprendo
per i miei atteggiamenti difensivi, nei momenti in cui con me stesso e la mia
priorità l'avevo tradita". C'è un grande afflato in tutta "Atlantide" di riacquisizione di sentimenti. Anche la tristezza che non era mai apparsa in
nessuna canzone di De Gregori. C'è la retrospettiva che per la prima volta si fa
sincera e povera, oltre la sopravvalutazione di se stesso e c'è amore, tra
piccole polveri e briciole, ma tanto, tanto ripercorso. Tralascio
l'ipersensibile "Stomp" "ultimo discorso registrato" bello, ma che non serve a
dirci niente di nuovo sul nostro discorso. Roberto Vecchioni.
|
GIACCIO - "Le
fabbriche di vedove", gli F-104 sono i protagonisti di "Disastro
aereo sul Canale di Sicilia".
DE GREGORI -
Eh! lo l'ho scritto prima dello scandalo Lockheed, vedo nel futuro,
come si dice.
GIACCIO - Un
altro elemento che forse hai messo inconsciamente è "Ginestre e
Cemento " '
DE GREGORI -
Pensavo a Portella delle Ginestre. Anzi addirittura ho tentato di
fare una strofa su Portella, ma poi l’ho levata perchè non stava
bene con il testo.
GIACCIO - E il
"cemento"?
DE GREGORI - lo
mi ricordo certe foto di Palermo, con queste case con i supporti di
cemento armato.
GIACCIO - Sì,
quelle sospese...
DE GREGORI -
Quelle sospese sulla sabbia.
GIACCIO - Poi
"la tomba di un giornalista": Mauro De Mauro.
ROMANO - Questa
canzone è abbastanza atipica per un sacco di motivi, ma forse quello
che risulta più immediato è che in questa canzone è già tutto detto
dall'inizio, in una premessa quasi da telegiornale. Poi il resto è
solo la descrizione dí una cosa che sappiamo già avvenuta.
Musicalmente è invece molto tradizionaIe; c'è questo coro, questa
melodia molto mediterranea che in modo cinematografico si riallaccia
alla storia. Tu usi due lingaggi completamente contrari uno
dall'altro. La musica è molto ruffiana.
DE GREGORI -
Non c'è calcolo di base. lo quando vado in studio la canzone l'ho
scritta e provata solo sul pianoforte. Quindi ha una incastellatura
molto scarna, ci sono tre accordi soltanto in questa canzone. Tutta
questa musica che c'è dietro al coro in prova la faccio io con la
voce; quando poi la realizzo devo tener presente che mi rivolgo ad
un pubblico che ha le orecchie più che altro per sentire e siccome
ho la fortuna di avere a disposizione dei mezzi che mi permettono di
dargli una musica piacevole, la devo fare, visto che non ho scelto
la strada dello sperimentalismo musicale; quindi cerco di fare delle
cose al limite della gradevolezza senza limitarmi a livelli
standard. Questa è la mia strategia dell’arrangiamento di una
canzone.
GIACCIO - Da
che cosa nasce questa canzone?
DE GREGORI - Da
un articolo letto su "Lotta continua". L'articolo era fatto molto
bene in prima pagina, e diceva che noi spendiamo non so quanti
miliardi l'anno per la difesa, che alcuni di questi miliardi sono
stati spesi per comprare questo tipo di aerei che cadono sempre,
questo mentre in Italia i problemi gravi sono altri. Questi soldi
vengono spesi per la difesa, la nostra difesa è in funzione di
quella Atlantica, e perchè è tanto importante la nostra difesa in
questo momento? Perchè dopo la caduta dei regime dei Colonnelli
greci, dopo la morte di Franco, in Europa oltre la Turchia siamo
rimasti noi a tenere a bada la situazione in Medio Oriente.
ROMANO Quindi
in "prima posizione".
GIACCIO - Tu
leggi Lotta continua tutti i giorni?
DE GREGORI -
Sono abbonato a “Lotta continua" ma non leggo solo questo giornale
leggo anche "L'Unità", “Il Messaggero", 'Il Corriere della Sera";
leggo "Lotta continua" quando ce la faccio, molte volte non leggo
niente.
GIACCIO - Non
leggi quindi "Il Manifesto" o "Il quotidiano dei lavoratori"?
DE GREGORI -
No, dei vari gruppi extraparlamentari che esistono, penso che "Lotta
continua" sia quello più vicino alle mie posizioni.
GIACCIO -
Perchè oggi è più vicino al PCI?
DE GREGORI -
Non è vero che oggi sia vicino al PCI; se tu riesci un attimo a non
leggerlo da rivoluzionario militante, è un giornale che ti informa
abbastanza bene su certe cose, come invece non ti informa il
giornale del Partito.
da FRANCESCO DE
GREGORI, UN MITO
di Michelangelo Romano, Paolo Giaccio e Riccardo Piferi
-
Edizioni Lato Side – 1980
|
Canzone di situazioni suggerite, di imput buttati là a partire dal grande coro
iniziale che magnifica una storia apparentemente piccola. Il giovane pilota
americano di stanza a Verona è l'esatto corrispondente del "giovane esploratore
Tobia", non sa quel che fa, ma lo fa. Canzone senza definizioni definitive
(tutti sanno tutto dell'inizio, nessuno niente della fine), canzone di verità
mafio-papali-americane buttate là ("solo la tomba di un giornalista ancora
difficile da ritrovare"): misteri inespressi e impossibili da risolvere, ma
così, così lontani dal Bufalo e dalla sua casa nella prateria. Lunghissimo,
insolubile, spettrale e limpido come un ricordo che torna e fa male anche se non
lo vuoi ammettere: lui una terza persona per non farsi male, lui che ha imparato
ad amare di nuovo, ma di nuovo non si può anche se si deve. Roberto Vecchioni.
Risulta per altro evidente, anche nel clima della distensione
che un eventuale attacco ai paesi arabi vede l'Italia in prima posizione.
Tutto sanno tutto dell'inizio, ma nessuno può parlare della fine.
E questa è la storia dell'aereo perduto al largo delle coste tunisine.
La fabbrica di vedove volava a diecimila metri sulla terra siciliana,
il pilota controllava l'orizzonte, la visibilità era buona.
Il pilota era un giovane ragazzo americano ma faceva il soldato a Verona.
E dieci chilometri sotto ginestre e cemento a due passi dal mare,
e case popolari costruite sulla sabbia, nient'altro da segnalare.
Solo la tomba di un giornalista ancora difficile da ritrovare.
E la fabbrica di vedove volava, sola come un uccello da rapina,
il mare era una tavola azzurra ormai, l'Africa era già più vicina.
Nel cielo soltanto una striscia di neve bianca, bianca di carta velina.
Mercoledi 16 settembre 1970. Sono da poco passate le 21.Mauro
De Mauro é un cronista del quotidiano l'Ora di Palermo. Sta lavorando da mesi
alla sceneggiatura del film "Il caso Mattei" del regista Francesco Rosi. De
Mauro sta per rientrare nella sua abitazione di via delle Magnolie, in un
quartiere residenziale del capoluogo siciliano. Una delle sue figlie vede tre
uomini salire sulla Bmw del giornalista. Il guidatore accelera in modo brusco,
poi si allontana ad alta velocità.
|
A un chilometro da via delle Magnolie viene ritrovata
la vettura di Mauro De Mauro. Gli investigatori frugano nella Bmw e in
uno scomparto interno recuperano degli appunti relativi ad una
speculazione edilizia. Ora le inchieste e i servizi di Mauro attraggono
l'attenzione degli investigatori. Nel tentativo di trovare la pista
giusta che porti al suoi rapitori, si ricostruisce la sua personalità.
Qualcosa di grosso. Poco prima di sparire, Mauro De
Mauro indaga sugli ultimi due giorni di vita del Presidente dell'Eni
Enrico Mattei. Lo riferisce all'editore e libraio
Fausto Fiaccovio, lo confida a un'amica, ne accenna alla figlia Junia,
ne parla con il collega dell'Ansa Lucio Galluzzo a cui dice che si sta
occupando "di un soggetto per un film di Francesco Rosi". E poi
aggiunge: "E' roba da far tremare l'Italia".
Elda De Mauro, la moglie di Mauro intanto non si da
pace. Mauro non ritorna a casa e a diciassette giorni dal suo rapimento
ricorda un fatto lontano nel tempo, un particolare mai rivelato.....
Alle indagini si interessano tre investigatori, tutti uccisi tra il 1979
e il 1982: il capitano dei carabinieri Giuseppe Russo, il commissario
della mobile Boris Giuliano e il comandante della legione dell'Arma
Carlo Alberto dalla Chiesa. Le piste sono comunque divergenti. Secondo i
carabinieri, De Mauro avrebbe scoperto un traffico di droga
internazionale e per questo sarebbe stato eliminato dalla mafia.
L'ipotesi viene sostenuta dal pentito Gaspare Mutolo, secondo cui De
Mauro venne strangolato da killer di Stefano Bontate, il capo della
"mafia perdente",
La polizia punta dritta alla "pista Mattei". Il
cassetto della sua scrivania nella redazione dell'Ora di Palermo risulta
forzato. Non si trovano più nastri magnetici, dal bloc-notes con gli
appunti sono state strappate due pagine e mancano anche altri fogli più
recenti che riguardano gli incontri avuti nella preparazione della
sceneggiatura del film "Il caso Mattei" di Francesco Rosi. C'è un
sospetto forte, un'ipotesi che non sarà mai approfondita. In quel nastro
e in quei fogli potrebbe esserci la soluzione di due gialli: la morte di
Enrico Mattei e la scomparsa di Mauro De Mauro.
Il caso De Mauro non è ancora chiuso. Il pubblico
ministero di Palermo Giusto Sciacchitano propone l'archiviazione
dell'inchiesta ma il giudice istruttore dello stesso tribunale, Giacomo
Conte, l'8 aprile 1991, chiede alla Procura un supplemento di
indagine:vuole appurare "il ruolo della mafia e i suoi collegamenti con
i poteri occulti, l'estremismo di destra, i servizi segreti e la
massoneria". Secondo il giudice palermitano, "ci sono elementi di prova
che portano a Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone quali autori del
sequestro De Mauro nell'ipotesi che il sequestro sia stato fatto da
qualcuno per bloccare l'inchiesta dei giornalista sulla fine di Mattei".
Sul "caso De Mauro" il pentito Tommaso Buscetta si
rivolge al giudice Giovanni Falcone: "Della morte dei giornalista Mauro
De Mauro non so nulla. Non è faccenda di mafia. Quando ne parlavo con i
miei interlocutori, questi sembravano stupiti. Ho sentito dire in giro
che la sua scomparsa è legata alla morte di un noto politico italiano,
credo che si chiamasse Enrico Mattei".
Il punto centrale della morte di Mauro De Mauro resta
l'incarico che il regista Francesco Rosi gli offre: la sceneggiatura del
film "Il Caso Mattei". E' lì che si concentra il buco nero della sua
sparizione. Cosa poteva avere scoperto De Mauro sugli ultimi giorni di
vita del Presidente dell'Eni, Enrico Mattei? |
UN CANTANTE DIFFICILE (Il Monello N. 47 del 23/11/1976)
Ventiquattro anni, romano de roma,
Francesco De Gregori è oggi considerato uno tra i nostri più giovani e
validi cantautori. I suoi motivi, ispirati alle emozioni più vere e più
belle, trattano l\'amore in chiave moderna, anticonformista. Francesco,
quando ha iniziato a cantare, aveva poco più di quattordici anni. Più
tardi, in coppia con Antonello Venditti, altro noto cantautore romano,
ha omposto un 33 giri che però ha imposto al pubblico in definitiva più
Venditti che non De Gregori. Tuttavia, anche per lui il successo non si
è fatto aspettare troppo. Con la canzone "Alice", un pezzo melodico, un
po\' surrealista, Francesco De Gregori si è rivelato per quel che
valeva.
Ma vediamo un po\' di capire che tipo è Francesco, visto che
nell\'ambiente musicale gode fama di essere un personaggio "difficile",
di avere un carattere sicuramente non malleabile. Francesco, dicono che
sei scorbutico, che non ti va mai di parlare, soprattutto con i
giornalisti. Perché? Scorbutico io? Macché scorbutico! Timido,
piuttosto. E, come succede spesso ai timidi, un po\' aggressivo. Per via
del solito timore di venire aggredito per primo. Quanto ai giornalisti,
è vero, salvo rarissime eccezioni, non parlo con loro, perché tanto ti
fanno parlare e poi scrivono cose che tu non ti sei mai sognato di
raccontare. Mi dispiace. Come sei arrivato alla canzone? Insolitamente.
Fu la tragedia di Luigi Tenco, in un certo senso, a spingermi su questa
strada. Tenco se ne andò da questo mondo perché nessuno lo aveva capito.
Così, mi dissi che era giusto cercare di portare avanti il suo disco e
così, di punto in bianco, decisi di imbracciare la chitarra e cantare.
Prima di allora avevi mai studiato musica? Assolutamente no. Digiuno
completo. Ho studiato lettere e mi piacerebbe laurearmi in storia
contemporanea. Strimpellavo la chitarra, perché mio nonno,
appassionatissimo di musica, me l\'aveva lasciata in eredità. Tuttavia,
prima di allora, non sapevo proprio cosa fosse esattamente una nota. Mi
sono messo d'impegno, ho imparato a suonare la chitarra in modo decente,
poi a comporre musica e, infine, a scrivermi anche le parole. Quando
vuoi veramente qualcosa, riesci quasi sempre a farla, a ottenerla. Il
pubblico che ti segue e che compra i tuoi dischi da chi è formato
principalmente? Dai giovani. Io scrivo per loro, e loro dimostrano di
gradire, di apprezzare la mia musica, i miei testi. Nelle mie canzoni
cerco sempre di affrontare temi e problemi quotidiani. La poesia è anche
e soprattutto nella realtà delle cose di tutti i giorni. Tu sei molto
restio a parlare di te, della tua vita privata. Non credi che il
pubblico abbia il diritto di sapere tutto di te? No, non sono d'accordo!
La mia vita è la mia vita e, come tale, rimane e deve rimanere mia.
Sembra un gioco di parole, ma non lo è. Inoltre, io non credo che alla
gente interessino tante cretinate, parliamoci chiaro. Storie di mogli,
amanti e fidanzate. Al pubblico interessa, io penso, quello che dico con
la mia musica. Una domanda facile facile: ti interessa il matrimonio?
Non sono tagliato per il matrimonio. Fine del discorso. Credi
nell'amicizia? Hai degli amici nell'ambiente della canzone? Per natura,
sono un inguaribile ottimista. Uno di quelli che crede ancora nella
gente, nella possibilità concreta di avere e poter dare dell'amicizia.
Non possiamo vivere soli, isolarci, escludere un contatto,un dialogo.
Non possiamo farlo, anche a costo di delusioni, di amare delusioni. Io
qualche amico ce l'ho, ce l'ho anche nel mio ambiente.Tanto per fare dei
nomi: Fabrizio De André e Lucio Dalla. Francesco, tu sei bravo,
d'accordo, però non sei l'unico. Ci sono
anche Cocciante, Baglioni, Venditti... Li consideri dei rivali? Questo è
un tipo di discorso che non mi piace. E' sterile, trovo. Non mi
piacciono i paragoni e detesto la parola rivalità. Ognuno di noi, vale
per quello che ha dentro, quello che ha da dire. Non considero mai gli
altri sotto questo profilo. Tu hai una vera e propria idiosincrasia per
i festival e per tutte le manifestazioni musicali in genere. Come mai?
Le ritengo terribilmente superate e maledettamante inutili! Sono del
parere che se una canzone è bella, non ha bisogno di
alcuna pubblicità per \"volare\". Però, hai partecipato a una edizione del
"Disco per l'estate"... Allora, era l'unico sistema per riuscire a fare
ascoltare una mia canzone alla radio. Mi servì moltissimo, ma da qui ad
arrivare ad accusarmi di incoerenza ne corre. Del resto, Machiavelli
diceva: "Il fine giustifica i mezzi..." Che effetto ti fa il successo?
Non esageriamo. Il mio successo è ancora e fortunatamente
circoscrivibile. Il successo, poi, è qualcosa di molto impalpabile,
indefinibile. Non mi adagio mai su questi pensieri. Li trovo pericolosi
e poco costruttivi. Non faccio quello che faccio per avere successo, ma
solo per avere la stima e l'affetto del pubblico. E se non avessi fatto
il cantautore? Avrei fatto il maestro elementare. Adoro i bambini. Mi
affascina la loro intelligenza viva, genuina. Mi interessa dialogare con
loro. Sono gli uomini di domani, di sempre. Nella vita, ciscuno di noi
ha degli affetti. Grandi e piccoli. Tu ne hai? Certamente. L'affetto più
grande, quello più vero è mia madre. E' una donna sensibile e
meravigliosa. Se sono riuscito a combinare qualcosa di buono, lo devo
anche a lei. Per il resto... Beh, per il resto, sono cose mie. Puoi
dirci dove vivi e con chi vivi? Insistiamo, eh? Va bene, farò uno
strappo alla regola e vi racconterò qualcosa, qualcosina. Abito da solo
in un piccolo appartamento a Trastevere. Roma è la mia città e qui, nel
cuore di Roma, trovo l'ispirazione. I tuoi programmi più immediati? Ho
appena finito di registrare per la tv uno "special" che andrà in onda
prossimamente sulla rete due. Spero sia l\'occasione giusta per farmi
conoscere dal grande pubblico. Nel corso di questo show, presento
canzoni vecchie e nuove del mio repertorio, un quadro abbastanza preciso
ed esauriente di come sono musicalmente. Sempre in questi giorni sto
lavorando intorno al mio ultimo 33 giri, al quale sono legati alcuni
momenti importanti della mia vita. Cosa ti aspetti, Francesco? Capire la
gente. Essere capito.
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Stando
alla RCA mi è capitato di parlare di Tenco e ognuno mi ha detto la sua idea sul
perchè si fosse sparato. C'è stato chi ha detto che aveva debiti di gioco, chi
ha detto che era sfortunato con le donne, chi ha detto che beveva whisky sopra i
tranquillanti e si drogava in quel modo ed era in uno stato ipnotico quando si è
sparato; nessuno però ha detto che si è sparato perchè non stava bene a Sanremo,
che forse è l'unica ragione. Quando ha saputo di essere stato eliminato si è
alzato, ha cominciato ad inveire a destra e a manca e poi è andato via e si è
ucciso. La mattina dopo lo hanno portato lontano da Sanremo perchè nessuno
doveva vederlo. Per evitare che i giornalisti se ne andassero dal festival
e andassero a vedere il funerale di Tenco. Comunque non è una canzone sul
suicidio di Tenco ma sul ruolo di Tenco. La canzone è sulla televisione e sui
nemici storici di quelli che fanno canzoni e non vengono capiti. E sono gli
stessi poi a cui dietro il palco sudano gli occhi invece di piangere, quelli che
alla televisione dicono va bene però andiamo avanti, sono i cantanti che il
giorno dopo vanno sul palco a cantare tranquilli e fanno la parte delle
marionette perchè nessuno poteva essere allegro lì. Però il giorno dopo
cantavano tutti per andare in finale. E' questo mondo spaventoso di Ariccia,
Castrocaro: un mondo che nel '66 era un mondo vero, esisteva, c'era solo quello
e chi non era di quel mondo era emarginato. Anche Paoli nella sua vita ha
episodi simili a quelli di Tenco, di solitudine, di sfiducia, di crisi; anche De
André era un isolato, non si faceva vedere...
Forse sembriamo diversi, i festival sono crollati, ma esistono le Hit parade.
Tenco è vittima di un'industria, di un ingranaggio; c'è la vittima Tenco
e c'è la vittima Pasqualino che va con tanta fiducia da Siracusa ad
Ariccia e il viaggio gli costa cinquantamila lire e viene scartato
perchè canta male e tutti sapevano fin dall'inizio che avrebbe cantato
male e anche se avesse cantato bene non sarebbe cambiato niente, e gli
hanno rubato cinquantamila lire, e se ne torna a casa infelice,
frustrato e con cinquantamila lire di meno, pronto ad emigrare nel
secondo reparto Celere... è il mondo di quegli anni che andava così, e
Tenco è il momento di contraddizione. Tenco non è un personaggio
vincente, non è una persona che ha agito bene, e io non ho voluto fare
una canzone per difenderlo, ho voluto parlare di Tenco perchè è
esistito. Oggi, o non se ne parla mai o si fanno delle commemorazioni
macabre..
E' la città dei fiori, disse chi lo vide passare, che forse aveva bevuto troppo,
ma per lui era normale.
Qualcuno pensò fu problema di donne, un altro disse, proprio quasi come Marylin
Monroe.
Lo portarono via in duecento,
peccato fosse solo quando se ne andò.
La notte che presero il vino e ci lavarono la strada. Chi ha ucciso quel giovane
angelo che girava senza spada?
E l'uomo della televisione disse: "Nessuna lacrima vada sprecata,
in fin dei conti cosa c'è di più bello della vita, la primavera è quasi
cominciata".
Qualcuno ricordò che aveva dei debiti, mormorò sotto banco che quello era il
motivo.
Era pieno di tranquillanti, ma non era un ragazzo cattivo.
La notte che presero le sue mani e le usarono per un applauso più forte.
Chi ha ucciso il piccolo principe che non credeva nella morte?
E lontano, lontano si può dire di tutto, non che il silenzio non sia stato
osservato.
L'inviato della pagina musicale scrisse "tutto è stato pagato".
Si ritrovarono dietro il palco, con gli occhi sudati e le mani in tasca.
Tutti dicevano: "io ero stato suo padre", purché lo spettacolo non finisca.
La notte che tutti andarono a cena e canticchiarono la "Vie en rose"
chi ha ucciso, il figlio della portiera, che aveva fretta, che non si fermò?
E così fu la fine del gioco, con gli amici venuti da lontano.
a deporre una rosa sulla cronaca nera, a chiudere un occhio, a stringere una
mano.
Alcuni lo ricordano ancora, mentre accende una sigaretta,
altri ne hanno fatto un monumento per dimenticare un po' più in fretta.
La notte che presero il vino e ci lavarono la strada, chi ha ucciso quel giovane
angelo,
che girava senza spada?
L'altro stomp "Festival" è di una chiarezza disarmante, di un vai e vieni di
oleografie obbligatorie precise e scioccanti: tutto un mondo di fans, stars,
media, profittatori, intriganti, amici dell'ultimo momento, moralisti, buffoni
perbenisti, creatori di scandali finti da copertina dei giornali a vendita
inverosimile. La morte di Luigi Tenco vista come un "affaire" pubblicitario,
pseudosociale, pseudopsichiatrico, quando la verità parla solo di un "giovane
angelo che girava senza spada", un ingenuo, un puro senza armi da opporre ad un
mondo scafato e coinvolgente, cinico e
fuorviante. De Gregori li mette in fila tutti: quelli che si appropriano di una
pietà mediatica ("lo
ortarono via in duecento, peccato solo quando se ne andò"), quelli che
costruiscono la pietà ("e l'uomo della televisione disse, nessuna lacrima vada
sprecata"), quelli che cianciano di motivi e cause per giustificare il suicidio
("aveva dei debiti", "era pieno di tranquillanti", però "non era un ragazzo
cattivo" (?)), quelli che ne fecero epoca e mito ("l'inviato della pagina
musicale scrisse: TUTTO è STATO PAGATO),
quelli che dopo averlo convinto ad esibirsi a Sanremo tra lacrime false
balbettano "io sono stato suo padre", e quelli infine che lo hanno eletto, lo
hanno innalzato a chissà quale simbolo "per dimenticare un po' più in fretta".
In questa serie di ruffiani, falsificatori, critici illusi, cialtroni c'è tutta
l'umanità di un compromesso, del non aver capito che niente, niente di tutto ciò
aveva determinato la fine di Tenco. E che la fine di Tenco non si poteva nemmeno
lontanamente accostare ad un fallimento pubblico, ad un inganno pseudo-popolare
come Sanremo. La fine di Tenco era in lui e nella disperazione di essere
arrivato prima del tempo, di aver sbattuto sulla disattenzione morale ed
esistenziale di spettatori mal preparati dai "media". E di "media" mediocri,
piccini, leccaculo, noncuranti nei riguardi di una canzone che c'era già e loro
pretendevano inutile o di poco conto nel panorama tranquillizzante della musica
italiana. De Gregori fa di "Festival" una canzone d'accusa totale, prima che di
pietà. Smette la veste lirica per scendere all'invettiva e in questo si
differenzia dallo stesso tema trattato da De Andrè (Preghiera in gennaio).
Roberto Vecchioni.
ROMANO -
Parliamo di' "Festival", che mi sembra abbastanza chiaramente
riferita a Luigi Tenco.
DE GREGORI -
Stando alla RCA mi è capitato di parlare di Tenco e ognuno mi ha
detto la sua idea sul perchè si fosse sparato. C'è stato chi ha
detto che aveva debiti di gioco, chi ha detto che era sfortunato con
le donne, chi ha detto che beveva whisky sopra i tranquillanti e si
drogava in quel modo ed era in uno stato ipnotico quando si è
sparato; nessuno però ha detto che si è sparato perchè non stava
bene a Sanremo, che forse è l'unica ragione. Quando ha saputo di
essere stato eliminato si è alzato, ha cominciato ad inveire a
destra e a manca e poi è andato via e si è ucciso.
GIACCIO - E poi
la mattina dopo?
DE GREGORI - Lo
hanno portato lontano da Sanremo perchè nessuno doveva vederlo.
GIACCIO - Per
non rovinare l'atmosfera del festival.
DE GREGORI -
Suppongo che fosse per questo, non lo so. Per evitare che i
giornalisti se ne andassero dal festival e andassero a vedere il
funerale di Tenco. Comunque non è una canzone sul suicidio di Tenco
ma sul ruolo di Tenco. La canzone è sulla televisione e sui nemici
storici di quelli che fanno canzoni e non vengono capiti. E sono gli
stessi poi a cui dietro il palco sudano gli occhi invece di
piangere, quelli che alla televisione dicono va bene però andiamo
avanti, sono i cantanti che il giorno dopo vanno sul palco a cantare
tranquilli e fanno la parte delle marionette perchè nessuno poteva
essere allegro lì. Però il giorno dopo cantavano tutti per andare in
finale. E' questo mondo spaventoso di Ariccia, Castrocaro: un mondo
che nel '66 era un mondo vero, esisteva, c'era solo quello e chi non
era di quel mondo era emarginato. Anche Paoli nella sua vita ha
episodi simili a quelli di Tenco, di solitudine, di sfiducia, di
crisi; anche De André era un isolato, non si faceva vedere...
GIACCIO - Oggi
però queste manifestazioni non hanno quasi più valore sul piano del
costume.
DE GREGORI -
Forse sembriamo diversi, i festival sono crollati, ma esistono le
Hit parade.
GIACCIO - C'è
anche un pubblico che prima quasi non esisteva, un pubblico
presente, militante, chiamalo come vuoi...
DE GREGORI -
Non sono d'accordo su questo, esiste un pubblico drogato esattamente
corne prima, che odia le novità, le cose diverse... e c'è
un'industrìa. Tenco è vittima di un'industria, di un ingranaggio;
c'è la vittima Tenco e c'è la vittima Pasqualino che va con tanta
fiducia da Siracusa ad Ariccia e il viaggio gli costa cinquantamila
lire e viene scartato perchè canta male e tutti sapevano fin
dall'inizio che avrebbe cantato male e anche se avesse cantato bene
non sarebbe cambiato niente, e gli hanno rubato cinquantamila lire,
e se ne torna a casa infelice, frustrato e con cinquantamila lire di
meno, pronto ad emigrare nel secondo reparto Celere... è il mondo di
quegli anni che andava così, e Tenco è il momento di contraddizione.
Tenco non è un personaggio vincente, non è una persona che ha agito
bene, e io non ho voluto fare una canzone per difenderlo, ho voluto
parlare di Tenco perchè è esistito. Oggi, o non se ne parla mai o si
fanno delle commemorazioni macabre.
da FRANCESCO DE
GREGORI, UN MITO
di Michelangelo Romano, Paolo Giaccio e Riccardo Piferi
-
Edizioni Lato Side – 1980
|
Gino Paoli e i jazzisti italiani rendono omaggio a Luigi Tenco
Annunciata una serata a Roma per il quarantennale della morte
dell'artista
18-01-2007 - Si terrà martedì 23 gennaio, alle 21:00 nella Sala Sinopoli
dell'Auditorium di Roma, una serata omaggio alla memoria di Luigi Tenco,
il grande cantautore di cui ricorre il quarantennale della drammatica
morte, avvenuta a Sanremo tra il 26 e il 27 gennaio 1967. Sul palco
dell'Auditorium si esibiranno Gino Paoli, affiancato da jazzisti come
Danilo Rea, Rosario Bonaccorso e Roberto Gatto, e Ada Montellanico, con
l'accompagnamento di Enrico Pierannunzi. Le due formazioni si
alterneranno nell'esecuzione dei brani più amati ma anche di alcune
rarità del repertorio di Luigi Tenco. Ad offrire la loro testimonianza
saranno ospiti come Renzo Arbore, Enrico De Angelis, Aldo Fegatelli
Colonna, Mimma Gaspari, Giancarlo Governi e Pietro Vivarelli. Una
vicenda drammatica quella di Tenco che si spera abbia trovato una
conclusione a seguito della recente autopsia che ha definitivamente
sancito la morte per suicidio. Un omaggio alle canzoni di Tenco è stato
annunciato anche al Festival di Sanremo. Pippo Baudo diresse per la
prima volta il festival nel 1968, l'anno dopo la morte del cantautore.
Da "Il Tempo", venerdì 10 febbraio 1967.
Luigi Tenco ha voluto colpire a sangue il sonno mentale dell'italiano
medio
Tornare su un fatto di cronaca alla distanza di due giorni è già
fastidioso per il lettore di quotidiani, ma insistere su qualcosa che è
avvenuto due settimane prima è forse imperdonabile.
Oggi la morte, le alluvioni, le guerre sono spinte da altre catastrofi o
da occasioni mondane nel breve corso di 24 ore.
Ma non siamo qui per fare della morale sulle leggi e sui costumi della
nostra civiltà, diciamo invece che la noia è la minaccia che fa
ingiallire i volti amati o odiati di ieri.
Eppure vogliamo parlarvi ancora di Luigi Tenco, cantautore, che per un
giorno si è conquistato con la morte tanta notorietà come non era mai
riuscito da vivo con le sue canzoni. Diciamo per un giorno, perché la
gente ha preferito poi dimenticarlo in fretta, quasi per un senso di
omertà come sempre avviene quando ci si sente in un certo senso
colpevoli, coinvolti. E non siamo forse un po' tutti responsabili
dell'atto estremo del cantante, noi che esaltiamo e sopportiamo il
carosello del festival, da anni, senza esigere nemmeno un livello minimo
di intelligenza nei contenuti delle canzoni?
La gente ha pianto la sua giovinezza, il mito del suicida che è caro al
pubblico fin dai tempi dei cantastorie e del melodramma. E subito c'è
stato chi ha detto: "Oggi i giovani si uccidono per una canzone! Sono
dei deboli, ai miei tempi non si faceva così". Già, il suicidio è un
atto di presunzione, un atto di viltà. E allora il suicidio, la sua
tremenda soluzione finale, ha attirato su Luigi Tenco una condanna:
quella che per lui doveva essere una specie di lezione morale non è
stata che una conferma della sua fragilità.
Prendeva i tranquillanti, dicono: perché, domandiamo noi? Perché nei suoi
occhi mentre cantava l'ultima canzone c'era la cupa angoscia che tutti
abbiamo visto?
Si potrebbe rispondere che i giovani vanno dove noi li lasciamo andare
indicando loro la strada con tanto di frecce, manifesti, cartelli. I
giovani e in questo caso i cantanti, i divi, sono esseri viventi e non
prodotti da lanciare sul mercato e da gettare via quando i gusti dei
consumatori reclamano una nuova etichetta. Così avviene nel mondo dello
spettacolo e soprattutto oggi in quello dell'industria discografica che
va forte, a giri di miliardi. Chi è furbo capisce che le qualità sono
difetti agli occhi del pubblico e che solo ciò che è generico e non
agita le opinioni dei benpensanti va bene, è lecito. I capelloni, i
beat, i folk e i canti di protesta sono accolti purché non superino
l'avanguardia rivoluzionaria della Vispa Teresa. Luigi Tenco ha voluto
colpire a sangue il sonno mentale dell'italiano medio. La sua ribellione
che coincideva con una situazione personale di uomo arrivato alla resa
dei conti con la carriera, ha però ancora una volta urtato contro il
muro dell'ottusità. Chi non è in grado di domandare un minimo di
intelligenza a una canzone non può certo capire una morte.
Il risultato del festival ha reso ancora più stridente il contrasto tra la
reazione delle giurie e l'impegno che Luigi Tenco aveva sperato di
richiamare con la violenza contro se stesso.
Perciò pensiamo che pochi lo abbiano capito e per questo non vogliamo
dimenticare il suicidio di Luigi Tenco che va al di là di ogni
sdrucciolevole simbolismo beat.
Salvatore Quasimodo
Ciao Luigi,
le cose qui non sono cambiate, anzi il mondo fuori dalle canzoni sta
pure peggiorando!
Tu, però, hai smosso davvero tante coscienze, purtroppo solo nelle menti
degli autori di canzoni o rari pensatori, che magari spesso non riescono
o non vogliono gettarsi nella mischia mediatica che ci sta fagocitando
tutti.
Ah sapessi che esibizionismi, che progressi, che telefonini senza fili,
che immagini nelle case, nelle scuole, nel privato... l'era
dell'apparire a tutti i costi ha preso il sopravvento, e non proprio in
un tempo "Lontano lontano" dalla tua esistenza. Per sentire un po’ di
realtà, ormai, non ci resta che il telegiornale: ma che brutte notizie!
Personalmente non sono e non voglio allenarmi per stare al passo coi
tempi, e se ci provo... mi viene il fiatone!
Dalla tua morte tanto si è detto e scritto su di te. Risuonano ancora
attuali, e implacabili, le parole di Quasimodo: "Luigi Tenco ha voluto
colpire a sangue il sonno mentale dell'italiano medio. La sua
ribellione, che coincideva con una situazione personale di uomo arrivato
alla resa dei conti con la carriera, ha però ancora una volta urtato
contro il muro dell'ottusità. CHI NON È IN GRADO DI DOMANDARE UN MINIMO
DI INTELLIGENZA AD UNA CANZONE NON PUÒ CERTO CAPIRE UNA MORTE."
Lo sai? Io che in "Canzone Semplice" ho scritto "io mi sconfortavo se
non producevo, e negli occhi mi viaggiava un velo di noiezza" e ancora
"alzo il volume della vita, perché la Vita è un'altra cosa e una canzone
non lo sa"... anche ricordandomi di te... non voglio più sconfortarmi e,
nel tentativo di capire la tua morte, continuerò per la mia strada,
chiedendo sempre un minimo di intelligenza... almeno alla canzone.
Ciao Luigi.
Aida Satta Flores
Palermo, 27 gennaio 2007
Domani uscirà un nuovo libro dedicato alla
figura di Luigi Tenco
Un Luigi Tenco inedito, grande conquistatore di donne e musicista di
talento, che aveva capito che la formula della canzone d'autore era già
vecchia e che voleva fare musica nuova, dischi nuovi: è quanto viene
rivelato nel libro ''Ed ora che avrei mille cose da fare'' (ed. Arcana)
di Renato Tortarolo e Giorgio Carozzi (cugino di Tenco), in uscita il 23
gennaio, a quattro giorni dal quarantennale della scomparsa del
cantautore. "Tenco era di una bellezza incredibile, un uomo di una
straordinaria modernità - spiega Tortarolo, giornalista del Secolo XIX -
Abbiamo di lui un'immagine triste. Ma Tenco era un rivoluzionario per la
sua epoca, sotto molti punti di vista". L'autore ha raccolto numerose
testimonianze, da Claudio Baglioni a Renato Zero, da Enzo Jannacci a
Gino Paoli. "Tutti mi hanno detto che era uomo che si innamorava di
qualsiasi idea con una passione indescrivibile".
Secondo Tortarolo, "l'assurdità di come Tenco è ricordato, compresa
l'ultima nefanda inchiesta di due anni fa, quando è stata riesumata la
salma. Carozzi scrive che Tenco era un rivoluzionario, faceva il
Sessantotto nel '65. Per Tenco avere successo di per se' non era
sbagliato, ma voleva poter dire la sua avendo successo. Come fa ora
Bono. E' stato un antesignano. Lo dimostrano canzoni come Ciao Amore
Ciao, nata con un tema dedicato alla guerra. Solo che il mitico Melis
della Rca gli disse 'a Sanremo non ci andiamo con questo brano'". Il
volume "finisce un attimo prima della rivoltellata. Tenco non è la
pallottola e dopo - spiega Tortarolo - Tenco è prima".
ROMA, 21 GEN - Un Luigi Tenco inedito sara' rivelato nel libro 'Ed ora
che avrei mille cose da fare' di Renato Tortarolo e Giorgio Carozzi . Il
volume e' in uscita il 23 gennaio, a quattro giorni dal quarantennale
della scomparsa del cantautore. Nel libro si parla del cantante come di
un grande conquistatore di donne e musicista di talento, che aveva
capito che la formula della canzone d'autore era gia' vecchia e che
voleva fare musica nuova, dischi nuovi. |
Da "La Stampa", martedì 31 gennaio 1967
Attesi invano i celebri divi
della canzone
Non un
collega ha seguito i funerali di Luigi Tenco
In una fredda mattina di nebbia,
la salma del cantautore è giunta a Ricaldone da Recco accompagnata dal
fratello - I cantanti che la notte del suicidio avevano pianto, urlato e
imprecato, sono rimasti a dormire: non hanno inviato neppure un fiore -
Il mesto corteo è stato seguito da una folla di anonimi ammiratori.
Cassine, lunedì matt.
Nessuno dei celebri cantanti è venuto al funerale dell'infelice collega
Luigi Tenco, e non è venuta nessuna cantante. Nessuno di loro ha mandato
un fiore. Ecco il finale impietoso di una tragedia amarissima.
Impietoso e sorprendente. Perchè, dopo quanto era accaduto nella notte
sul 27 gennaio e il mattino seguente, era facile immaginare una folla
mesta e commossa di cantanti dietro il feretro di Tenco. Quella notte e
il mattino seguente c'erano stati pianti, urla, svenimenti. L'isterico
grido: "Assassini, lo avete ucciso". Gente sbigottita, affranta,
furibonda. E seriamente alcuni avevano proposto di sospendere il
Festival.
Poche volte si era vista tanta partecipazione ad un evento luttuoso. Ma
alle otto del mattino la salma di Tenco era stata portata dalla porta
della dipendenza dell'albergo, seguita dal fratello e da nessun altro.
Poi, la commissione organizzativa aveva deciso: "Il festival di Sanremo
proseguirà regolarmente fino alla sua conclusione. Il triste episodio
avvenuto questa notte non deve influire sulla rassegna perchè così vuole
la tradizione del mondo dello spettacolo".
Comunque la tradizione - se non la pietà - vuole anche che si segua il
funerale di un collega. Ciò ieri non è avvenuto. Quando si è cercata una
persona nota nel mondo dello spettacolo, si è trovato il cantautore De
Andrè e la moglie di Gino Paoli, la quale era stata compagna di scuola
di Tenco. C'erano le corone dell' "Ata" che organizza il Festival, e
della "Rca", la casa discografica di Tenco, ma non c'erano corone nè
mazzi di fiori di colleghi.
È un mattino di nebbia e di freddo. La salma del cantautore giunge da
Recco accompagnata dal fratello e da altri familiari. Non hanno permesso
alla madre di venire. L'altra domenica la donna è stata su fino alle due
di notte a stirare per Luigi le camicie da portare a Sanremo, il figlio
le aveva fatto compagnia. Egli le parlava dei suoi progetti, ma ogni
tanto si rannuvolava, appariva nervoso: "Sai, mamma, non vado volentieri
a Sanremo".
Adesso la sua salma è nella casa degli zii di Ricaldone, un paese tra le
colline alle spalle di Acqui, dove egli è stato ragazzo. Nell'aia vi
sono le corone dei parenti e una degli "Amici della leva di Ricaldone".
Hanno visto Tenco l'ultima volta dieci, quindici anni fa, e forse lui
non si ricordava più di parecchi di loro. Ma ora sono tutti qui con una
corona e vogliono portare il feretro a spalla.
Cresce la folla: tutta la gente di Ricaldone e parecchi venuti dai paesi
vicini. Ogni tanto arriva un'auto di Milano, di Genova, di Torino e vi
si cerca il cantante famoso. "Impossibile che non venga nessuno", si
dice. Non viene nessuno.
Alle 11 il funerale si muove, preceduto dal prevosto don Ighino, seguito
da oltre duemila persone, che la chiesa di Ricaldone non contiene tutte.
Dopo la Messa funebre, la salma viene portata alla tomba di famiglia. Il
freddo è più intenso, la nebbia è aumentata. La folla si scioglie in
silenzio. È stato un funerale come tanti altri di questi paesi. Non è
venuto nessuno dei celebri cantanti, come se tutti avessero troppa
fretta di dimenticare il colpo di pistola di venerdì notte. Luciano
Curino |
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Tobia era un collaboratore di Lucio Dalla. Un tipo divertente. Ma la canzone non
parla di lui, mi piaceva solo quel nome, e l'ho usato, tutto qui: il resto è una
storia immaginata da me. Visto che comunque Tobia in qualche modo c'entrava feci
ascoltare il pezzo a Dalla e lui mi diede qualche dritta sulla musica, come
aveva fatto a suo tempo con Pablo
Tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites -
allegato al Corriere della Sera
Giovane esploratore Tobia,
quinci anni a settembre presso a poco un bambino,
scrive il suo nome nella grotta del bue Marino, con la sua strana calligrafia,
giovane esploratore Tobia.
Giovane esploratore Tobia, nato da un padre d'acciaio e da una madre distratta,
alle spalle un'infanzia igienicamente perfetta: morbillo, tristezza e
nessun'altra malattia,
giovane esploratore Tobia.
Giovane esploratore Tobia, parte per la gita scolastica e non sa che fare,
gira la testa e vede un vagone bruciare, tira l'allarme e salva la ferrovia,
Giovane esploratore Tobia.
GIACCIO – Tu
hai fatto il boy-scout? Te lo chiedo perchè Tobia, il protagonista
di quest'altra canzone, è un giovane esploratore.
DE GREGORI -
No, non l'ho fatto; Tobia" è un personaggio emblematico. Quello che
fa paura dei giovani esploratori è l'inconcludenza; loro imparano ad
accendere i fuochi.
GIACCIO - Non
sei aggiornato, sono politicizzati.
DE GREGORI - lo
ho emblematizzato il personaggio dello scout: per intenderci, lo
scout che nelle barzellette deve fare la sua buona azione
quotidiana. Chiedo scusa a tutti gli scout se ho preso la loro
figura oleografica per parlare di un personaggio come Tobia. E se
avessi approfittato invece delle Giovani Marmotte? Insomma, un conto
è il Movimento scoutistico Internazionale analizzabile in termini
storici e politici, un conto è l'immagine dello scout che io posso
usare in una canzone. Ti giuro che certe volte io racconto le
barzellette sulla tirchieria dei genovesi, ma lucidamente non sono
disposto ad ammettere che i genovesi siano più tirchi dei romani.
Bel casino, eh?
GIACCIO - E
"Tobia"?
DE GREGORI - E'
un personaggio sano, americano, continua il discorso sull'America
come già in "Disastro aereo sul Canale di Sicilia" e in "Bufalo
Bill". Questi sono tre momenti americani, con personaggi con tutti i
denti a posto e che non sbagliano mai. Però "Tobia" è una persona
che tutto sommato sogna, che ha grossi problemi alle spalle di
infanzia pulita, precisa, sola, probabilmente nevrotica, che fa
queste cose scontate. Ma in realtà volevo riferirmi a tutte quelle
persone che vivono il marxismo in maniera cattolica, in maniera
evangelica addirittura. Diciamo che è una canzone che io ho scritto
dopo aver fatto dei discorsi con dei ragazzi che mi hanno sconvolto
per la loro impreparazione e per la loro faciloneria nel definirsi
di sinistra. Quando una persona mi dice “sono comunista” vorrei che
mi portasse delle prove precise sui suo essere comunista, non
solamente delle cose per sentito dire. Ho conosciuto persone che
erano di sinistra per sentito dire e credo che siano pericolose
perchè non si è mai di sinistra per tutta una vita in questa
maniera, ci si può rimanere per due o tre anni, poi crollano certe
cose; e inevitabilmente ci si trova senza un'ideología e quando a 18
- 20 anni si è costretti ad inventarsi un'ideologia da zero è molto
facile che si diventi una persona disponibile, nel migliore dei casi
al qualunquismo.
da FRANCESCO DE
GREGORI, UN MITO
di Michelangelo Romano, Paolo Giaccio e Riccardo Piferi
-
Edizioni Lato Side – 1980
|
Secondo pezzo della facciata "lpercarmela". Bufalo Bill finisce con un accenno a
"Bandiera rossa". In "Ipercarmela" un inciso di "Passion fiowers , versione
ballabile di "Per Elisa".
"Ipercarmela" è vecchissima, fu scritta prima ancora che uscisse "Rimmel". E' la
storia di due emigranti contenti che stanno a Torino e accettano la logica di
Torino: il marito chiudendosi in cucina in questo mito della proprietà della sua
casa; la donna accettando il ruolo di schiava e drogandosi di giornali
femminili. Quindi due persone perdute dal punto di vista umano, in perfetta
sincronia con la violenza della città che li ha accolti. E poi la nascita di
questa bambina: nasce con dei buoni auspici, nasce come una stella, una cosa
diversa, e sorride. Ride sempre, 'Ipercarmela' è una canzone ingenua,
iperrealistica, una canzone in cui si vedono tutti i muscoli.
La cucina era vuota, il bicchiere a metà,
l'uomo guardava serio il muro,
e poi seguiva il fumo che saliva lento verso la lampadina.
La stagione era quasi finita, l'uomo pensava: "Questa è casa mia".
Nella stanza del letto la donna grassa e nervosa, guardava su un giornale a
colori, la vita di una donna bionda,
famosa e ricca. "Con qualche anno in meno", pensò,
"qualche anno di meno, e lei
somiglierebbe a me".
E il tempo passa come una colomba
sulla casa dell'uomo e della donna,
dentro una città pulita e violenta
la donna
partorì una stella e la chiamò Carmela!
Figlia di suo padre e sua madre, fiocco rosa da crescere in fretta.
Rideva quasi sempre, piangere, non piangeva mai.
|
Era un bel periodo. Il successo di Rimmel mi aveva reso comprensibilmente felice
e sicuro di me. Avevo 24 anni, ero giovane, ero libero, la cosa che amavo di più
era fare musica e avevo capito che mi riusciva bene, che poteva essere il mio
mestiere. E questo non mi spaventava. Ero soddisfatto di me e nell'affrontare
questo nuovo disco non avevo ansie o aspettative particolari, mi sentivo in
grado di andare dove volevo, sperimentare nuovi suoni, ricominciare da capo.
Erano cose che mi facevano sentire bene".
|
Carmela è una bambina nata dentro
una città pulita e violenta, probabilmente la Torino operaia della
fine degli anni Settanta (ma questo la canzone non lo dice, lo fa
solo intuire).
È figlia del suo tempo difficile
e tormentato, dove progettare il futuro era un privilegio per pochi.
La super, o meglio l’iper bambina, figlia di un uomo che ha
realizzato il piccolo e fondamentale sogno di una casa e di una
donna che sogna sulle immagini dei fotoromanzi, è una meteora
lanciata sul futuro. Il padre sembra uscito da "Rocco e i suoi
fratelli", la madre è una Anna Magnani in bianco e nero. Sulla casa
dell’uomo e della donna, sulla loro esistenza difficile, sui loro
pensieri tormentati inseguiti lungo il filo di fumo di una sigaretta
verso la luce della lampadina, cade come una stella un bambina col
sorriso della vita che esplode. Carmela non piange mai, è
l’apparizione che deflagra dentro lo scenario asfittico della vita
quotidiana. .
A marcare la grandezza
dell’evento è la musica che all’improvviso diventa sincopata e
veloce, perché cambia il tempo. Carmela è il futuro che non ti
aspetti più e che irrompe improvviso nella vita quotidiana di una
coppia dall’esistenza identica a quella di milioni di persone
partite da un paese del sud verso la città produttiva e operaia,
dove comprarsi una casa è un traguardo inimmaginabile e capace di
ribaltare il mondo. Carmela è iper proprio per questo, perché è
capace di portare dentro la vita conosciuta la vita nuova. E di
staccare dai muri la tristezza della vita conosciuta davanti a un
bicchiere mezzo vuoto, dentro uno scenario da neorealismo
cinematografico.
Giommaria Monti, autore
di "Francesco De Gregori. Dell'amore e di altre canzoni" per
https://www.rockol.it/news-735724/8-marzo-otto-donne-cantate-da-francesco-de-gregori
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INGRANDIRE A COLORI LE IMMAGINI DELLA VITA
Francesco De Gregori - che in questi
giorni compie venticinque anni - sta per pubblicare ilq uarto ellepì
'solo' della sua carriera intitolato "Le avventure di Bufalo Bill". Un
microsolco con brani, in un certo senso molto più 'accessibili' dei
precedenti. Il rapporto con suo fratello, il cantautore Luigi Grechi con
Fabrizio De Andrè. Iniziata una lunga tournèe. Nuovo Sound del 2.4.1976
- di Susanna Suman
Non è, in assoluto, un luogo sublime per godere le sensazioni di una
buona musica, ma quel lucido metallo zeppo di fredde manopole e inerti
spie luminose è l'angusta trappola di tutte le canzoni che mani esperte
trasformano in nastri e proprio lì, lontani da ogni distrazione, è
giusto fare il primo ascolto di un prodotto che sta per nascere.
L'imputato era lì che si avvolgeva lentamente intorno al suo nucleo,
diffondendo a tutto volume le note dei primi brani dei nuovo LP di
Francesco De Gregori, sotto l'occhio vigile di chi mi aveva
accompagnato, un po' per cortesia, un po' per cogliere le mìe reazioni.
La posizione dei critico (osservato) è delicata, a volte imbarazzante e
la freddezza, tutta tesa all'obìettività, salva ogni situazione. La
fronte un po' aggrottata nella concentrazione, lo sguardo alla ricerca
di un punto vuoto, ascolto.
... Che strano - mi sorprendo a dire un po' sovrappensiero - c'è
qualcosa che mi fa pensare a Tenco...": e ricordo per un minuto quei
tragici giorni con la mia interlocutrice, che mi guarda un po'
incredula. E intanto ho dimenticato la voce di Francesco.
Chiedo scusa, e ricomincio ad ascoltare "Le avventure di Bufalo Bili",
"Giovane esploratore Tobia", "lpercarmeia", "L'aereo perduto" e... non
posso fare a meno di notare, di nuovo ad alta voce, che sento qualcosa,
nel modo di porgere, di esprimere certe frasi, che mi ricorda un amico
perduto quando ero ancora poco più che bambina, e che per questo non
dimenticherò mai.
Mi guardano tutti un po' stranamente ancora per un attimo, poi si
ricomincia, finché sento la voce di Francesco, più nitida e incisiva che
mai, parlare di "riviera dei fiori" e di uno che "...dicono che aveva
bevuto troppo....... due battute e capisco che avevo capito che
Francesco non solo aveva capito, ma ci aveva fatto capire... mentre i
miei "inquilini" di saletta non mi guardavano più strano.
Due minuti e mezzo, il tempo di ascoltare (si e no) "Ninetto" e una
sciarpa di lana bianca, lunghissima, tra un cappotto e Francesco De
Gregori appare sulla porta, preceduto da un sorriso luminoso e un po'
timido.
Come può, mi domando guardandolo entrare, aver capito e colto tante cose
che soltanto chi era a Sanremo quel 27 gennaio 1967 può aver sentito (e
neanche tutti)? E mi dico che non è facile capire Francesco, nel suo
burbero mondo, fatto di tenerezza e di indifesa aggressività, più forte
di chi urla, quando parla calmo e in apparenza ironicamente distaccato,
più profondo delle sue rapide immagini da collage, di chi scava
lucidamente con parole chiare, ancora fino ad oggi vergine e in un certo
senso incosciente della sua responsabilità di "voce" della nuova
generazione.
FDG: "Non conoscevo Luigi Tenco (andavo ancora a scuola, a quell'epoca)
ma come tanti ragazzi lo avevo visto in televisione, quella sera, e mi
aveva fortemente impressionato la sua faccia, mi aveva turbato: così ho
raccolto testimonianze, ho sentito le varie interpretazíoni di chi era
stato lì e di chi non c'era ed ho cucito insieme, così come mi veniva,
tutto quello che avevo saputo".
SUMAN: Infatti la "magìa" di Francesco è la capacità di fermare in
minuscoli fotogrammi pensieri e immagini che la sua fantasia riesce a
concretizzare, e ad ingrandirli in musica, colorando anche quello che
nella vita quotidiana degnamo appena di un bianco e nero.
FDG: "c'è anche - mi spiega - che quando scrivo una canzone ci metto
dentro cose mie, riferimenti del tutto personali a cui sarebbe difficile
ed irrispettoso dare spiegazioni... le mie canzoni non nascono come
"futuri dischi", ma canzoni mie, e basta".
SUMAN: Non è difficile sposare l'immagire viva di Francesco a quella che
riflettono le sue canzoni, anche se quando ti sta davanti si copre di
quel sorriso disarmante che non s'immagina ascoltandolo soltanto.
Francesco è Francesco De Gregori, quello di Rimmel, quello lì di
Trastevere, quello lì, insomma, sempre. E proprio per questo è facile
ferirlo. La sua forza è tutta proiettata in dimensioni che vanno
dall'introspettivo all'universale, senza vie di mezzo, e in questa gamma
di situazioni intermedie non ha difesa; ma guai a chi sbaglia il segno
anche solo di un millimetro, lui non dice niente, ma se ne ricorda.
Ed ecco che da questi ricordi, dalle esperienze e da quei tenui colori
che la vita quotidiana ti fa respirare nascono le frasi che ritrovi
nelle sue canzoni: alla pari trovi le impressioni e i concetti
universali, mescolati come le immagini che a brandelli ci appaiono
quando ci sforziamo di non pensare, e che lui riesce a fissare così,
senza complimenti, senza scrupolì, in simbiosi o in antitesi con la
melodia, come l'anima vuole.
".,.Quando scrivo non mi faccio condizionare da chi un giorno mi
ascolterà: quello che sento di dire lo dico e non potrei fare
diversamente, non sarebbe più vero...", ti dice abbastanza duramente se
poni in ballo la questione dell'ermetismo dei suoi testi, " io sono
convinto che tutti possano capire, e che comunque è più giusto essere
sinceri anche se ci si esprime in modo difficile piuttosto, che buttare
lì frasi chiarissime ma che restano frasi e niente più".
E a proposito di ermetismo abbiamo ascoltato insieme il suo ultimo
lavoro, e c'è stato poco da chiedere spiegazioni.
.. Credo che se qui capisce del tutto sia innanzitutto perché non
ascolta attentamente, e poi è vero che manca una cultura di massa che
abitui a questo modo di esprimersi, che è, in fondo, il più naturale.
Nella poesia e nell'arte in genere nessuno ha mai obiettato niente, e
l'ermetistmo è stato accettato con riverenza, mentre non si ammette che
si possa fare altrettanto con le canzoni.."
Comunque, i brani di questo nuovo e sospirato Long Playing sono in un
certo senso molto più "accessibili" dei precedenti, e l'atmosfera che vi
si respira è quella di un De Gregori più maturo, meno introverso e
proiettato verso orizzonti píù vasti: un passo ancora avanti,
poeticamente e musicalmente, di pari passo con le esperienze dei suoi
venticinque anni mentre (per fortuna) ancora non si rende conto dei
tutto del suo ruolo di cantastorie dei nostri giorni difficili, del
personaggio ormai pubblico e dell'importanza che la sua poesia ha avuto,
nel breve spazio di un paio d'anni, nel costume italiano, di cui si è
fatto portavoce.
"E' una cosa grande pensare che queste canzoni che due anni fa cantavo
per pochi amici oggi arrivano alla Hit Parade e raggiungono milioni di
persone: questo vuoi dire che qualcosa sta davvero muovendosi..." e
parla come se fantasticasse, come se il suo successo fosse ancora da
venire. Così il nostro discorso volge all'improvviso verso un passato
che sembra tanto lontano, e non lo è.
... In fondo devo tutto a mio fratello Luigi'. Ha sette anni più di me,
e non abbiamo mai avuto una gran confidenza, però era lui in casa che
suonava la chitarra e frequentava il Folkstudio. Quando usciva, mi
impossessavo della chitarra e cercavo le armonie senza sapere da che
parte cominciare. Scrissi così la mia prima canzone, che parlava di un
impiegato che per protesta minacciava di buttarsi giù dal Colosseo, e
che alla fine cadeva davvero. A quell'epoca andavo ancora a scuola, e
mentre i miei coetanei impazzivano per i Beatles, io ammirava Fabrizio
De André, che mi aveva affascinato fin dai suoi primi 45 giri, anche
quelli che in fondo non contenevano che canzoncine. Avevamo in casa un
vecchio registratore, e lì incidevo le canzoni che scrivevo, per non
dimenticarle, insieme a qualche canto popolare. Così capitò che mio
fratello, senza dirmi niente, ascoltasse e imparasse alcune canzoni,
credendo che si trattasse di normale repertorio. Una sera, tornando dal
Folkstudio, dove aveva avuto successo cantandole, mi chiese una per una
di chi erano e dove le avevo trovate... quando seppe che erano tutte mie
mi portò al Folkstudio e... il resto si sa". Oggi Luigi De Gregori, in
arte Luigi Grechi, debutta come cantautore con un LP.
"Mi piace quello che scrive mio fratello, lo trovo molto interessante e
nuovo. La sua decisione è stata improvvisa, dopo tanti anni, e io non
c'entro niente, anche se in questo LP ci sono due vecchi pezzi miei
inediti. Luigi vive e lavora a Milano da anni, ed è lì che si è creato
il suo "giro" artistico che lo ha portato a fare questo disco. Prima,
credo che non ci abbia mai pensato ".
Ancora qualche osservazione sul suo nuovo Long Playing, che come ogni
disco di Francesco, è tutto da ascoltare: ci sono dei motivi di revival
anni '60 e oltre (in the Summertime, Passion Flower, 0 sole mio) sfumati
e quasi impercettibili...
"...Ci sono sempre dei motivi precisi, in questi passaggi, e nel suo
insieme questo disco lo vuoi dimostrare. E' molto diverso da quelli che
ho fatto in precedenza, e sarà diverso dal prossimo, ne sono sícuro,
anche se ancora non ci ho pensato. Sono i miei momenti, è la vita, Mi
chiedi perchè qui non trovi l'argomento 'amore': è perchè, onestamente,
in questo periodo non ho avuto niente che mi stimolasse a parlarne. lo
proprio non ci avevo fatto caso…".
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Allora, immaginate due ragazzi,
due adolescenti. Io non li ho conosciuti
ma potrebbero essere i
ragazzi della porta accanto. Lei si chiama Dolores, abbreviato in Dolly e di
cognome Del mare profondo. Lui viene chiamato Il Figlio del figlio dei fiori.
Due figli di puttana amanti fra di loro, 13 o 14 anni ma già se la spassano e
sono dei delinquenti.
Questi vanno nel bosco, vedono
il cadavere di un grillo che nella mia testa sarebbe il Grillo parlante, la
saggezza, che viene subito stecchito all’inizio della canzone. Poi vedono un
fungo per terra, bello ma allucinogeno e se lo mangiano perché chiaramente sono
dei drogati.
Vedono
un vecchio e decidono di ucciderlo solo perché gli va. Lo aspettano dentro al
bosco e gli tendono un agguato.
Lo
ammazzano, si lavano le mani con un
tozzo di pane
e come
se non fosse accaduto nulla
tornano a casa tranquilli dai genitori mangiandosi il cenone natalizio in santa
pace.
Questa storia non ha molto senso
se non che il vecchio che hanno ammazzato si chiama Babbo Natale e questo dà
tutto un altro “sprint” alla canzone.
Ora perché ho scritto questa
canzone non me lo ricordo pure io, probabilmente odiavo il Natale. Insomma, è
una canzone sulla delinquenza minorile. Pigliatela come vi pare, io mi assumo
tutta la responsabilità.
Non la fate sentire ai bambini.
(Francesco De Gregori, lug 2024)
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GIACCIO - Poi
c'è "L’uccisione di Babbo Natale”.
DE GREGORI - E'
una canzone soprattutto per bambini, parla di un figlio del fiiglio
dei fiori che ammazza Babbo Natale. Questi figli dei fiori mi pare
che non abbiano ucciso nessuno. Sono pieno di rimpianti per questi
hippies, nessuno ammette volentieri di essere stato un hippy. Però 5
anni fa li vedevì tutti quanti che scopavano contenti. Adesso ci
sono dei bambini di 5 anni che sono "i figli dei figli dei fiori".
Forse quando avranno 15 anni faranno delle cose serie.
ROMANO – Un
altro figlio del figlio dei fuori era anche in una tua vecchia
canzone. Io leggevo in quel libro di interviste "Super star",
un'intervista con John Lennon in cui lui citava una serie di nomi
che suonavano bene e che una volta si era scritto e messo da parte,
utilizzandoli poi a distanza di anni: c'era Strawberry fields, c'era
Penny lane tutte cose che non nascevano contemporaneamente ad una
canzone, però suonavano bene.
DE GREGORI - Il
magico 4 per 4 dei circo di Brema è una di queste frasi, il figlio
dei figlio dei fiori è un'altra. Anche perchè avevo fatto una
canzone seria sul figlio dei fiori, la storia di uno in una bella
giornata di pioggia che sta affacciato alla finestra; chiaramente
non è una persona allegra e lo capisce dal fatto che piove e ha
finito le sigarette: pensa che deve uscire per andarle a comprare.
Poi si ricorda di suo padre che è morto ma non ha neanche un ricordo
nitido i questo padre; è morto ed è accettato così. Poi esce e va a
comprare le sigarette, vede una donna che passa e pensa che carina è
questa qui, pensa come sarebbe bello sposarsela. Però non le dice
niente, va a casa, apre il pacchetto di sigarette e comincia a
fumare. Era una canzone sul figlio del figlio dei fiori ed era una
canzone su una persona triste. Sono contento di non aver fatto
uscire questa canzone. Qui invece il figlio del figlio dei fiori
diventa un personaggio positivo, allucinato ma positivo. La storia
non è più una storia realistica ma una favola rivisitata, una favola
con il rituale linguistivo e contenutistico invertito.
ROMANO - Questo
"Babbo Natale' del resto è "carico di ferro e carbone"
DE GREGORI - Un
Babbo Natale poco tradizionale. Invece di portare lo zucchero filato
porta delle cose utili e pesanti, comunque poco belle per un
bambino. Loro comunque gli danno un sacco di botte e poi tornano a
casa dai genitori Ai quali raccontano tranquillamente: "Sai che che
cosa abbiamo fatto? abbiamo scopato e poi ammazzato Babbo Natale". I
genitori che stanno seduti a tavola dicono: "Ah sì, buona questa
minestra"; ..nel paese si sparge la voce che Babbo Natale è stato
ammazzato", nessuno però gli dà molto peso.
GIACCIO -
Insomma i miti distrutti.
DE GREGORI - E'
bello il linguaggio in questa canzone perchè è proprio un linguaggio
da favola. E' Biancaneve e i sette nani. Sai quei disegni in cui si
vede Biancaneve che si fa scopare dai sette nani.
ROMANO - Hai
fatto la prima versione di questa canzone con un arrangiamento molto
ritmato, molto violento, mancava la strofa finale, il ritorno a casa
dai genitori dei figli dei fiori. Come mai l’hai aggiunta dopo?
DE GREGORI -
Perchè l'ho scritta dopo. Prima la canzone finiva dicendo:, "pochi
minuti e si sparse la voce che Babbo Natale era stato ammazzato".
Poi sono andato in tournée, ho fatto questa canzone dal vivo sette
volte e l'ultima volta che l'ho fatta mi è venuta quest'altra
strofa. Anzi era proprio un momento di improvvisazione quello in cui
io feci questa canzone tutta diversa, invertendo delle frasi qua e
là. Qualcuno fra il pubblico diceva che non erano comprensibili le
mie canzoni, e io cantavo 'Le stelle sono punte di spillo", sì, sono
proprio punte di spillo per cui alla fine ero tutto gasato. Feci
questa cosa del ritorno a casa dai genitori, poi ho anche cambiato
l'arrangiamento perchè le parole si seguivano male.
da FRANCESCO DE
GREGORI, UN MITO
di Michelangelo Romano, Paolo Giaccio e Riccardo Piferi
-
Edizioni Lato Side – 1980
Dolly del mare profondo, figlia di minatori
si leva le scarpe e cammina
sull'erba insieme al figlio del figlio dei fiori.
E fanno la solita strada, fino al cadavere del grillo,
la luna impaurita li
guarda passare e le stelle sono punta di spillo.
E mentre le lancette camminano, i due si dividono il fungo,
e intanto mangiando
ingannano il tempo, ma non dovranno ingannarlo a lungo.
Infatti arriva Babbo Natale carico di ferro e carbone,
il figlio del figlio dei
fiori lo uccide con un coltello e con un bastone.
E Dolly gli pulisce le mani con una fetta di pane,
le nuvole passano dietro alla
luna e da lontano sta abbaiando un cane.
E la neve comincia a cadere, la neve che cadeva sul prato
e in pochi minuti si
sparse la voce
che Babbo Natale era stato ammazzato.
Così Dolly del mare profondo e il figlio del figlio dei fiori
si danno la mano e
ritornano a casa, tornano a casa dai genitori.
Dovrei risentirla, se la chitarra è suonata bene vuol dire che non ero io. Si
alza, prende una delle tante chitarre che fanno capolino quasi in ogni angolo
della casa, lascia partire la musica originale e comincia a rifare il
caratteristico riff, un bel giro di arpeggio molto 'americano': "sì, sono io.
Usavo una martin D28 che avevo appena comprato.
lo non mi considero un grande chitarrista adesso, figuriamoci allora, non avevo
un grande controllo dello strumento, non avevo grande esperienza di studio: però
spesso quello che avevo in testa io con la chitarra non riusciva a farlo
nessuno. Non sempre è facile spiegare a un altro chitarrista quello che ti
serve. Anche se magari è molto più bravo di te. E' un problema che si
riaffaccia, a volte, ancora oggi. In Babbo Natale c'era un tipo di arpeggio
particolare e poi lo stare addosso con lo strumento al canto era fondamentale.
Un chitarrista professionista ha delle qualità tecniche particolari nell'uso
della ritmica, la timbrica, la calligrafia musicale…. Tutte cose bellissime che
però mi riguardano poco, spesso fanno a pugni con quello che cerco, non mi
servono più di tanto, anzi, alla fine non mi piacciono e spesso ho dovuto
sprecare un sacco di tempo per poi finire a fare da solo. Io amavo la chitarra
acustica di gemte come Donovan, Dylan, anche come la impiegavano i Beatles, nei
loro pezzi c'è molta chitarra acustica. Suonare la chitarra è come cantare, la
tecnica è importante ma l'espressività deve venire prima, non va mai sacrificata
in nome di un ideale astratto di esecuzione.
Tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites -
allegato al Corriere della Sera
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Mah ... nel 1976 i figli dei fiori erano già un po' dei residuati
bellici, ultramaggiorenni, imbolsiti nel fisico e nelle idee ... anche
lì, come per Bufalo Bill, stava finendo un'epoca e i più veloci ad
annusare il vento avevano già rimesso nall' armadio i pantaloni a zampa
d'elefante e l'eskimo da battaglia. Non era difficile immaginare che i
loro figli, i figli dei figli dei fiori appunto, sarebbero stati molto
diversi. Magari non proprio degli assassini, ma un po' più cattivi forse
sì.
Che non fossero più tempi da Babbo Natale si cominciava a vedere,
bastava guardare fuori. Pace amore e musica avevano ormai lasciato il
posto alla violenza, e il mondo giovanile era il primo a pagare. Ma
quando ho scritto la canzone a tutto pensavo meno che a questo, sarebbe
sbagliato attribuirmi chissà quali capacità divinatorie. Quello che è
successo in seguito, come può capitare, ha caricato la canzone di nuovi
significati ma non è colpa mia. lo volevo solo giocare un po' con la
simbologia freudiana, mettere in scena l'uccisione di un Babbo un po'
speciale e provare a dissacrare quella retorica zuccherosa in cui tanti
si erano cullati ... sai Woodstock, i fiori nei capelli, tutto quello
stare insieme a farsi le canne, rotolare nel fango nudi ed essere
felici. Comunque la canzone è meglio sentirla senza tante spiegazioni,
sicuramente ci guadagna.
Mi piace l'idea che Babbo Natale vada in giro a regalare ferro e
carbone, mi piace che tutto si risolva in un ritorno a casa, come se non
fosse successo niente. Come se fosse stato solo un brutto sogno.
tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della
Sera
Questo "Babbo Natale' "carico di ferro e carbone" è un Babbo Natale
poco tradizionale. Invece di portare lo zucchero filato porta
delle cose utili e pesanti, comunque poco belle per un bambino. Loro comunque
gli danno un sacco di botte e poi tornano a casa dai genitori Ai quali
raccontano tranquillamente: "Sai che che cosa abbiamo fatto? abbiamo scopato e
poi ammazzato Babbo Natale". I genitori che stanno seduti a tavola dicono: "Ah
sì, buona questa minestra"; ..nel paese si sparge la voce che Babbo Natale è
stato ammazzato", nessuno però gli dà molto peso.
E' bello il linguaggio in questa canzone perchè è proprio un linguaggio da
favola. E' Biancaneve e i sette nani. Sai quei disegni in cui si vede Biancaneve
che si fa scopare dai sette nani. Prima la canzone finiva dicendo:, "pochi
minuti e si sparse la voce che Babbo Natale era stato ammazzato". Poi sono
andato in tournée, ho fatto questa canzone dal vivo sette volte e l'ultima volta
che l'ho fatta mi è venuta quest'altra strofa. Anzi era proprio un momento di
improvvisazione quello in cui io feci questa canzone tutta diversa, invertendo
delle frasi qua e là. Qualcuno fra il pubblico diceva che non erano
comprensibili le mie canzoni, e io cantavo 'Le stelle sono punte di spillo", sì,
sono proprio punte di spillo per cui alla fine ero tutto gasato. Feci questa
cosa del ritorno a casa dai genitori, poi ho anche cambiato l'arrangiamento
perchè le parole si seguivano male.
E adesso invece, se mi consentite, una canzone su due giovani
mascalzoncelli, una canzone che io adesso non è che mi voglio vantare,
ma credo di non aver mai scritto in tanti anni di carriera una canzone
così immorale come questa che adesso vado a eseguire... sono due
personaggi cattivi, emanano cattiveria e fanno schifo per quanto sono
ripugnanti... come Hide, che uno prima ancora di rendersi conto che
t'ammazza, senti un alone di un miasma di cattiveria e di immoralità,
due ragazzini che se fossero andati a "blitz" (?), altro che... va bè la
canzone si chiama Dolly del mare profondo...
Addio a Dolores Redaelli, storica «colonna» del
Piccolo Teatro di Milano
«La Dolly» aveva 78 anni e per quasi 50 è stata
dentro negli ingranaggi del teatro, avendo visto all’opera due figure
straordinarie come Strehler e Ronconi. Ha lavorato fino all’ultimo nella
Fondazione Gaber.
http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/17_ottobre_13/morta-dolores-redaelli-piccolo-teatro-milano-fondazione-gaber-3614eb10-afee-11e7-9acf-3e6278e701f3.shtml
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La scomparsa di Dolly( cosi la chiamavamo insieme a
Dalla, De Gregori,Ron etc etc) e' stata come un colpo al cuore ma
forte,doloroso e soprattutto inaspettato,non sapevo assolutamente che
stesse male.Le parole non servono mi rimarra' sempre il ricordo di Dolly
che secondo noi amava troppo Gaber e ci considerava straccioni(nel senso
buono ma forse lo eravamo veramente!), la sua risata e quella naturale
capacita' a farsi voler bene anche nei momenti piu difficili.CIAO
DOLLY DEL MARE PROFONDO TI VOGLIAMO SEMPRE BENE!!!
Michele Mondella FB
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Che tipo d'uomo legge oggi il vangelo,
che t'hanno fatto agli occhi? Gesù Maria!
Terza domanda: quanti anni ho, sotto il cielo e quante mosche
ho torturato nella mia infanzia, buona e cattiva?
Prima di diventare uno di loro quanto ci ho messo,
quanta rabbia e quanto sesso dietro ai vetri.
Discutevano in quattro in un tramonto italiano,
di politica, estetica e matematica.
Le loro sigarette tiravano il fumo al mulino
e all'improvviso un'esplosione da lontano.
Erano l'ultima guerra e il primo amore, miti tranquillizzanti,
forse droghe pesanti o mani pietose che chiudono gli occhi.
Ed adesso dimmi quando finirà la guerra,
adesso dimmi quando finirà la guerra,
ed adesso, per favore, dimmi quando finirà la guerra,
sono stufo di stare nella mia trincea di lusso.
E a questo punto i tre quarti del pubblico, cominciarono a fischiare
e a gridare: "Ogni cosa al suo posto, quest'uomo è nel posto sbagliato".
Ed io vi ho solamente raccontato, senza niente inventare,
l'ultimo discorso registrato,
dell'uomo che voleva parlare, dell'uomo che voleva parlare...
Delle canzoni di Bufalo BiIll, quattro o cinque nel corso degli anni e delle
varie tournèe le abbiamo suonate. Altre magari sono poco adatte ad essere
suonate su un palco ... credo di non aver mai fatto Ipercarmela o Disastro aereo
sul Canale di Sicilia, ma le altre più o meno hanno avuto tutte il loro momento
di gloria. nell'ultimo tour per esempio facciamo Atlantide, nonostante ci si
debba arrangiare senza l'eminent, la tastiera con cui venne suonata in studio:
uno strumento secondo me irrinunciabile e purtroppo oggi introvabile. Poi
facciamo anche Festival, la canzone che parla della morte di Tenco. Piace molto
alla gente e piace ancora molto anche a me, soprattutto come la stiamo suonando
adesso. Alcuni del pubblico storcono un po' la bocca davanti ad alcuni
arrangiamenti che non sono fedeli a quelli del disco originale ma che ci posso
fare? Troverei indecoroso oltre che difficilissimo ricalcare le cose fatte tanti
anni fa. Invece mi piace poter tornare ogni volta su quello che ho fatto, come
se una forma definitiva non esistesse; non mi piace pensare a una canzone come a
qualcosa da incollare una volta per sempre nell'album di famiglia a prendersi la
polvere degli anni ... e poi i vecchi arrangiamenti nemmeno li ascolto più, non
riascolto mai i miei dischi. Diciamo la verità: non mi piace molto mettermi di
fronte alle cose che ho fatto in passato. Fatte in quel modo ormai appartengono
più alla gente che a me. lo sono quello di adesso, la mia voce è questa, non
quella di trent'anni fa.
I dischi sono solo momenti di passaggio, però è nei dischi registrati dal vivo
che mi riconosco di più. Trovo che la sala di registrazione abbia sempre
truccato troppo la mia voce, a volte è troppo compressa, a volte c'è troppo
riverbero. Comunque credo che chiunque canti meglio davanti ad un pubblico che
davanti a un vetro. A patto che sia un cantante.
Tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites -
allegato al Corriere della Sera
LA BAND CHE
ACCOMPAGNO' FRANCESCO
NEL TOUR 1975-76 (FINO AL PALALIDO)
le
seguenti foto, che ritraggono il gruppo prima dell'inizio del tour, sono state
gentilmente concesse dall'autore, Antonello Palazzolo. La
Band
era composta da Bob Rosati alle chitarre, Giulio Carcame al basso, Marco Felice
Marcovecchio alla batteria
e
Antonello Palazzolo alle tastiere.
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La notte si annunciava chiara, la sera era serena,
a gente nel cinema assisteva seria al magico
"Quattro per quattro del Circo di Brema".
Nel cielo all'improvviso si aprì un lampo, la pellicola di colpo si spezzò
e apparve all'improvviso sullo schermo un pellegrino vestito di Chiffon.
E il silenzio piombò come un veleno e tutti cominciarono a pregare,
levato, il piccolo Ninetto scemo, che continuò a giocare.
Con una mano dentro ai pantaloni e un piede leggermente sollevato,
urlò nel cinema la sua domanda: "Chi è che ti ha mandato?"
E il pellegrino si guardò le unghie e disse: "Cosi sia, facciamo presto,
chi mi manda non parla questa lingua e non importa che sappiate il resto.
E' troppo tempo che cammino, vengo dalla montagna e vado al mare.
E' troppo tempo che cammino e questa sera mi vorrei fermare".
E tre angeli nella notte con
le catene sotto al giaccone
facevano la guardia al mistero come rondini su un balcone.
E nella notte, alle loro spalle, le loro voci diventavano fumo.
Qualcuno cominciava ad aver paura ma non parlava nessuno.
E dietro un fondale di stelle gli impiegati della compagnia
rubarono tutta la frutta dagli alberi
e la portarono via.
GIACCIO – La
prossima canzone si chiama “Ninetto e la colonia”
DE GREGORI –
Questa è la triste storia di un bambino che si trova in un cinema al
momento in cui entrano dei marines. I marines mettono tutti al muro
e li fucilano tutti. Anche Ninetto. Dopo i marines arrivano dei
signori con la crivatta con la scritta "Chiquìta" sulla ca a mo' di
fregio e cominciano a raccogliere le banane che prima erano di
Ninetto e dei suoi amici, prendono queste banane e se le vanno a
vendere.
GIACCIO -
Quindi una canzone sul colonialismo, le Multinazionali fra cui
questa United Fruits che ha fatto con le banane e con altro il bello
e il cattivo tempo in molti paesi, in Africa, forse anche in Italia.
DE GREGORI -
Devo dire che questa canzone mi è venuta in mente leggendo “Rulli
di tamburo per Rancas". Non è importante tanto la storia, dire
puntualmente quello che vuol dire, forse nessuno capirà che è una
canzone sulle Multinazionali, sulla United Fruits, ma è importante
il linguaggio.
ROMANO - Perchè
hai ambientato questa storia in un cinema?
DIE GREGORI -
Perchè la gente nel cinema sta lì e guarda, non si alza, è proprio
la passività più assoluta. Accetta Ia realtà proiettata, ci si
immedesima e crede a tutto.
ROMANO - In
questa canzone, è una mia opinione personale, mi sembra veramente
che tu assuma un tono da imbonitore.
GREGORI - Sì e
mi piace molto. E’ cantata bene questa canzone vero? E' parlata e
recitata.
ROMANO -
Esatto, questo è il tuo nuovo modo di cantare, ti sei liberato da
certe restrizioni. Da "Rimmel” in poi questo è il pezzo dove ti
lasci andare; e vorrei fare un aggancio al tuo modo di fare
spettacoli, al tuo modo di stare sul palcoscenico. Anche quando stai
sul palcoscenico ti lasci andare molto, si va al di là del ruolo
puro e semplice del cantante con chitarra che arriva, canta una
canzone e l'altra non dice niente, oppure dice banalità. I tuoi
concerti sono arrivati quasi al cinquanta per cento di parole e al
cinquanta per cento di canzoni. Tu fai discorsi spesso improvvisati.
DE GREGORI -
Che poi la gente non gradisce perchè vorrebbe solamente sentire
musica.
ROMANO - E
perchè lo fai?
DE GREGORI -
Perchè, a parte il fatto che mi diverte, è anche utile dare alla
gente un'immagine diversa, loro si aspettano un cantante e si
trovano invece tino che sta lì e chiacchera.
ROMANO -
All'interno del panorama italiano hai, come punto di riferimento,
Gaber o Dalla.
DE GREGORI -
Senz'altro più Dalla, Gaber fa del teatro, ha un testo e si attiene
al testo in maniera abbastanza fedele; Dalla invece improvvisa; io
da Dalla ho imparato proprio queste cose, di andare a ruota libera.
GIACCIO -
Tornando al testo di "Ninetto e la Colonia" ci sono "tre angeli con
le catene sotto il giaccone" che per me sono gli hells angels.
DE GREGORI -
Non l'avevo pensato, me l'hai fatto venire in mente tu.
GIACCIO - Non
hai visto quel film sugli Stones, "Gimme Shelter"...
DE' GREGORI -
No, però me l'avevano raccontato. Comunque ho visto gli heils angels
in versione integrale all'isola di Wight: stavano lì, si divertivano
molto a fecavono paura.
GIACCIO - Cos'è
il "Circo di Brema"?
DE GREGORI - E'
una cosa che scrissi circa tre anni fa questa del "Circo di Brema”.
Forse Michelangelo se la ricorda, una canzone che si chiamava "5
milioni di risate" e cominciava dicendo: "Il magico 4 per 4 del
circo di Brema aspettava sconsolatamente qualcuno che gli riportasse
la valigia dicendo a tutti quanti: avete visto qualcuno con la mia
valigia, non è che fosse una bella valigia ma c’erano 5 milioni di
risate."
da FRANCESCO DE
GREGORI, UN MITO
di Michelangelo Romano, Paolo Giaccio e Riccardo Piferi
-
Edizioni Lato Side – 1980
La canzone nasce da un articolo letto su "Lotta continua". L'articolo
era fatto molto bene in prima pagina, e diceva che noi spendiamo non so
quanti miliardi l'anno per la difesa, che alcuni di questi miliardi sono
stati spesi per comprare questo tipo di aerei che cadono sempre, questo
mentre in Italia i problemi gravi sono altri. Questi soldi vengono spesi
per la difesa, la nostra difesa è in funzione di quella Atlantica, e
perchè è tanto importante la nostra difesa in questo momento? Perchè
dopo la caduta dei regime dei Colonnelli greci, dopo la morte di Franco,
in Europa oltre la Turchia siamo rimasti noi a tenere a bada la
situazione in Medio Oriente.
e dopo Nino, che è una canzone su un adolescente, quindi una persona già
responsabile e matura, che spera di essere assunto in una grossa squadra
di calcio, tipo per esempio la Roma (fischi), oppure, e qui parte una
ruffianata, il Milan o l'Inter per esempio, un giovane bambino che ama
giocare a pallone (forza Lazio) (a burino!)... ma sì viva tutto, viva
tutto! prendiamo Nino invece in un momento precedente alla sua età,
quando ancora si chiamava Ninetto... la prossima canzone si chiama
Ninetto e la colonia, e non si sa perchè... |
PdP – Il nuovo disco di Dylan è uscito nello stesso giorno in cui sono
usciti tre nuovi dischi di De Gregori: per gli amanti del genere è stata
praticamente festa nazionale! FDG – Vorrei chiarire una cosa su questi
tre dischi. Ho letto che rappresentano il ritratto della mia carriera
discografica, una specie di riassunto di ciò che ho cantato negli anni;
ebbene no: si tratta solamente di tre dischi dal vivo, in cui sono state
incise
solamente le canoni che abbiamo suonato meglio. È un disco fatto di
molte coincidenza: se fosse stato un "ritratto" o un "greatest hits" dal
vivo, non sarebbe mai mancata "Santa Lucia" che rimane in assoluto la
canzone che io amo di più; invece "Santa Lucia" non c’è ed il motivo è
semplice: quando l’ho suonata non stavamo registrando. Molte canzoni
sono state tratte dai tre concerti che ho fatto a Roma nell’ottobre del
1989. Splendidi concerti: erano alla fine del tour, eravamo tutti
stanchi, ma anche ben rodati e tutto sommato felici. (…) Vedi? Sono tre
dischi casuali che in fondo anno un unico fine: rappresentare, nel bene
e nel male, il mi valore dal vivo. Non si tratta assolutamente di un
monumento a me stesso: quelle sono operazioni da discografico e sarebbe
gravissimo se fossero concepite direttamente dalla mente di un artista.
Equivarrebbe a dire e ad ammettere che ciò che è passato pesa più di ciò
che è presente o che deve ancora venire. Sinceramente quella della
voglia del consuntivo, è una sensazione che non vorrei provare mai. Né
mi va di scrivere, al momento, una sorta di autobiografia musicale. (
BLU – IL MENSILE DI MUSICA TUTTA ITALIANA – 1990 DI PIERLUIGI DE
PALMA)
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ROMANO - Una
canzone che ami dismisura in questo è “Santa Lucia" forse la tua
canzone più discussa, tra amici, conoscenti, gente dell'ambiente. E'
criticata da quasi tutti, da Lucio Dalla, da Fabrizio De Andrè e
anche da me; a me per esempio dà fastidio che sembri una preghiera.
DE GREGORI -
"Santa Lucia" è nata così: mi ricordo che mia madre, che é
leggermente miope, quando cercava qualccosa per casa e non riusciva
a trovarla, magari cercava per tre ore una cosa che stava sotto i
suoi occhi; e quando la trovava diceva: "Santa Lucia, Santa Lucia,
non l'avevo vista! "; è un modo di dire, e la canzone scatta da lì,
uno che non trova cose evidenti. Santa Lucia è la santa dei ciechi,
lo sanno tutti, e questa è una canzone per quelli che non vedono.
Non capisco perchè debbo vergognarmi di aver usato questa mediazione
cattolica; Santa Lucia fa parte della mia cultura, mi ricorda le
lezioni di catechismo. Se le critiche sono rivolte solo al fatto che
si nomina una santa, io non me ne vergogno, non ho niente contro i
santi. La canzone in effetti è una preghiera, ma è una preghiera
anche "lpercarmela". Non trovo differenze tra le due, sarebbe bella
l'idea di un De Gregori che fa esattamente quello che uno si
aspetta, forte sarebbe bello che io fossi come gli altri mi
vogliono; se mi viene di fare "Santo Lucia" la faccio perchè tutto
sommato mi piace, esteticamente mi sta bene, i contenuti mi stanno
bene. Si può dire che faccio delle canzoni commissionate dal Papa.
Nessuno è al di sopra di ogni sospetto.
da FRANCESCO DE
GREGORI, UN MITO
di Michelangelo Romano, Paolo Giaccio e Riccardo Piferi
-
Edizioni Lato Side – 1980
Santa Lucia, per tutti quelli che hanno gli occhi
e un cuore che non basta agli occhi.
E per la tranquillità di chi va per mare, e per ogni lacrima sul tuo vestito,
per chi non ha capito.
Santa Lucia!
Per chi beve di notte e di notte muore
e di notte legge e cade sul suo ultimo
metro,
per gli amici che vanno e ritornano indietro
e hanno perduto l'anima e le ali.
Per chi vive all'incrocio dei venti ed è bruciato vivo.
Per le persone facili,
che non hanno dubbi mai.
Per la nostra corona di stelle e di spine.
Per la nostra paura del buoi e della
fantasia.
Santa Lucia!
Il violino dei poveri è una barca sfondata,
è un ragazzino al secondo piano, che
canta, ride e stona,
perché vada lontano.
Fa che gli sia dolce
anche la pioggia nelle scarpe, anche la solitudine.
Bufalo Bill è stato il primo album in cui per comporre ho usato il
pianoforte. sapevo suonare solo in Do e infatti i due pezzi che ho
composto al piano sono Bufalo Bill e Santa Lucia, tutti e due in DO
maggiore. "Santa Lucia sul disco è suonata, in modo struggente, da Toto Torquati: solo nell'ultima strofa entrano, quasi in punta di piedi,
basso e batteria e una chitarra elettrica che "canta" la melodia nel
finale. Mi piace molto la nudità di certi pezzi come Santa Lucia. Spesso
provo a tornarci, ad atmosfere come questa, anche negli ultimi lavori
l'ho fatto. Voce e pianoforte, forse anche di più che voce e chitarra,
creano una sonorità solenne, molto intensa.
Tratto da
"Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera
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Variazioni
(in do di petto) sul canto De Gregoriano
di Simone Dessì (1976)
Amici, redattori, lettori. italiani! Prestatemi orecchio. Sono
venuto a seppellire Francesco De Gregori, non a farne l'elogio.
Il male che l'uomo fa, gli sopravvive: il bene, spesso, resta
sepolto con le sue ossa. E così sia di De Gregori. Il nobile
Pintor, l'ilare Gino Castaldo, il pensoso Roberto Renzi vi hanno
detto che De Gregori è rarefatto. illeggibile, ermetico. Se lo
è, ha gran colpa; e De Gregori la sconterà gravemente. Qui, col
beneplacito di Pintor, di Castaldo, di Renzi, e degli altri -
ché Pintor, Castaldo, Renzi sono uomini di cultura e di gusto, e
anche gli altri, tutti uomini di cultura e di gusto - sono
venuto a parlare in sua difesa.
Giaime Pintor dice che De Gregori è ermetico ed è "tanto ermetico
che le sue parole non si aprono a nessuna ma nessuna
interpretazione" (in Linus marzo 1976). Stupisce tale ingenuità
nel nostro direttore che sapevamo fine cultore di estetica, buon
conoscitore di cose letterarie, assiduo nelle frequentazioni di
umanisti e poeti. Ora, senza scomodare Galvano della Volpe,
basterebbe Benedetto Croce (che nei buoni licei classici di una
volta, quelli prima della contestazione, veniva ancora studiato)
per sapere che non solo per quanto riguarda la poesia ermetica,
ma per la poesia e la letteratura tout-court. l'interpretazione
delle parole (in versi o in prosa) non può essere quella
ricavabile dall'attenta consultazione del Melzi, dalla
comparazione sinottica tra testo e dizionario: versi e prosa
hanno da essere colti oltre il loro stretto significato, oltre
la rigida connessione semantica tra parola e concetto. E perché,
altrimenti, si farebbe letteratura? Basterebbero e
avanzerebbero, la politica, la sociologia o, che so? la
geografia.
E, d'altra parte, nemmeno la metafora - che pare essere l'unica
concessione a una letteratura non convenzionale dei testi
letterari che i critici in questione sembrano voler fare - copre
tutte le possibilità che la parola offre (oltre a essere,
naturalmente, qualcosa di più della semplice proiezione figurata
di una parola dal senso proprio) e nemmeno l'allegoria o
l'analogia; la parola, in versi e in prosa, può essere piegata,
e va piegata, a mille altre soluzioni, a molti usi, a svariate
funzioni, può diventare suono, sciarada, nonsense; può esprimere
strettamente un concetto o può negarlo così come può
stravolgerlo, distruggerlo, trasfigurarlo. Tutto questo è ancor
più possibile (necessario?) quando la parola è costruita su una
frase musicale, è testo di una canzone; è parte, cioè, di
un'opera "letteraria" non immobile né autonoma ma strettamente
connessa e intersecantesi con una struttura che è quella
musicale, per sua natura "ambigua", cioè variamente fruibile. E'
per questi motivi che parlare di "interpretazione", a proposito
della letteratura di un testo di canzone, già mi sembra
operazione non so se più scorretta o ingenua.
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QUELLO CHE ACCADDE DOPO:
IL PALALIDO
Scrivere canzoni è un po' come
fare le parole incrociate: il termine giusto nelle caselle
orizzontali e l'accordo appropriato negli spazi verticali. Così,
dagli incontri casuali e forse infiniti di questa scacchiera fatta
di vocabolario e pentagramma nascono canzoni, canzonette, successi.
De Gregori, fra
i tanti che si cimentano con queste prove di enigmistica, è
certamente uno dei più quotati, uno di quelli che hanno le carte in
regola per risolvere anche i giochi più difficili. Per questo, nel
corso di questi anni, si sono accavallati vari giudizi su di lui.
Dibattiti, interviste, sproloqui, lo hanno messo spesso al centro
dell'attenzione, rendendo il suo personaggio una specie di mito da,
volta per volta, amare o contestare violentemente.
Non è da meno,
in questo senso, l'intervista che abbiamo letto precedentemente,
dove siamo alle prese con tre bravi ragazzi del mondo dello
spettacolo che svolgono il loro mestiere: due pensano di fare
domande graffianti, il terzo è convinto di rispondere cose
intelligenti.
Certi della
completa buona fede dei tre, bisogna dire col senno di poi che
l'unico che ha fatto veramente il suo mestiere è De Gregori.
Se le domande
sono il massimo della neutralità, le risposte del cantautore romano
sono un intelligente gioco, questa volta poco enigmistico, per dire
poco, prendere pochi impegni, risultare un simpaticone: senza dire
cose che in futuro, qualsiasi scelta il nostro avesse fatto,
potessero rivolgersi contro di lui.
Eppure questa è
un'intervista basilare, una pagina «mitologica» che ritorna a
distanza di anni, in tutte le interviste e le biografie seguenti:
tutti ne riprendono qualcosa, chi la chitarra vecchia del nonno, chi
le vaghe letture di Lotta Continua. E’ basilare anche perché
evidenzia le caratteristiche fondamentali per un artista di
successo: una sottile membrana, un impercettibile spartiacque che
creino un buon equilibrio tra verità e bugia, recitazione e umanità,
impegno e gigioneria.
Elementi
vissuti, che fanno del mito «uno come gli altri»: «giocavo a
pallone, studiavo, suonicchiavo, non mi rompevo i coglioni, poi ogni
tanto avevo le ragazzette», si mischiano con gli strafalcioni che
solo una persona con molta considerazione di sé può vedere scritti
sul giornale, il giorno dopo, senza chiedersi: «Ma forse ero
ubriaco?» (vedi il capitolo droga e politica, ecc.).
Questo «senno di
poi» fatto un po' da grillo parlante sull'intervista di Giaccio e
Romano, ha però un senso: deve essere letto come una critica verso
chi contribuisce a fare di un buon artista, di un valido artigiano,
un mito; e non perché i miti siano positivi o negatívi (da Foscolo
in poi il dibattito è aperto), ma perché non è giusto che ogni
personaggio di successo debba, direttamente o no, imporre
comportamenti e processi mentali che, seppur validi, sono suoi e non
degli altri (da Cristo in avanti, gli esempi si sprecano).
Ma al di là
delle questioni, come dire, di plagio, sussistono elementi anche
personali che costano al mito molto dal punto di vista umano.
Insomma, diventare un punto di riferimento, un parafulmine
dell'ammirazione ma anche della violenza delle folle, non è sempre
bello. E per giungere a queste considerazioni non c'è bisogno di
ripensare al rapporto tra Marylin Monroe ed i suoi fans o, per
restare nel settore, ai Beatles: anche per il nostro «big» di
levatura nazionale, che si dice un timido, ci sono stati intoppi di
non poco conto. «Il processo del Palalido» è forse il fatto più
traumatico, l'incontro più sconvolgente che il mito abbia avuto col
suo pubblico. Oggi, nell'apoteosi del ritorno alla grande, questo
fatto e tante altre piccole contestazioni vengono dimenticate,
trattate, come si dice, da scheletri nell'armadio.
Per noi il
disastroso concerto del Palalido è invece il punto di aggancio, dove
finisce la intervista a tarallucci e vino fatta da Giaccio e Romano
e dove comincia l'iter di trasformazione di De Gregori.
Dicevamo di
scheletri nell'armadio: ma per nascondere o dimenticare un fatto del
genere occorrerebbe un guardaroba-cimitero di dimensioni enormi. La
calda serata di Milano ha infatti condizionato molto la vita
artistica del rampollo del Folkstudio, ma non soltanto quella: anche
Milano ne ebbe il suo trauma e aspettò un bel pezzo prima di
ascoltare un altro concerto di quel tipo.
Uno che, come De
Gregori, non si è certamente dimenticato delle contestazioni di quei
giorni (un po' barbare a dire il vero) è un giovane milanese:
capelli lunghi, baffi, magro, sguardo spesso stravolto, si chiama
Gianni Muciacia, è il capo di un gruppo di rock duro, i Kaos Rock,
un complesso che, sulla onda degli Skiantos, canta e suona quel rock
demenziale che fa riferimento, dicono loro stessi, alle esperienze
della vita metropolitana negli anni '80.
Il padre
spirituale di questa new wave italiana è il teorico della
demenzialità come rifiuto: Franco Berardi, detto Bifo. Ha chiamato
così le sue tesi, in parte perché veramente dementi, in parte perché
ha voluto mettere le mani avanti prima che qualcuno trovasse epiteti
più calzanti per definirle.
Muciacia,
quindi, oggi calca le tavole dei palcoscenici: ai tempi della
«grande contestazione» era solo un giovane esponente dei famosi
Circoli giovanili, un contestatore professionista. Lavorava in una
radio privata come esperto di jazz, anche se di jazz poco capiva, e
studiava musica al Centro sociale Santa Marta: quella sera era tra
quelli che presero la parola per «discutere» con De Gregori.
Dice Muciacia:
«Allora contestare i concerti aveva un senso, era un modo valido per
mettere in discussione certi personaggi che facevano musica
speculando sui giovani, ammiccando a certi atteggiamenti e
facendosi, in realtà, gli affari propri. Oggi lo rifarei, anche se
De Gregori ormai è una cosa diversa, ha un pubblico più lontano da
quello di allora, più composíto».
«Anche tu», gli
abbiamo chiesto, «hai subìto col tuo gruppo nel corso dell'esordio,
proprio al Palalido di Milano, un fitto lancio di oggetti. Non ti
sei sentito vicino a De Gregori? ».
«No! Per
niente», replica Muciacia, «noi invitiamo il pubblico a gettarci
qualcosa, è una specie di rituale per costruire un contatto, per
mettere in discussione il ruolo di chi sta sul palco, per
sconfiggere i miti ».
Uno scontro tra
due generazioni di artisti? Forse. Oppure cialtronaggini elevate a
teoria? O ancora, un dibattito dove ognuno fa il suo giuoco?
Rispondere non è
facile. Anche se due generazioni musicali si sono date il cambio, si
sono alternate a gestire il loro rapporto col pubblico, troppa poca
acqua è passata sotto i ponti per poter dare un giudizio, se non
obbiettivo, perlomeno documentato.
Di certo queste
poche parole possono diventare la cartina di tornasole per provare,
ancora una volta, la funzione e l'importanza del mito: De Gregori,
un simbolo contestato proprio perché considerato più vicino di altri
ai problemi giovanili, alle tematiche che allora attraversavano «il
movimento». Oggi è considerato, dalla stessa area, un drop-out, uno
che fa musica e canzoni, per dirlo con un termine fuori luogo,
«interclassiste» e quindi sostanzialmente da ignorare.
Anche il
fratello «grezzo» di De Gregori, Venditti, rumoroso e chiacchierone,
subì qualche tempo dopo, sullo stesso palcoscenico, un purgatorio
del genere. Ma se per De Gregori, qualche intruso sul palco e il
lancio di oggetti vari fu una buona ragione per raggiungere, con
eleganza di gazzella e tenero tremore da Tchaicowski offeso, i
camerini, Venditti, sotto una pioggia di insulti, caki e monetine,
suonò ed inveì fino alla fine.
Rispose, colpo
su colpo, alle accuse del «movimento», sibilando tra i denti:
«Cazzo, io resto qui, non scappo, non sono mica De Gregori». Solo
pochi sanno che alla fine del match, stremato, svenne tra le
lacrime, nei camerini.
Anche l'uscita
artistica dall'esperienza fu molto diversa per i due che così spesso
vengono accomunati: De Gregori, certamente più sensibile e più
fragile psicologicamente di Venditti, ebbe un lungo periodo di
sconforto, un lungo ritiro durante il quale gli alimentatori di miti
vociferarono varie volte di abbandono dell'attività, per protesta
nei confronti di un pubblico incivile.
Venditti, più
(diciamo così) pratico, si rimboccò le maniche, operò una scelta di
campo fondamentale lasciando definitivamente il genere ambiguo di
suoi lavori precedenti fino ad «Ullalla», per scegliere di seguire
il vento e le mode come nel «Segno dei pesci» e nell'ultimo lavoro:
«Buona Domenica».
Stretti ancor
più buoni rapporti coi suoi compagni del PCI e con le feste
dell'Unità, si avvia ad una sostanziosa carriera da «piccolo
industriale», coadiuvato e consigliato da un personaggio che già
conosciamo: Michelangelo Romano che abbiamo osservato nelle vesti di
intervistatore e che oggi si dà un gran da fare per diventare
l'emulo italiano di Robert Stigwood.
da FRANCESCO DE
GREGORI, UN MITO
di Michelangelo Romano, Paolo Giaccio e Riccardo Piferi
-
Edizioni Lato Side – 1980
Uno che, come De Gregori, non si è certamente dimenticato delle contestazioni di
quei giorni (un po' barbare a dire il vero) è un giovane milanese: capelli
lunghi, baffi, magro, sguardo spesso stravolto, si chiama Gianni Muciacia, è il
capo di un gruppo di rock duro, i Kaos Rock, un complesso che, sulla onda degli
Skiantos, canta e suona quel rock demenziale che fa riferimento, dicono loro
stessi, alle esperienze della vita metropolitana negli anni '80. Il padre
spirituale di questa new wave italiana è il teorico della demenzialità come
rifiuto: Franco Berardi, detto Bifo. Ha chiamato così le sue tesi, in parte
perché veramente dementi, in parte perché ha voluto mettere le mani avanti prima
che qualcuno trovasse epiteti più calzanti per definirle. Dice Muciacia: "Allora
contestare i concerti aveva un senso, era un modo valido per mettere in
discussione certi personaggi che facevano musica speculando sui giovani,
ammiccando a certi atteggiamenti e facendosi, in realtà, gli affari propri. Oggi
lo rifarei, anche se De Gregori ormai è una cosa diversa, ha un pubblico più
lontano da quello di allora, più composíto".
"Anche tu", gli abbiamo chiesto, "hai subìto col tuo gruppo nel corso
dell'esordio, proprio al Palalido di Milano, un fitto lancio di oggetti. Non ti
sei sentito vicino a De Gregori? ".
"No! Per niente", replica Muciacia, "noi invitiamo il pubblico a
gettarci qualcosa, è una specie di rituale per costruire un contatto,
per mettere in discussione il ruolo di chi sta sul palco, per
sconfiggere i miti ". RICCARDO PIFERI - FRANCESCO DE GREGORI UN MITO
– ROMANO-GIACCIO – LATO SIDE 1980)
Albanese: Per quanto riguarda gli avvenimenti del '77 a Milano, al
Palalido... Io non ho capito mai esattamente che è successo. Lo so che
lei non c'era, ma li può commentare? Lo Cascio: Lì, è stato un insieme
di cose. In quel momento, c'era stata una seria di avvenimenti prima con
Francesco e la sinistra: incomprensione, <<Lotta Continua>> l'aveva
scritto contro di lui. Insomma, c'era stata una serie di cose. E quel
periodo era un periodo in cui contestavano i grandi concerti. Avevano
tirato una bomba Molotov a Santana, sul palco. Hanno bruciato...
Insomma, c'erano stati anche scontri seri in giro perché c'era, nel
'77... gli indiani metropolitani, quel tipo di movimento culturale, che
era per la fantasia al potere, rivolta contro tutti, anche contro i
partigiani, anche contro la sinistra. Era proprio una rivolta totale a
tutto campo. Allora, il grande concerto era considerato come una
violenza da parte di questi, che poi, in realtà, non erano, quelli che
poi facevano queste cose, non erano in realtà espressione di un fenomeno
importante, secondo me. Era un po' una deformazione. Era quasi più
rapportabile a quello che accadrà dopo, cioè al desiderio di apparire.
NICHOLAS ALBANESE INTERVISTA GIORGIO LO CASCIO – 1998)
Erano "gli anni di piombo", la contestazione incominciò a colpire anche
noi che ne avevamo fatto parte. Il "processo" a De Gregori degli
autonomi al Palalido fu per me un trauma. Volli andarci anch’io dopo
qualche mese e mi accorsi di essere solo. La casa discografica vedeva a
rischio la mia popolarità, gli amici non capivano il perché di questo
confronto e gli impresari non capivano perché non impiegassi il mio
tempo in esibizioni più remunerative. Suonai al Palalido e vinsi la
sfida. Vendicai, a modo mio, Francesco. ANTONELLO VENDITTI – N.P.)
Sui fatti accaduti al Palalido di Milano, sui commenti della stampa e su
certe dichiarazioni riportate non fedelmente, desidero fate alcune
considerazioni. (…). Questi episodi fanno quindi oggettivamente il gioco
della cultura dei potere e della musica tranquillizzante, e si prestano
oltretutto ad essere ripresi e strumentalizzati in chiave terroristica,
reazionaria e scandalistica da un certo tipo di stampa "indipendente".
Riguardo ai miei guadagni, ritengo che più che una mia sottosctizione
personale (alla quale eviterei comunque di dare qualsiasi pubblicità)
sia corretto da parte mia mettere la mia musica e le mie parole, a
disposizione di un movimento al quale, pur non essendo io un militante
rivoluzionario, ritengo di aderire ideologicamente, condividendone
pressoché in tutto le scelte culturali, confrontandomi con esso e
accettandone i consensi, le critiche e le proposte. (…) Il pubblico
giovanile più politicizzato, o almeno una parte di esso, dimostra di
apprezzare ciò che lo scrivo e canto, forse perché provo a parlare di
cose private e di cose politiche in maniera diversa da quella
tradizionale. Tutto qui. Vorrei che quanto detto non venisse scambiato
per un attacco o, peggio ancora, un'autodifesa. Spero solo di aver
contribuito a chiarire alcuni momenti fondamentali di un dibattito che
andava senz'altro affrontato anche a prescindere da quanto avvenuto al
Palalido di Milano". FRANCESCO DE GREGORI SU "MUZAK - 1976)
Quella del Palalido
non può essere
considerata contestazione ma aggressione vera e propria. Contestazione è
quando contesti a una persona delle cose specifiche, gli dici: hai fatto
questo, quest’altro e quest'altro ancora, e secondo me hai sbagliato,
hai fatto male per questi motivi. Aggressione è invece quando ti
prendono a cazzotti e ti dicono che sei uno stronzo, come è successo a
me a Milano, con nessuna possibilità di chiarire le mie posizioni e di
avere un confronto con le posizioni di chi mi stava di fronte.
POPSTAR 1978)
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Concerto interrotto e palco invaso al Palalido
Corriere della Sera - 3 aprile 1976 - Mario Luzzatto Fegiz
MILANO - Una serie di gravi episodi di violenza e intimidazione sono
avvenuti ieri sera al Palalido, allo spettacolo serale del cantautore
Francesco De Gregori, che dopo essere stato più volte interrotto,e dopo
che un gruppo di giovani aveva invaso il palco, è stato costretto ad
uscire dal camerino dove si era ritirato alla fine del concerto, e a
salire sul palco. Subito è stato sottoposto a un vero e proprio processo
politico perchè accusato di percepire cachets troppo alti e di non
destinarli alle lotte dei lavoratori. Un gruppo di giovani, alcuni dei
quali hanno dichiarato di appartenere al sedicente movimento di
"autonomia operaia", lo ha sottoposto a una serie di pesanti accuse e
ingiurie, invitandolo tra l'altro a "suicidarsi subito, seguendo
l'esempio di Majakovski", De Gregori è infine riuscito a raggiungere il
camerino. "Forse non canterò mai più" ha dichiarato. Gli organizzatori
da parte loro hanno comunicato che la lunga tournée del cantautore,
iniziata l'altra sera a Pavia, è stata annullata.
De Gregori si era esibito una prima volta nel pomeriggio davanti al
"suo" pubblico (età media 16 anni) che non era mancato all'appuntamento
con il mostro sacro della nuova canzone italiana, ma non aveva
manifestato eccessivo entusiasmo per la più recente produzione del
cantautore (Bufalo Bill, Disastro aereo sul Canale di Sicilia ecc.).
Per la serata il Palalido era esaurito. Alle 21 gli organizzatori
aprivano i cancelli e decidevano di far entrare gratis coloro che erano
rimasti fuori (oltre un migliaio di giovani), proprio nel momento stesso
in cui costoro si apprestavano a sfondare.
Con la stessa tecnica con la quale circa due anni fa era stato
interrotto il concerto dell'astro del rock decadente Lou Reed, un gruppo
di giovani in formazione ha preso posizione dietro il palco,
gratificando De Gregori con ingiurie e accusandolo di speculare con le
canzoni politiche.
Poco più tardi alcuni elementi, staccatisi dalla formazione principale,
prendevano possesso del palco e, impadronitisi del microfono, leggevano,
fra la confusione generale, un comunicato contro l'arresto, avvenuto a
Padova, di un militante della sinistra extraparlamentare.
Il concerto riprendeva in un clima di tensione, mentre fra il pubblico
alcuni provocatori, gridando che "in sala ci sono più fascisti che
compagni", scatenava la caccia al fascista che per fortuna si concludeva
con qualche scazzottatura e senza gravi conseguenze. Venti minuti di
interruzione e l'esibizione riprendeva. Verso le 22.30 circa, Francesco
De Gregori concludeva fortunosamente il concerto e si ritirava.
Un gruppo di facinorosi prende a questo punto d'assedio il camerino,
"Esci - gli gridano - torna sul palco a parlare con noi o sfasciamo
tutto", Le maschere e il servizio d'ordine cercano di arginare
l'assalto, ma inutilmente. Dopo qualche minuto De Gregori esce. Al
microfono si alternano volti lombrosiani e giovani che sembrano colti da
raptus isterico. "Suona per i lavoratori, non ti mettere in tasca i
soldi". "Quanto hai preso stasera?" urla un giovane. "Credo un milione e
due... - sussurra con un filo di voce De Gregori -, ma poi c'è la
SIAE...". "Se sei un compagno, non a parole ma a fatti, lascia qui
l'incasso", ribattono.
Prende la parola un uomo con la barba bianca, d'età indefinibile: "La
rivoluzione non si fa con la musica. Prima si fa la rivoluzione, poi si
potrà pensare alle arti o alla musica. Lo diceva anche Majakovski che
era un vero rivoluzionario e si è suicidato. Suicidati anche tu!".
De Gregori ascolta pallido e silenzioso. Con scarsa convinzione mormora
al microfono: "Forse sono una vittima dell'industria...". La delirante
farsa del "processo" continua: "Va a fare l'operaio e suona la sera a
casa tua".
Alcune ragazze piangono, altri oratori continuano sullo stile dei
precedenti accusando tutti i presenti che han pagato l'ingresso di
essere "una massa di c...".
De Gregori riesce a raggiungere il camerino. Appare distrutto e
conclude: "Non canterò mai più in pubblico. Stasera mancava solo l'olio
di ricino, poi la scena sarebbe stata completa".
Giorgio Lo Cascio
Ormai non si può più procrastinare: è giunto il momento del dolore,
dell'incomprensibile, della musica che impazzisce e nella quale qualcuno
incomprensibilmente stona. Ho già introdotto quasi tutti i personaggi e
quasi tutte le circostanze fanno parte dello scenario, ma vediamo,
riassumendole, se non ci è sfuggito qualcosa. Dunque, abbiamo innanzi
tutto i nostri eroi, con Francesco in testa, che producono canzoni
gradevoli all'ascolto e dal contenuto stimolante. Ovunque vi sono
circoli culturali, cineclub, momenti di aggregazione e di discussione. I
partiti e i gruppi progressisti sono estremamente attivi anche dal punto
di vista culturale. E' nata una forma di editoria periodica che segue
con particolare attenzione questi fenomeni, e sta dilagando il fenomeno
delle cosiddette "radio libere" che si alimentano in massima parte con
la musica di cui stiamo parlando. Per contro la stampa e la televisione
nazionale sembrano ignorare tutto ciò. Solo le reti radiofoniche RAI
sembrano consapevoli di quanto sta accadendo, grazie a persone come
Paolo Giaccio, Raffaele Cascone, Fiorella Gentile, Michelangelo Romano.
Ma lo spazio a loro affidato non è molto. La discografia è mobilitata
per sfruttare la contingenza favorevole, e analogamente tutta
l'industria culturale vive un momento felice.
Nascono continuamente tentativi "alternativi" di industria culturale in
tutti i settori. Il dibattito politico aumenta di qualità e di
intensità. Nasce la fantasia e l'irruenza del 1977. La gente -
soprattutto la gente - partecipa con grande entusiasmo a tutto ciò e
alimenta con il proprio calore la grande caldaia. Sono riuscito a
evocare le sensazioni che provavo in quel periodo? Tutto ci era troppo
bello, troppo importante e improvviso. Era come la sfera splendente di
un'esplosione di energia: nell'espandersi si frammenta, crea disarmonie
e si formano le polarità. Il primo segnale mi giunse da un articolo
firmato da Giaime Pintor per Linus.
Era intitolato "De Gregori non è nobel, è rimmel" e in esso Giaime
sferrava un ironico attacco alla figura mitica di Francesco. La sua
spada squarciava il velo del tempio proprio come aveva già fatto Sofri
su Lotta Continua, ma con un'eco ben più vasta. Nel cielo si addensarono
grandi nubi nere e l'aria diventò elettrica. I piloti di veicoli da
corsa sanno che questa condizione è la migliore per ottenere tempi da
record, e cercano di scendere in pista quanto più prossimi possibile
allo scoppio dell'uragano. Forse fu per questo motivo che nessuno si
accorse di nulla, essendo tutti intenti ad ascoltare il canto di un
motore che girava magnificamente. Francesco si prepara ad affrontare una
nuova tournee, che si preannunciava trionfale. Al suo fianco avrebbe
dovuto cantare un vecchio amico, Renzo Zenobi, che aveva appena
realizzato un long-playing per la Rca. La prima data era a Pavia, e
subito dopo erano previsti due o tre concerti a Milano, al Palalido. Ma
le nubi erano già molto dense a Pavia, e si verificarono degli incidenti
tra il pubblico e la polizia. Una ragazza si fece male e Renzo la vide
con il volto insanguinato. Avvertì subito che c'era qualcosa che non
andava, e disse a Francesco che non desiderava proseguire la tournee. Fu
l'unico a capire: tutti gli altri, Francesco compreso, pensarono che non
si dovesse esagerare nelle preoccupazioni. Dopo tutto il periodo era
molto turbolento e già altre volte c'erano stati inconvenienti. Al
Palalido di Milano io non ero presente (dove siamo nelle occasioni in
cui forse ci sarebbe bisogno di noi?) e non so cosa accadde veramente.
Posso solo riportare flash di memoria su cose che mi furono raccontate:
Francesco che viene contestato duramente non riesce a tenere in mano la
situazione, come sempre era riuscito a fare nel passato; Francesco che
viene seguito nel camerino, gli amici che si dileguano; Francesco che
viene costretto a sostenere un impossibile contraddittorio al centro del
Palalido, nel rumore sordo di un mare non più amico o, peggio,
nell'indifferenza.
Un nuovo filtro rossastro e cupo che scatta con un colpo secco davanti
al nostro obiettivo. Nel terreno fertile che si era formato in quegli
anni erano cresciuti anche i cattivi pensieri, organismi perfettamente
comprensibili ma più prossimi all'istinto di morte che all'istinto di
vita. Francesco annullò la tournee e si ritirò ferito.
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Francesco De
Gregori su "Muzak (1976)" -
"Sui fatti accaduti al Palalido di Milano, sui commenti della
stampa e su certe dichiarazioni riportate non fedelmente,
desidero fate alcune considerazioni. Quando ho detto che la
contestazione nei miei confronti rientrava nella strategia della
tensione non intendevo dire che a porla in atto fossero gruppi
di estrema destra o altri in qualche modo dell'estrema destra
diretta o ad essa collegati. Così come l'espressione "fascisti
rossi" non è mai stata da me pronunciata. Ritengo però che il
gruppo di compagni che ha cos' duramente contestato il mio
lavoro e la mia persona abbia commesso un gravissimo errore
politico, che non va a vantaggio della chiarezza, ma impedisce
anzi un'analisi corretta della cultura giovanile, dell'attuale
produzione musicale e anche, se vogliamo, degli errori e delle
inevitabili contraddizioni di quegli autori che, come me,
dall'interno dell'ndustria della musica, tentano di promuovere
un discorso diverso e alternativo sul terreno dei contenuti
musicali e letterari e della gestione dei concerti. Da questo
punto di vista l'iniziativa gravemente sconsiderata condotta da
questi compagni non può che consolidare l'universo musicale
consueto, ricacciando a destra autori e gruppi potenzialmente
disponibili ad iniziative di sinistra, oltre a incentivare i
concerti a tremila lire; gli schieramenti polizieschi e i
servizi d'ordine privati presi a nolo dai grossi impresari.
Questi episodi fanno quindi oggettivamente il gioco della
cultura dei potere e della musica tranquillizzante, e si
prestano oltretutto ad essere ripresi e strumentalizzati in
chiave terroristica, reazionaria e scandalistica da un certo
tipo di stampa "indipendente". Riguardo ai miei guadagni,
ritengo che più che una mia sottoscrizione personale (alla quale
eviterei comunque di dare qualsiasi pubblicità) sia corretto da
parte mia mettere la mia musica e le mie parole, a disposizione
di un movimento al quale, pur non essendo io un militante
rivoluzionario, ritengo di aderire ideologicamente,
condividendone pressoché in tutto le scelte culturali,
confrontandomi con esso e accettandone i consensi, le critiche e
le proposte. Lotta Continua, i Circoli Ottobre, Re Nudo, gli
Anarchici, sanno bene che mi sono reso disponibile in maniera
gratuita in moltissime occasioni politiche e musicali; dico
questo non per rivendicare medagliette di buona condotta, ma per
chiarire quale è stata la strada da me seguita finora e quali le
mie scelte. E veniamo ora alle mie canzoni, i loro contenuti e
il mio linguaggio. lo faccio le canzoni come le so fare. Esprimo
semplicemente le cose come riesco ad esprimerle e credo che
sarebbe demagogico da parte mia, trasformare i miei moduli e
scrivere canzoni, ad esempio, come Ivan Della Mea o Paolo
Pietrangeli, autori che peraltro stimo e rispetto. Credo
comunque che accanto alla loro produzione, più direttamente
legata alla cronaca politica dei nostri anni, possa trovare
posto la mia, che muove da presupposti diversi, ma che tende,
comunque, anche se forse per altre strade, ad un miglioramento
del livello musicale di massa. Il pubblico giovanile più
politicizzato, o almeno una parte di esso, dimostra di
apprezzare ciò che lo scrivo e canto, forse perché provo a
parlare di cose private e di cose politiche in maniera diversa
da quella tradizionale. Tutto qui. Vorrei che quanto detto non
venisse scambiato per un attacco o, peggio ancora,
un'autodifesa. Spero solo di aver contribuito a chiarire alcuni
momenti fondamentali di un dibattito che andava senz'altro
affrontato anche a prescindere da quanto avvenuto al Palalido di
Milano".
In occasione dell'uscita di "De Gregori", nel '78, Francesco
parlerà di questi fatti con Michelangelo Romano di "Popster",
storica testate dell'epoca: "quella del Palalido non può essere
considerata contestazione ma aggressione vera e propria.
Contestazione è quando contesti a una persona delle cose
specifiche, gli dici: hai fatto questo, quest'altro e
quest'altro ancora, e secondo me hai sbagliato, hai fatto male
per questi motivi. Aggressione è invece quando ti prendono a
cazzotti e ti dicono che sei uno stronzo, come è successo a me a
Milano, con nessuna possibilità di chiarire le mie posizioni e
di avere un confronto con le posizioni di chi mi stava di
fronte".
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CATANIA, TEATRO AMBASCIATORI - OTTOBRE 1976
GLI
ALBORI. – Credo sia stato l'autunno del 1976, forse ottobre. In città avevano
attaccato sui muri i manifesti con la fotoposter inside del disco Rimmel, quella
con la faccia di Francesco di profilo, e sotto la data fissata al Teatro
Ambasciatori di Catania.
Se c’è
qualche attempato catanese che mi legge mi può dire esattamente la data? Quel
concerto lo ricordano ancora in tanti ma nessuno sa la data.
Allora
era abitudine fare due concerti, uno il pomeriggio e l’altro la sera. Io
arrivai con un mio amico nell’intervallo fra i due spettacoli ma, come direbbe
Fantozzi, con un mostruoso anticipo di due ore!
Sull’altezza di Francesco avevo un’idea sbagliata. Lo immaginavo di statura
normale, chissà perchè. Invece, appena entrati nella hall del Teatro, vedemmo
una testa sovrastare su una piccola folla di ragazzi al bar del teatro. Era lui,
con un giaccone di panno a scacchi bianconero, che beveva una Coca Cola
offertagli da quei ragazzi. Scherzava, rideva e parlava con tutti. Lo vedevo per
la prima volta e non immaginavo fosse così alto.
Facendoci obliterare i biglietti entrammo nella sala vuota e ci sedemmo (in
prima fila, ovviamente prenotati da tempo).
Dopo
un po’ sentimmo arrivare sulle nostre nuche uno spiffero d’aria, il rumore di
una porta posteriore che si apriva e dei passi che attraversavano il corridoio
centrale. Uno spilungone di 24 anni, con la barba e i capelli rossi, ci passò di
fianco guardandoci stupito e chiedendosi cosa facevamo lì a quell’ora. Avrà
pensato “forse quelli delle pulizie che si riposano”.
Quando
arrivò sotto al palco, uno dei componenti del gruppo folk Taberna Mylaensis (supporters
del suo tour) si affacciò gridandogli “Francesco…. Alice guarda i gatti….” .
Balzando sul palco con uno stile da “Olio Cuore” De Gregori rispose “… e i gatti
se magnano i topi…” e sparì dietro il tendone.
A quel
punto la mia poltrona stava trasformandosi nel sedile dello Shuttle. Volevo
andare lì dietro anch’io, rischiando di farmi mandare a quel paese; avrei voluto
chiedergli tante cose, ma quel mio amico mi convinse a restare seduto.
Subito
dopo entrò in sala una signora, qualcuno fece capolino dal tendone e la invitò
dietro le quinte. La signora salì comodamente le scalette del palco e restò lì
dietro quasi un’ora a vedere tante belle cose, mentre io mi ero già mangiato le
mani, le braccia e il velluto della poltrona che avevo davanti.
Alle
21 il teatro era già pieno e con un pubblico diverso da quello pomeridiano, più
“by night”. Alla fine del breve recital del gruppo che gli faceva da spalla,
nella sala calarono il buio e il silenzio. Un faro di luce accompagnò l’apertura
del tendone rosso e Francesco entrò con camicia celeste, jeans e cappellino da
notte. Inizia da solo, con la chitarra imbracciata e canta subito Cercando un
altro Egitto. Stava immobile a gambe unite e non faceva nessun movimento per
paura di allontanare la chitarra dal microfono (allora non c’erano i
radiomicrofoni). Poi parlò della capra della casa di Hilde, cantò Niente da
capire ed altri pezzi che non ricordo e poi si fece accompagnare dalla sua band
(Michele Ascolese, Giampaolo Ascolese, Peppe Caporello e Fabrizio Cecca).
Un
concerto favoloso! Era il De Gregori allo stato puro, quello di Rimmel e della
Pecora e il grande Bufalo Bill era stato pubblicato da poco.
Oggi,
quando parlo con un giovane degregoriano di Catania arrivo puntualmente, senza
accorgermene, alla domanda “ma tu l’hai visto il concerto del ’76
all’Ambasciatori?”. Quando lui mi risponde “ma io non ero ancora nato nel ‘76”
mi rendo conto che in quel momento l’età mi strattona la manica della giacca per
farmi tornare alla realtà.
Mimmo Rapisarda
(FROM: RMS
www.iltitanic.com
- TO: FORUM
www.rimmelclub.it)
LE
PROVE DEL DISCO (YOUTUBE)
'Processo' Palalido .
Come oggi la pensa il diretto interessato
De Gregori: mi chiedo se lo rifarebbero "Vorrei si materializzassero per
vedere se hanno cambiato idea"
Roma, 15 mag 2010 - "Il mio 'processo' al Palalido è un episodio che
viene sempre evocato e spessissimo nelle interviste mi viene chiesto
come andò. Fu una vicenda sgradevolissima, ma oggi troverei interessante
che si materializzassero le persone che lo hanno fatto". Così Francesco
De Gregori - durante lo Speciale 'Niente di personale - Cos'era, cosa
sarà' in onda ieri alle 22.30 su La7, ha ricordato il 'processo' a cui
gli estremisti di Autonomia Operaia lo sottoposero nel 1976 sul palco di
un concerto al Palalido di Milano. E rivolgendosi a Piroso ha affermato:
"Ecco, perché non li invita lei che può? Facciamo un 'Niente di
Personale' con quelli che hanno fatto il 'processo proletario', per
vedere se hanno cambiato idea, se oggi lo rifarebbero, perché può darsi
pure di sì. Oppure allora era un periodo in cui si poteva andare in giro
a sprangare con la chiave inglese?".
E il cantautore romano ha ribadito: "Ormai io ho detto e ridetto tutto,
vorrei non parlarne più, perché quell'episodio mi ha dato e tuttora mi
dà, non dico dolore, ma un certo disagio sì, e perché è stato un momento
storico doloroso per tutti". Poi dal palco dell'Auditorium ha chiesto:
"Si materializzassero questi ragazzi! Sicuramente saranno diventati dei
signori, qualcuno di loro sarà diventato anche importante, ma credo che
nessuno di loro sia diventato poi un rivoluzionario. E poi, farei loro
quella domanda che sta in quel bellissimo film del mio amico Moretti:
'voi dicevate colpirne uno per educarne cento'. Dove sono i cento che
avete educato?".
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CESENA
- Addio a Libero Venturi, scopritore di talenti della canzone italiana.
Si è spento due giorni fa, al Bufalini, Libero Venturi, il ‘talent
scout’ dei cantautori italiani. La sua attività più fervida va dalla
prima metà degli anni ’70 all’inizio degli anni ’90, quando si fermò per
problemi di salute. Ha portato al successo grandissimi nomi, da
Baglioni, Battisti, De Gregori, Gaetano, Graziani, ai new Trolls e
Venditti, che nella sua canzone "Robin" lo ricorda: “Sono Libero e vengo
da Cesena”.
I funerali saranno celebrati domani, all’Osservanza, alle 9.30.
Tantissimi dei suoi ‘pupilli’ cercheranno di essere presenti, primo fra
tutti Claudio Baglioni, che gli ha dedicato il concerto di ieri sera a
Rimini. Parole di affetto e commozione sono arrivate dal cantautore,
prima dell’inizio dello show. Anche Sergio Cammariere e il regista Pepi
Morgia lo saluteranno con lo spettacolo di questa sera a Bellaria.
Lo ricorda come un uomo semplice, con la voglia di sfidare anche
Antonello Venditti e parole altrettanto affettuose arrivano dal mondo
dei manager, al quale Venturi, ha dato un contributo fondamentale,
sapendo coinvolgere enormi folle ai piedi dei suoi cantautori.
Morto per cause naturali, a 63 anni, lascia la moglie Leda Zaffi, la
figlia Carlotta e i fratelli Augusto e Ubaldo.
(febbraio 2007)
«Libero Venturi, impresario
di Baglioni, Venditti e della tournée di Banana Republic, era simpatico
e divertente. Originario di Cesena, apparteneva in tutto e per tutto
alla provincia e onestamente non si capacitava del perché la gente
venisse ad ascoltare uno che cantava Alice o Saigon. Si faceva sera,
arrivavamo nei locali, vedevamo i parcheggi strapieni e lui allargava le
braccia: “Ma che casso succede qui? Ma son davvero venuti a sentire
te?”».
FdG
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IL RETRO
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