I
ricordi di coloro che lo hanno reso leggendario
Quando
arrivai al folkstudlo conoscevo dylan molto poco, ascoltavo molta musica
italiana: De André, Jannacci, cantautori in genere, il Gaber di 'porta
romana', ma anche molto il Celentano de 'Il ragazzo della via Gluck'. e
poi naturalmente Tenco, Gino Paoli, i Gufi. .. direi però soprattutto
De André. Mio fratello già frequentava il folkstudlo, cantava canzoni
del repertorio folk americano da Woody Guthrie e Pete Seeger. Aveva
scoperto che scrivevo canzoni e chiese al boss, Giancarlo Cesaroni, se
avrei potuto esibirmi anch'io una domenica pomeriggio nella 'zona'
riservata agli esordienti e il boss disse di sì. Così credo che cantai
qualcosa di De André e qualcosa di mio, magari senza nemmeno
dichiararlo, davanti a una quindicina di persone. Se mi chiedi come
andò che vuoi che ti dica ... a un certo punto mentre cantavo mi venne
da schiarirmi la voce, così mi fermai, chiesi scusa e ricominciai dal
punto dove mi ero interrotto ... ecco come andò. Alla fine Cesaroni
disse che non era male e che mi avrebbe richiamato prima o poi, e che mi
avrebbe anche pagato. Quindi se dovessi identificare un momento preciso
in cui la musica è diventata il mio lavoro il momento, in cui sono
diventato professionista, direi che è stato quel pomeriggio lì. La
paga devo dire che non era granché, anche per quei tempi. .. a volte
1000, a volte 1.500 lire, che venivano in buona parte investite in
consumazioni al bar. E poi Cesaroni aveva questo strano metodo di
convocazione: ti diceva di comprare il giornale un certo giorno della
settimana, il Messaggero, metti al martedì. .. e se il tuo nome
compariva nella programmazione del giornale voleva dire che avresti
suonato e cominciavi a prepararti per la scaletta".
(FdG)
Tratto da "Contemporanea"
di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera
IL
LOCALE
Il
mitico locale "fuori dagli schemi" che ha dato il via alla
carriera di alcuni dei più famosi cantautori italiani.
Locale
di fondamentale importanza e trampolino di lancio per molti cantautori
italiani è stato certamente il "Folkstudio".
Situato
originariamente a Roma in via Garibaldi, esso era lo studio-cantina di
un pittore americano: Harold Bradley, nel quale si riunivano amici
pittori, artisti e musicisti provenienti da tutto il mondo. Avendo
fruttato, a Bradley denuncie di disturbo della quiete pubblica per le
riunioni alquanto rumorose, il pittore decise di improntare il locale
nella formula giuridica "circolo privato culturale apolitico".
Tale
iniziativa ebbe un grande successo tra i giovani, perché, in una sola
serata c’era la possibilità di spaziare dalla musica celtica a quella
brasiliana, dalla canzone d’autore a quella politica, dal folk al
blues. Il locale concedeva insomma la possibilità ai giovani di
esprimersi nella piena libertà musicale, senza condizionamenti di
quanto andasse per la maggiore.
Si
dice addirittura che un giovanissimo e sconosciuto Bob Dylan, sia
passato per quel locale, con la sua inseparabile chitarra, ed abbia
fatto ascoltare ai fortunati che vi si trovavano, le sue prime ballate.
Dopo
alcuni anni, Harold Bradley, tornò a Chicago e la direzione del locale
passò ad uno dei suoi fondatori, Giancarlo Cesaroni, che volle
inaugurare una interessante e specifica sezione dedicata esclusivamente
agli esordienti della canzone d’autore.
Fu
allora che, cantautori italiani ancora oggi sulla cresta della
notorietà e del successo, resero pubblici i loro primi brani ed
espressero in musica i loro pensieri.
Francesco
Guccini, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Mimmo Locasciulli,
Rino Gaetano, Gianni Togni, Luca Barbarossa, Sergio Caputo, sono alcuni
dei cantautori che hanno avuto come trampolino di lancio il famosissimo
locale che era il "Folkstudio".
IN
GIRO PER TRASTEVERE
da
http://www.vagabondo.net/Storie/trastevere/
Traversato
il Ponte Sisto si arriva su Piazza Trilussa, tributo al grande poeta
romano. Qui è già consigliabile una sosta, poiché all'angolo con via
del Moro, c'è l'Art Cafè, ritrovo molto trendy, con i suoi sgabelli in
alluminio e l'acqua che scorre sotto il bancone. L'ambiente, vagamente
newyorkese, nel cuore della città, è aperto dalle 7 alle 3 del
mattino.
Se
si prosegue per via del Moro si incontra il forno del pane più
fragrante della zona per non parlare dell'ottima pizza a taglio. Sempre
su via del Cinque, in prossimità dello slargo ma un po` nascosta, c'è
la pasticceria che, incredibile ma vero, a Roma produce le più buone
torte Sacher, tanto care al regista romano Nanni Moretti, che nel
quartiere ha pure aperto un cinema.
Se,
tornando indietro, da Piazza Trilussa scegliamo di andare a destra e ci
incamminiamo per via di Santa Dorotea, che deve il nome alla chiesa
della santa, sarà bene tenere d'occhio l'enoteca Il Cantiniere, di
Alberto Costantini, che mesce vini prelibati italiani, alsaziani e
californiani, in combinazione con piatti sfiziosi, e spesso organizza
corsi di degustazione. Via di Santa Dorotea incontra quindi via della
Scala, resa famosa negli anni '70 dal cantautore Stefano Rosso,
animatore insieme ad Antonello Venditti e Francesco De Gregori e a molti
altri allora giovani musicisti del "mitico" Folkstudio, locale
cult di Trastevere.
Prima
di incamminarci per via della Scala notiamo di fronte a noi via
Garibaldi, il viale in salita che porta al Gianicolo e dove hanno
vissuto molti illustri artisti, tra cui il poeta pittore Rafael Alberti,
scomparso recentemente. (Donatella Scatena)
GIANCARLO
CESARONI
Il
Folkstudio nasce nel '60 come un locale tra arnici, con un
associazionismo spontaneo e diviene subito, inconsapevolmente, un locale
di successo.
Le
sue proposte diverse, la maniera di gestirle ed il tipo di presenza ne
fanno subito il locale intellettuale per eccellenza degli anni '60 -
'62.
A
questo punto Harold Bradley, americano purosangue, punto di riferimento
ed ispiratore, pensa ai suoi interessi e ne fa un locale da show
business, sui modelli del Village, con tre-quattro show men per serata,
senza un discorso che non deve risultare minimamente impegnato, ma che
suo malgrado funziona politicamente come punto d'incontro, e dove ogni
tanto, approffittando della scarsa sorveglianza di Bradley, riescono a
cantare anche i rivoluzionari, tipo Della Mea, Settimelli e la Marini.
Tale
linea dura sino al 67', quando Bradley ritorna negli States (il suo show
business ha fatto il suo tempo, il locale va male perchè sono sorti
altri punti d'incontro più confortevoli e comodi, e perchè la
confusione di linea ha allontanato un pò tutti).
Dall'ottobre
del '67 con la nuova gestione diretta, si cambia completamente anche se
gradualmente. Si ha il grosso vantaggio di essere indipendenti dal
bisogno, e su tale sicurezza, sì può cominciare a gestire verso
direzioni culturali ben precise.
Comincia
subito il discorso dell’altra musica", cercando di accogliere,
dare spazio e presentare i prodotti fuori dai canoni di consumo, tutte
le proposte originali valide nella loro musica e nei loro contenuti.
Nascono
progressivamente i recitals, le rassegne, e i festivals, insomma la
presentazione di personaggi noti o sconosciuti in un'unità di discorso
e di programmazione. Nasce il rapporto continuo con l'informazione, si
cominciano a passare i comunicati stampa e vengono le recensioni. Il
Folkstudio è diventato maggiorenne ed inizia a svolgere un ruolo di
teatro dì musica dedicato alle nuove proposte e ai nuovi personaggi.
Tale
ruolo viene recitato costantemente ed è con questo meccanismo che il
Folkstudio diventa il vivaio da cui passano agli inizi tutti i
personaggi conosciuti e sconosciuti di oggi, da Francesco De Gregori ad
Antonello Venditti, da Tommaso Vittorini a Massimo Urbani (presentati
nel millenovecentosettantatre come le nuove leve del jazz), da tutti gli
interpreti di musica popolare da Maria Carta a Matteo Salvatore, sino
alle nuove proposte di musica sudamericana con i Quilapayun o i Condores
nel 1968-1969 sino a Daniel Viglietti nel 1976, con i Black Jack David
irlandesi del 1977 ed il continuo vivaio del Folk-studio Giovani.
In
quest'ottica di riforma e di contrapposizione alla musica di consumo
dilagante, si cerca di allargare i confini e presentare le proposte
diverse su piano nazionale e nasce l'etichetta discografi-ca nel 1975
con i dischi di M. Locasciul-li, V. Chalot, A. Infantino, A. Harman, C.
Sannucci, la Folk Ma-gic Band, i Tarantolati, la musica contemporanea di
Schiano e Guaccero e le Nacchere Rosse.
Sempre
in quest'ottica di esportazione nazionale, vengono i tentatívi di
gestione comune di circuiti spettacoli in Italia con altri centri
politicamente attivi iniziato nel 1977 e proseguito sino ad ora con i
Folk Festival e con le aperture delle nuove frontiere musicali,
irlandese nel 1979 ed africana nel 1980.
Nel
locale si continua a gestire sempre musica con lo stesso indirizzo.
Apertura a nuova musica e
nuovi personaggi dando loro un palcoscenico per le loro proposte, un
pubblico piccolo, ma buono per un riscontro, il massimo appoggio con i
mezzi d'informazione per una propagazione del loro discorso, per
aiutarli a proseguire nella strada intrapresa, fuori da un rapporto di
dare ed avere e fuori da discorsi commerciali e di mass-media che
specialmente oggi bombardano e distruggono ogni tentativo di proposta
culturale.
Questa
in breve la storia e la finalità di intenti del Folkstudio.
Oggi,
dopo vent'anni di attività, siamo molto stanchi e delusi e vorremmo
smettere. il momento politico e culturale è uno dei peggiori con il
consumo che colpisce in tutti i campi ed il nicolinismo che ha
determinato la nascita di una tribù di falsi operatori culturali,
pronti a mungere in nome di operazioni più o meno intellettualistiche.
Sarebbe
quindi il caso di proseguire per cercare di essere un'isola nel mare di
consumo che ci circonda, ma non sappiamo se ce la faremo. (Giancarlo
Cesaroni)
ANTONELLO
VENDITTI
Flash
1 - da “La valigia del cantante” di Pino Casamassima – De Ferrari
Editore
Ho
conosciuto Francesco nel ’69 e poco dopo abbiamo messo in piedi un
gruppo: ci chiamvamo senza troppa fantasia, “I giovani del Folkstudio”,
c’era anche Giorgio Lo Cascio. Suonavamo solo la domenica, iniziavamo
al pomeriggio e tiravamo avanti fino a notte. Io avevo già qualche
canzone mia, mentre Francesco cantava Dylan, Cohen e De Andrè. La
nostra sigla d’apertura era “Tapum Tapum” e chiudevamo con “I
will good night”. Il folkstudio era un posto incredibile. All’epoca
si trovava in Via Garibaldi, poi si spostò nella libreria “L’uscita”,
quindi in via Sacchi, infine vicino al Colosseo, ma era già tutt’altra
cosa rispetto al locale di Trastevere: con la scomparsa di Cesaroni era
finito tutto.
Flash
2 - dal sito Solegemello
Erano
tempi lenti e con poche auto, erano passeggiate da farsi placidamente a
piedi, avventure da mordere a fondo - notti comprese - fra bar, cantine,
ristoranti, librerie, gallerie e iniziative... luoghi umani ed artistici
legati strettamente dallo stesso spirito neo-romantico. Erano tempi -
sana nostalgia per la giovinezza a parte - in cui Roma Capoccia dominava
sul mondo infame dall'alto della sua rivoluzione culturale e il
Folkstudio in Via Garibaldi (con annesso il limitrofo Bar delle Rose)
era un microcosmo capace di far convivere guitti intellettuali e popolo,
hyppies globetrotters e politici, ceti razze ed età, tutte unificate
dal jazz, dal folk, dalla sangrilla e
dall'amicizia grande, fatta di
grande complicità. Erano tempi e luoghi che nel libro di Ernesto - tra
canzoni pennelli e bandiere sessantottarde - riaffiorano con la loro
verità e il loro colore reale, come ridipinti e lucidati, vendicando
centinaia di scarni e frettolosi pezzulli di pavide penneasfera per
forzate ricorrenze sui loro rotocalchi coi culi in copertina! Il
Piemontese, borghese come noi ma già svezzato a racconti di guerra,
montagne innevate e campagne, vita contadina, spinto della Resistenza,
con quei quattro o cinque anni di più e quella stazza fisica ed
ideologica superiore alla nostra gracilità di metropolitani, di
studentelli, spalancò la porticina del Folk e subito pronunciò parole
importanti, per noi spesso anche oscure. Teorizzò, come un tribuno, di
antifascismo, di strade, fabbriche, masse, organicità, imponendoci
crudelmente di "volare più basso, di lasciare qualche sogno in
terra, di buttarci nella mischia quotidiana..." Ci inquietò e ci
impose rispetto, trascinandoci in piazza con lui, facendo fino in fondo
il suo dovere di militante e fottendosi mica male laddove, mentre noi
riuscimmo a far la nosta parte restando nondimeno liberi, lui invece -
uomo di marmo assoluto - fu ineluttabilmente irreggimentato e usato al
punto da tarpare per lustri a venire la fantasia e le qualità liriche
di cui era abbondantemente in possesso. Ora questo libro coloratissimo e
musicale viene a liberarlo definitivamente, certo, quasi trent'anni
dopo.
E'
come se Ernesto - urlando e ricordando, senza mai prender fiato, i suoi
anni migliori e fondamentali, non tanto di successo quanto di
formazione, fosse riuscito finalmente a sciogliersi dai vincoli
anacronistici e tornare libero e bello, giustamente ancora e sempre
incazzato come una
bestia, lucido come dopo una severa autoanalisi che -
raschiando il fondo di ogni recriminazione e ripensando gli avvenimenti
- lo rimette in gioco.
Un
gioco che oggi ha di nuovo un gran bisogno di gente come lui, emendata
dalla demagogia, sincera, recuperata al sogno degli amici di Sora Rosa e
di Alice, di nuovo e ancora pronti a lottare contro il nuovo, ma non
ultimo, "mondo di ladri".
Sì,
mi sa che a Ernesto questa mia vecchia canzone va proprio su misura,
guardaunpò, dalla prima parola all'ultima e non a caso lui l'ha sempre
amata tanto...
Va
bene. E allora anch'io come sempre "...Continuerò a cantare le
cose della vita/e se ho sbagliato a viverle, per me non è
finita...".
“Eravamo
un gruppo di ragazzi che non dormiva mai - ricorda Antonello- stavamo
sempre in movimento e tutto ci incuriosiva. Il Folkstudio era la nostra
offcina. In tempo reale riuscivamo a capire se le nostre canzoni avevano
una ragione di esistere. Le scrivevamo e appena finite le riproponevamo
ad un piccolo ristretto, competente e assai critico. Anche se accomunati
dalla stessa voglia e dalle identiche passioni eravamo molto diversi tra
di noi. Ernesto Bassignano, Francesco De Gregori, Giorgio Lo Cascio ed
io traducevamo, componevamo e cantavamo, inconsapevoli di vivere un
periodo importante della nostra canzone.”
“Quando
incominciai ad uscire dal Folkstudio – prosegue Venditti-e a fare
concerti in giro per l’Italia mi accorsi quanto fosse recettivo il
pubblico dei miei coetanei. Io vivevo tutto come un ex-fan dei Rolling
Stones, dei Beatles e di tanti altri, inposizione privilegiata. Tanta
era la gioia per riuscire a fare quello che desideravo. Ci sono voluti
anni per capire che intorno a me non c’era soltanto interesse, ma
anche un discreto giro di affari. Fui il primo artista a ribadire i
propri diritti nei confronti di una casa discografica padrona assoluta
di tutto quello che producevo. Cambiai etichetta e vissi un periodo
difficile, anche sul piano personale. Mi separai da mia moglie e andai
in esilio a Milano. Erano “gli anni di piombo”, la contestazione
incominciò a colpire anche noi che ne avevamo fatto parte. Il “processo”
a De Gregori degli autonomi al Palalido fu per me un trauma. Volli
andarci anch’io dopo qualche mese e mi accorsi di essere solo. La casa
discografica vedeva a rischio la mia popolarità, gli amici non capivano
il perché di questo confronto e gli impresari non capivano perché non
impiegassi il mio tempo in esibizioni più remunerative.
Suonai
al Palalido e vinsi la sfida. Vendicai, a modo mio, Francesco.
Flash
3: dal libro Folkstudio story, di Dario Salvatori
Bassignano
:"Attenti, volano schiaffi!"
De
Gregori: "Non fare il solito stalinista".
Lo
Cascio (tifando De Gregori): "Non c'è motivo di scaldarsi
tanto".VendItti: "Fulmini, tuoni, denunce, condanne,
scarcerazioni! Imparatevi gli accordi!
Cesaroni:
"Mi avete rotto le palle".
That's
Folkstudio.
Quando
rimisi le mani su quel fottutissimo pianoforte pensai "Il
Folkstudio è veramente morto, finito. Meno male".
A
spiarmi c'erano cento occhi che quelli della barzelletta della civetta
che fa il pappagallo sono uno scherzo, più quattro (Francesco e
Ernesto) particolarmente carI. Poi due flashaioli da penna a sfera
residuati bellici della dolce vita che ancora mi chiamavano Anita, otto
preti in libera uscita travestiti e col tesserino da intellettuale, e
lui, il Grande Vecchio Mammamia Che Paura, Cesaroni (che più lo guardo
e più mi sembra lui, il Folkstudio).
La
prima morale di questa favola è che solo lui, il "Buon Cesaroni
quasi mai Giancarlo per gli amici, sembra aver navigato intatto tra gli
anni, passando con estrema disinvoltura ed apparente soddisfazione dal
sax di Mario Schiano alla ghironda dei Prinzi Raimund.
Quando
rimisi le mani su quel fottutissimo pianoforte, dicevo, tutto sembrava
finito, sepolto, passato e irripetiblle. "No pen-sava fra sè il
pianista di passaggio - non è più il Folkstudio di via Garibaldi dove
ci si divertiva ad annoiarci tra un ponce e l'altro dietro il banco
della sora Maria, bar attiguo e comunicante, teatro ridotto di avventure
etiliche e non, c'era un non so che, tutto parlava, suonava, cantava, no
il Folkstudio non è questo, non mi commuovo neanche più. Oggi parlo,
straparlo…allora...
In
un angolo da osservare, spiare, il montgomery obbligatorio anche
d'estate, ma siamo matti? Meglio una bella maglietta con le maniche
corte e andare. Le tourneè erano trasferte al circolo Daunia di Foggia
dove Cesaroni a momenti si ammazza (non diciamo come, eh boss?). Oggi
palco da cento metri, mille fari, centomila watt, tre tir per tremila
chilometri, se no come farei a cantare?
L'atmosfera,
con la gente che continua ad entrare, si fa di festa tipo non si
uccidono così anche i cavalli? E mentre sto per cominciare sento
distintamente il bisbiglio di una quattordìcenne con maglietta
"Patti Smith sei grande e bella", dice alla sua amichetta
undicenne capelli a scacchi: "Hai visto chi c'è? C'è pure De
Gregori, canta pure lui? Chissà se
cantano insieme come ai tempi del
Folkstudío?". Ma questo è il Folkstudio porca vacca! O no? Non
c'è tempo, devo suonare, è un cammino all'indietro dove incontro Sora
Rosa ...
Folkstudío
è ancora il rivolo di sudore che parte dalla tempia sinistra e punge
come una zanzara quando non hai messo l'autan, e gli occhiali che
scivolano giù fino alla punta del naso, dove ricompare puntuale come un
orologio un antico tic, ogni volta che sbaglio gli accordi, Folkstudio
è anche silenzio profondo pieno di anni passati insieme, è chiudere
gli occhi, è riaprirli e vedere ancora dei vecchi amici ...
"Attenti
che qui volano schiaffi”, “Non fare lo stalinista", “Discutiamone
con calma", "Imparatevi gli accordi!", “Mi avete rotto
le palle”.
I
ragazzini new-wave se ne vanno perplessi. "Era lui o non era
lui?", dato che alla fine De Gregori non ha suonato. La gente se ne
va; restiamo noi: il Boss, Ernesto, Francesco, sua moglie ed io. La
festa è finita.
MIMMO
LOCASCIULLI
da
“Storia di un professionista dilettante” di Enrico Deregibus – L’Isola
che non c’era – Ottobre 2002.
Nel
1970 si fa le notti suonando pianobar. L’anno dopo si sposta a Roma
per terminare gli studi e finisce nella leggenda del Folkstudio, dove
già bazzicano De Gregori, Venditti e compagnia. Si propone a Giancarlo
Cesaroni, il deus-machina del locale, che lo fa suonare la domenica
pomeriggio (primo gradino), poi la sera insieme a Giorgio Lo Cascio e
Stefano Rosso (secondo gradino) e infine con un concerto solo suo (terzo
gradino).
“Quando
mi presentai per la prima volta al Folkstudio mi portai la mia chitarra
dentro una custodia di cartone: l’avevo appena comprata e non sapevo
che lì c’era un piano che invece era il mio primo, unico e vero
strumento. Con la chitarra sapevo suonare solo sette accordi e mi
aiutavo spostando il capotasto a seconda delle tonalità, ma suonando
sempre in chiave di do. Non ero un chitarrista ma avevo uno stile
particolare nella “pennata”. Cantai tre canzoni (una mia traduzione
di una canzone di Dylan, una canzone di Jaques Brel (Quella gente là) e
una mia composizione) e siccome la cosa piacque continuai per moltissimo
tempo a suonare la chitarra e lo feci anche sul mio primo disco Non
rimanere là, che è un disco solo voce e chitarra. Quando poi, un po’
alla volta, cominciai a suonare anche al pianoforte si creò un certo
stupore perché tutti credevano che io sapessi suonare solo la chitarra”.
All’inizio
il decrepito pianoforte del Folkstudio è a muro e il Nostro deve
suonare spalle al pubblico. Non ci sono microfoni e cantare rivolti al
muro rende impossibile la comprensione dei testi. “Antonello non ha
problemi” gli diceva Cesaroni quando lui si lamentava. “Si, ma lui
ha una voce che spacca i muri” gli rispondeva. Col tempo riesce a
convincere il patron a girarlo quel benedetto piano e, poi, a
permettergli anche di cantare col microfono. Altro successo personale.
“C’era
molta amicizia nel Folkstudio, molta complicità, molta solidarietà
umana e soprattutto un senso di appartenenza che mai più ho ritrovato
in situazioni e ambienti successivi. Non so se il senso di purezza che
si respiravaa fosse giustificato e sufficiente, ma tanto mi bastava e mi
basta: essere “parte integrante” di un qualcosa (idea, spirito,
azione, progetto, modo) che emanava una sensazione di unicità e di
esclusività”.
FRANCESCO
DE GREGORI
Flash
1 - da “Francesco De Gregori, un mito” di Michelangelo Romano –
Lato Side
FDG.
Mio padre e mio madre non erano molto contenti di questo fatto del
Folkstudio perché mio fratello ci favea le tre, le quattro di notte.
Così cominciai ad uscire anch’io la sera per suonare al Folkstudio,
avevo sedici-diciassette anni.
ROMANO.
Mi ricordo che quando cantavi in pubblico all’inizio eri molto timido
sia nei discorsi che facevi, sia come modo di cantare.
FDG.
Ecco, come uso della voce sì, come discorsi no, appena stavo su un
palco grande con molta gente sotto, facevo delle cose spaventose, facevo
finta che si era rotto il microfono, poi dicevo “no, si è
riaccomodato”, certe volte lo staccavo io, insomma cercavo di
sbloccare questa timidezza e la gente rideva molto.
ROMANO.
Mentre al Folkstudio questo non era possibile
FDG.
Sì, perché al Folkstudio te li vedi lì sotto, vedi quello che
sbadiglia, vedi quello che parla mentre canti, quindi ti demoralizzi
molto.
ROMANO.
E Venditti lo hai conosciuto al Folkstudio?
FDG.
Sì, praticamemente lìho conosciuto lì; venne un anno dopo mi sembra e
aveva due canzoni di repertorio: “Sora Rosa” e “Roma Capoccia”.
ROMANO.
Senti, il fatto di andare al Folkstudio ed essere pagato, sia pure poco,
cioè questa scoperta che potevi guadagnarti da vivere senza chiedere i
soldi a tuo padre…
FDG.
La prima volta che ho preso 1.500 lire da Giancarlo Cesaroni è stata
una cosa molto bella. No, non pensavo di poterlo fare come mestiere.
ROMANO.
Un altro aspetto di questo discorso c’è in Arlecchino
FDG.
Arlecchino è una canzone sul mio ruolo, sul mio ruolo di una volta più
che altro, cioè questo “fiori falsi e sogni veri nella friggitoria
Chantant” è il Folkstudio agli inizi, dove non era importante neanche
mangiare, bastava sorridersi, bastava comunicare, e c’è questo
Arlecchino su un filo e la gente vuole vedere cosa fa, e Arlecchino non
sono necessariamente io, ma i tipi come me in genere, a cui danno dei
soldi in cambio delle sue acrobazie: “Quanti soldi ti hanno dato? La
mia cella è un po’ più in alto e mi pagano di più”, però alla
fine questo Arlecchino si fa i fatti suoi, indipententemente di quanto
sia grande la stanza, da quanto lo pagano, vola senza filo e uno deve
arrivare a volare senza filo…
Flash
2 - da “Io e Caterina” di Andrea Fantacci – L’Isola che non c’era
– luglio 2001.
Dal
Folkstudio passavano molti cantanti popolari e ricercatori di musica
popolare: la Marini, la Bueno, Sandra Mantovani, Settimelli, il Duo di
Piadena, Matteo Salvatore, Otello Profazio, e contemporaneamente,
parallelamente, passavano anche giovanissimi o anche meno giovani
autori, cantanti, interpreti. C’ero io e c’erano anche Antonello
Venditti e Giorgio Lo Cascio. Ma arrivava anche gente dall’America,
dall’Inghilterra che faceva musica che per noi era sconosciuta.
Mi
ricordo un duo che si chiamava John e Jean. Con due chitarre
cominciavano a farci conoscere le canzoni di Bob Dylan e altri che noi
non conoscevamo. Quindi il Folkstudio era un punto d’incontro di varie
tendenze, di vari generi musicali. E chiaramente da questi incontri
nascevano anche contaminazioni. Io fui uno di quegli esempi di
contaminazione. Cominciavo a scrivermi le canzoni, però
contemporaneamente ero anche molto attratto da quello che faceva
Fabrizio De Andè, e anche dalle canzoni popolari italiane.
Quando
il Folkstudio mi invitava a fare una serata, per evitare di esporrmi
troppo direttamente con le mie canzoni, delle quali non ero così
sicuro, nella prima parte facevo pezzi della tradizione popolare,
canzoni dlele mondine, canzoni anarchiche e nessuno si scandalizzava. Se
andavo lì e facevo questi pezzi, io studentello di Roma, sbarbatello
borghese figlio di borghesi, non gliene fregava niente a nessuno. Facevo
anche pezzi di Caterina Bueno, come “Maremma”.
Flash
3 - da “Senza trucchi” di Isio Saba - Nuovo sound - n. 1 /75 - 6
gennaio 1975
Tutte
le domeniche pomeriggio c'è un "happening" di giovani, per lo
più cantautori, che approdano alla pedana del Folkstudio prendendo
contatto per la prima volta con il pubblico: ognuno di essi è seguito
da qualche amico e così la platea è benignamente predisposta ad
accogliere questi nuovi poeti. Si presentano tutti simili, tematiche
ricorrenti stili e musiche vicine a quelle dei cantautori più impegnati
dell'ultimo decennio (da Dylan a Cohen, da De André a Gaber, da
Venditti a De Gregori…!).
Dopo
il Folkstudio, questi giovani ritornano alle loro esperienze quotidiane,
semplicemente così come sono arrivati: qualcuno diventa popolare, nel
senso che la sua fama supera i confini di Trastevere e di Roma e che
incide un disco, comunque rimane ancorato alla pedana e agli amici di
via Sacchi.
Quelli
che vengono per la prima volta, si rendono conto che Francesco o
Antonello sono come Mimmo, Mario, Giorgio, Giovanna e altri: con loro si
parla da pari a pari e il divismo non esiste per nessun motivo.
Flash
n. 4 – da “Folkstudio story” di Dario Salvatori.
“Tutti
sono capaci a suonare di fronte a duecento persone ma li vorrei vedere a
suonare per tre!
Diffida
dalle accordature troppo precise e da coloro che non amano cavalli e
cani e non lasciare l'intera paga al bar (e mi raccomando, dopo l'una
niente casino).”.
Alla
fine degli anni sessanta, quando vi misi piede per la prima volta, il
Folkstudio abitava in via Garibaldi 59, in un locale fatto a forma di
elle, un pò umido e sporco, privo di qualsiasi fascino.
Quel
pomeriggio io e mio fratello Luigi (Ludwig), prendemmo il filobus che
veniva giù da via Jenner e cercando di non prendere troppo freddo alle
mani ci dirigemmo verso le pendici del Gianicolo. Mentre facevamo a
piedi l'ultima parte di strada Ludwig mi dette le ultime
raccomandazioni: - Se sbagli un accordo fai finta di niente, che non se
ne accorge nessuno . . . cerca di ricordarti tutte le parole a memoria,
se le leggi su un foglietto pare brutto. . . non ti demoralizzare se
mentre canti qualcuno si alza e se ne va, tanto succede sempre.
Devo
dire che questi tre consigli si sono dimostrati validi in assoluto anche
in seguito, ma in quel momento mi sembravano terribilmente fuori luogo.
lo ero preoccupatissimo per le mie mani intirizzite e avevo paura di non
riuscire a suonare la chitarra; eppoi il Folkstudio era per me un
ambiente misterioso in cui venivo introdotto grazie alla burbera
benevolenza di un fratello maggiore ormai affermato interprete di
canzoni popolari americane.
Ludwig
in quel periodo suonava spesso in trio con Dario Toccaceli e Giuliano
Bellezza: con tre chitarre si esibivano in un repertorio che spaziava da
"Banks of the Ohio" a "Deportees". Mio fratello
prima di cantare traduceva a braccio le canzoni e nominava sempre un
certo Woody Guthrie che allora nessuno conosceva; poi attaccava e la
gente stava lì a sentirlo, un pò attenta e un po’ stupita.
Erano
gli anni del Vietnam, delle rivolte studentesche: ma erano anche gli
anni di Peter Paul e Mary Travers che importavano in Italia una versione
alquanto alquanto edulcorata di "Blowin in the wind”, gli anni
dei festívals di Sanremo "finalmente aperti ai giovani", gli
anni dei Beatles-Baronetti.
Mio
fratello, al centro della pedana rossa, intonava in tutta pace la storia
di quest'uomo che andava in giro per l'America a cantare "Questa
terra è la mia terra" e aveva scritto sulla sua chitarra
"Questa macchina ammazza i fascisti".
Il
Folkstudio era allora (e tale è rimasto in definitiva anche adesso) un
palcoscenico aperto a tutti. Chiunque poteva chiedere di fare il suo
numero la domenica pomeriggio, davanti al pubblico pagante, senza
bisogno di audizioni preliminari da parte di Cesaroni. Per decidere se
era il caso di continuare oppure no si dava credito alle reazioni del
pubblico che raramente erano negative. Questo spiega come in certi
pomeriggi domenicali gli "artisti” fossero in netta superiorità
numerica rispetto al "pubblico".
Molti
diventavano artisti senza nemmeno accorgersene: bastava venire due o tre
volte di fila come spettatori e poi, se sapevi suonare un pò la
chitarra, o se sapevi o credevi di saper cantare, venivi inevitabilmente
cooptato in qualche tipo di jam session. A quel punto era fatta: potevi
continuare a venire senza più pagare il biglietto e magari diventare
una pop star.
Uno
che cominciò in questa maniera la sua carriera di musicista è Giorgio
Lo Cascio. Dopo un paio di settimane che veniva a sentire si presentò
un pomeriggio con chitarra a dodici corde cecoslovacca e una traduzione
fresca fresca di "Sad eyed lady ofthe lowlands", la cantò
come meglio poteva e diventò uno dei giovani del folk (gli altri tre
eravamo io, Venditti e Bassignano).
I
Giovani del Folk ebbero un lungo periodo di gloria ed una rapida
parabola discendente culminata in uno storico litigio con Cesaroni che
accusò i quattro di essere '”entrati nel pallone”.
Entrare
nel pallone voleva dire varie cose ma fondamentalmente una: essersi
montati la testa. Noi entrammo nel pallone quando una sera ci rifiutammo
di suonare di fronte a un pubblico pagante di tre persone. Cesaroni
sosteneva che un vero artista deve saper suonare (e divertirsi) anche
con una sola persona davanti; adesso magari saremmo anche disposti a
dargli ragione ma allora il nostro "Ego" (altro vocabolo
prediletto da Cesaroni) aveva evidentemente preso il sopravvento.
Un'altra
avventura i Giovani del Folk la ebbero in un teatrino di Napoli, e fu
un'avventura ignominiosa.
La
denominazione Giovani del Folk sottintendeva per il pubblico romano
quella di Giovani del Folkstudio; ma quando arrivammo a Napoli trovammo
una platea stranamente affollata che era intervenuta per ascoltare da
noi canti anarchici e canti delle mondine (intendendo per folk musica
popolare).
Chiarito
l'equivoco a metà del primo tempo la gente cominciò civilmente a
sfollare ma quelli che rimasero poterono godersi una furibonda lite
"on the stage" fra Venditti e Bassignano, reo di aver
sbagliato un accordo dell'accompagnamento di "Sora Rosa''.
La
sera facemmo tutti la pace a cena in un ristorante pieno di candele e la
mattina dopo
ritornammo a Roma sull'850 special del padre di Lo Cascio,
raccontammo la cosa a Cesaroni che rise molto e provvide a cambiare la
nostra denominazione nelle future “tournées all'estero".
Tutto
questo avveniva un paio di anni dopo quel pomeriggio che mio fratello mi
trascinò al Folkstudio per la prima volta; l'esibizione fu abbastanza
disastrosa, avevo le dita congelate e non presi un accordo giusto sulla
chitarra; a metà di "Buonanotte Nina" per l'emozione mi venne
un groppo in gola e mi dovetti fermare e ricominciare da capo. Qualcuno
in mezzo al pubblico cominciò a tossicchiare, io diventai rosso e in
qualche modo arrivai fino alla fine e scesi dal palco convinto che mai
più avrei accettato di salirci. Chiesi a Ceseroni (allora gli davo del
lei) come ero andato e lui mi disse "Uhm, naturalmente non stavo
lì a sentirti, ma se la prossima settimana leggi il tuo nome sul
giornale nella programmazione di mercoledì sera, puoi tornare".
Così
successe, e da allora sono cambiate un sacco di cose, per me e per il
Folkstudio.
(Francesco
De Gregori)
ERNESTO
BASSIGNANO
Ernesto
Bassignano scrive canzoni fin dagli anni 70. Prima, ballate per le
azioni del teatro di strada, poi pezzi suonati con De Gregori , Venditti
e Locascio al Folkstudio, e ancora canzoni di protesta manifesti della
lotta operaia, suonate nelle Feste dell' Unità di tutta Italia ; infine
le composizioni contenute nei suoi dischi. Il suo ultimo disco, "La
luna e i Falò", è del 1989.
Nato
a Roma il 4 aprile 1946, vive per lunghi anni a Cuneo. Rientrato nella
capitale, studia scenografia all’Accademia di Belle Arti. Fa teatro di
strada con Gian Maria Volonté e frequenta il Folk Studio, dove stringe
amicizia con De Gregori, Locascio e Venditti. Diviene organizzatore di
rassegne sulla nuova canzone. Fino alla chiusura del giornale, è
critico musicale di "Paese Sera" e collabora a programmi
radiofonici. Musicalmente esordisce nel 1973 con l’album Ma, inciso
per la Ariston. Le tematiche di base del primo disco sono strettamente
politiche. La musicalità è folk, tipica delle composizioni
politicizzate dell’epoca. Trascorrono due anni durante i quali l’autore
affina le sue capacità espressive. Incide Moby Dick (RCA) nel 1975. Se
le composizioni, dal punto di vista musicale, ricalcano lo stile di
Luigi Tenco, i testi sono ancora sensibili alle tematiche sociali e solo
in apparenza sono meno impegnati. Fra i brani contenuti: A Victor,
dedicata a Victor Jara, musicista cileno e Moby Dick, un attacco contro
la Democrazia Cristiana. Nel 1976 la RCA pubblica un album antologico,
registrato dal vivo, intitolato Domenica musica a cui prendono parte gli
amici: Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Lucio Dalla, Paolo
Conte, Rino Gaetano, Renzo Zenobi ed altri ancora; quindi nel 1978 il 45
giri Cenerentola col quale chiude la prima parte della sua carriera
artistica musicale. Nei cinque anni successivi abbandona la musica per
dedicarsi ad attività giornalistiche e radiofoniche. Nel 1983 si
riaffaccia nel mondo della musica con l'album D’Essai. Il nuovo disco
è dedicato ad Amilcare Rambaldi, il presidente del Club Tenco. Tutto l’album
si ispira al cinema, per parlare di un’epoca irrimediabilmente finita.
I titoli servono all’autore a volte come spunto per un omaggio
sincero, a volte per fermare attimi fuggevoli o per flash istantanei su
avvenimenti che lo colpiscono, ma solo poche volte c’è un reale nesso
tra i film e le parole delle canzoni. Nel 1985 compare l'LP Bassingher,
soprannome affettuoso che gli amici hanno attribuito all’autore. Nel
1989, rifacendosi allo stile del Cantacronache, il cantautore compone Mi
chiamo Gian Maria, sigla della rubrica televisiva "Diogene" di
Antonio Lubrano. Sempre nel 1989 un nuovo LP, La luna e i falò,
acclamato dalla critica. L’album è un viaggio alla scoperta di se
stesso, un’indagine malinconica sui sentimenti. Vi sono, nei brani,
frequenti allusioni al trascorrere del tempo e gozzaniani ricordi del
passato, uno dei brani, Il puntino è dedicato a se stesso, una sorta di
autoipnosi per sopravvivere.
Oggi
Ernesto fa il giornalista free lance, per testate e anche per programmi
radiofonici. Sarebbe però ora che qualcuno si prendesse la briga di
riportare il suo lavoro all'attenzione del pubblico.
Flash
1 - dal sito Solegemello
“Francesco
vorrei che tu, Antonello, Giorgio ed io fossimo colti per incantamento….”
Eravamo
quattro amici al bar, certo ed era, figurarsi, l’autunno del ’68. Il
bar si chiamava Bar delle Rose ed era assolutamente alla metà della
salita del Gianicolo, ad un metro esatto dalla porta del formidabile,
unico, fatiscente quanto esplosivo primo Folkstudio: ma si, proprio
quello fondato otto anni prima dai fratelli-coltelli Cesaroni e Bradley:
un chimico bianco con la passione della musica e dei cavalli, e un
pittore nero che faceva l’attore nei kolossal.
Eravamo
quattro ma oggi, così come ha voluto il porco destino, siamo rimasti in
tre.
Già
perché il mese scorso se n’è andato il caro Giorgio, nonostante col
suo male avesse ingaggiato una lotta strenua e coraggiosissima, ch era
sembrata per qualche tempo vittoriosa.
Antonello,
Ernesto, Giorgio e Francesco, appunto: Venditti, Bassignano, Lo Cascio e
De Gregori: quattro giovani neppur tanto scapigliati ma con coscienze
adamantine, ognuno con una sua età, un suo vissuto e delle esperienze
anche molto diverse, che qualcuno un giorno, in seguito e ciò
nonostante, volle chiamare unificandole “scuola romana”.
Erano
legati comunque, i quattro, dallo stesso amore per il folk, la canzone d’autore,
la poesie e la politica. Giorgio era il figlio di Cohen, Francesco di
Zimmerman (Dylan, ndr), Antonello di Elton ed Ernesto del povero Tenco,
l’angelo senza spada caduto nelle grinfie delle città dei fiori, l’anno
prima. Insieme cantavano gli spirituals perché all’epoca non si
poteva fare altrimenti. Separati invece, le loro prime canzoni, piene di
rabbia, vino, donne, funerali immaginari, aquiloni, soldati, treni e
sogni di libertà.
Antonello
era barbuto, sempre col montgomery, gli occhiali e la paranoia che gli
si toccassero i capelli e il culo. Giorgio aveva sempre caldo e stava
sempre in camicia, bianca e pulita. I capelli ricci, un testone alla
Angela Davis e gote rosse. Francesco poca o nulla barba, un impermeabile
largo del babbo con bavero alla “provaci Sam”, una pipa spenta,
tante letture esulcerate e allegoriche, la voglia inesausta di imparare
“il finger picking” dal fratello “hobo” Luigi. (Il fratello di
De Gregori, Luigi, prenderà il nome di Luigi Grechi. Grechi è il
cognome della madre, lo fece per non intralciare il fratello quando
cominciò ad avere successo, ndr)
In
più “tirava” la bocca come il suo mito di Duluth, piaceva alle
bimbe anche se era timido e lottava per non soggiacere mai alle
imposizioni di quel fetente stalinista dell’Ernesto al quale, per via
di cinque anni in più, il “boss” Casaroni aveva dato il compito di
tenere tranquilla e composta la banda.
E
allora ecco appunto l’ingrato compito, venuto il nostro momento di
guadagnarci le tremila lire a sera, di andare a catturare i compagni
schierati al bancone del bar o davanti al relativo flipper e riportarli
di peso sulla pedanina rossa inmezzo alla puzza di fumo e il profumo di
sangrilla, dribblando le poltroncine sparse e le pantegane d’autore e
musicofilo-ideologizzate tra di esse ciondolanti. Ed ecco i primi
compleanni comuni tra il “vecchio” Ernesto e il giovane
Holden-Francesco visto che il galeotto 4 aprile, ebbene si, li aveva
resi ulteriormente complici. Ed ecco le rassegne e i primi viaggi sul
maggiolone di Antonello , ecco le trasferte importanti e le feste
popolari sui palchi sgangherati del suburbio romano, spesso in compagnia
di un’altra grande amica come Clara Sereni, magari per l’interessamento
d’un Mario Schiano o d’un Leoncarlo Settimelli. Nel ’72 i quattro
amici cominciarono a prendere strade separate. Prima Antonello conla sua
“Roma capoccia”, poi Francesco con “Alice” decollano per
diventare ciò che sono oggi, mentre Giogio si ferma i locali
alternativi ed Ernesto si dà alla politica sul serio, prendendo a fare
l’agit-prop con o senza chitarra per 30 e anche 40 mila chilometri l’anno,
in treno o in auto, da Trapani al Trentino.
La
serata che decreta definitivamente la fine della comune scapigliatura è
quella del Teatro dei Satiri, nella quale, accanto ai due “Theorius
campus” appare un nuovo soggetto pop molto meno d’autore ma di
potenza espressiva inconsulta: un personaggio che quella sera Ernesto
sulle prime non apprezzò per le sue tematiche ma che presto dovette
imparare a seguire per la sua indiscussa capacità melodica e
pianistica: il piccolo urlatore si chiamava Riccardo Cocciante.
Ciao
Giorgio, Ciao Giancarlo ! (Cesaroni è scomparso nel '99, ndr), auguri
Francesco ed Ernesto!
E
trent’anni dopo cos’è rimasto di quelle tremila lire a sera per tre
canzoni, di quel fumo, quelle sagome iperreali accatastate sulla porta
di Via Garibaldi? Andateci, una sera a Trastevere a cercarne le tracce!
Le insegne sono diverse, ma come direbbe Stefano Rosso, Via Garibaldi è
sempre là e i colori della nostalgia non sono cambiati.
Essi
lottano ancora dentro ed insieme a noi, senza vergogna!
Flash
2 - da ernestobassignano.it
De
Gregori con trench e pipa che lo ha seguito tra i baraccati dell’Esquilino,
Tinin lo ha appena conosciuto, sempre in Trastevere.
II
jazzista Francesco Forti, amico di Grieco e sincero estimatore del suo
repertorio, dopo aver sentito Tinin cantare le sue ballate buffe, lo ha
convinto a presentarsi al Folkstudio dal boss Cesaroni:
"Basta
con i latrati di questo cane d'un Battisti e tutti gli altri popparoli,
sanremesi o meno! Tu e tutti gli altri cantautori che sanno cantare e
scrivere di cose vere — gli dice — avete il dovere di farvi avanti.
Cabaret, canzone politica o d'autore, va tutto bene ma, mi raccomando:
basta, anche voi, con la facile demagogia e il populismo spinto da
sloganistica canora.Bisogna inventare una nuova canzone civile,
perdiana, sennò,da un lato esisterà sempre Sanremo e dall'altro i
rivoluzionari che cantano roba per la piazza, solo per se stessi e chi
è già d'accordo!"
E'
così che, solidale con Forti e convinto si debba sul serio cambiare
musica, arriva, non più da spettatore, in Via Garibaldi.
Ed
è così che il boss lo ascolta, lo trova ok e lo presenta immantinente
agli altri due cantautori giovani, tali Antonello e Francesco, che da
pochissimo tempo hanno preso a frequentare con successo quella lunga
salita per il Gianicolo, lastricata di porfido.
Rosa,
rosso, arancio, nocciola, quattro macchie di verde per quattro piantine.
Via
Garibaldi, pochi alberi e tanti sampietrini, due bar e un ristorante per
i signori. Via Garibaldi dove, quasi in cima alla salita, prima della
caserma dei caramba, Giancarlo Cesaroni ha posto la sua tana dove una
sera era passato pure, perché mito non fosse solo una parola, un certo
Dylan, eroe del Folk City al Greenwich Village.
E
a proposito di Village, anche lo stesso papà di Dylan, Dave Van Ronk
sarebbe poi venuto e ritornato, anno dopo anno, a trovare gli amici del
Folk di Roma, a dar lezioni di chitarrismo blues and rag forte e scarno,
a cantare il country-blues d'autore, certo, ma anche Weill e persino una
sua versione dell'Internazionale, per salutare a pugno chiuso!
Via
Garibaldi è lunga e ancora deserta nel sessantanove, tant'è vero che
si può arrivare al Folkstudio ogni sera parcheggiandoci davanti. Un
cappuccio, un vino, una birra e un cicchetto al Bar delle Rose a fianco
e via, dentro il budellaccio muffito dove ogni tanto, in una nuvola di
fumo che pare nebbia in Val Padana, qualche sorcio fa il solletico ai
piedi d'un qualche spettatore che zompa per aria.
Sta
insomma nascendo una bella amicizia e in pochi mesi i tre cantautorelli,
cui s'è aggiunto un amico chitarrista di Francesco, Giorgio Lo Cascio,
comincia a scaldare la storica pedanina rossa e ad avere ogni domenica
qualche decina di fans in più.
II
mondo del Folk, tra fumo, sangrilla, polvere, muffa e vecchie sagome di
plastica abbandonate colà da chissà quale artista iperreale
misconosciuto, diventa il loro mondo e la loro casa.
Tutte
le sere alle ventuno, non solo più le domeniche pomeriggio, tutti
presenti! Ci sia da cantare, da ascoltare o solo da conoscere, perchè
ogni sera, oltre ai soliti noti tra jazz, folk e canzone di lotta,
possono arrivare artisti stranieri e nuove scoperte di Cesaroni, che
pare aver contatti in mezzo mondo.
Tre
canzoni per uno all'inizio, in repertorio, e, poi, una nuova a
settimana, se non al giorno: i tre sono diventati autori indefessi e
prolifici, pronti a presentare, a proporre al giudizio del loro pubblico
di cento esperti, le loro nuove composizioni, precedute da una sigla
che, in definitiva, si presenta ormai come un vero manifesto.:
"Sto
pensando da molti anni a una canzone che sia di tutti. e, non soltanto
mia, che non canti per cantare, solo per dimenticare..."
Antonello
Venditti è buono, generoso, spaccone proprio come il "Cicalone"
che resterà sempre. Già allora è mezzo comunista ateo e mezzo
cattolico credente, perché lui, Antonello, è in pratica il compromesso
storico fatto uomo.
Lo
chiamano Mifune perché sembra davvero il celebre Toshiro dei
"Sette Samurai".Arriva dopo aver parcheggiato il suo
Maggiolone nero e subito attacca con la sua nuova barzelletta fresca di
giornata: è inesauribile. Sempre col montgomery, anch'esso nero, con
una barba ben curata e dei capelli che sono la sua pena. Basta
toccarglieli perché si terrorizzi:
"Nooo
che mi cascano, lasciatemeli stare, maledizione!"
La
prima volta che Tinin lo vede è una domenica pomeriggio d'ottobre e sta
"zappando" sui tasti in Sol con le caratteristiche dita medie
sollevate, (spesso i tasti li fa saltare in aria).
Canta,
accompagnato dal suo amico Sandro alla chitarra, l'esulcerata e
pittorico decadente Tramonto rosa (con nuvole di grigio).
Giorgio
Lo Cascio, invece, è timidissimo e quando inizia a cantare le sue
ballate coheniane diventa tutto rosso sotto i riccioli. Non ha mai
freddo e anche in pieno inverno, in quel buco che non si scalda mai se
non con il fumo delle sigarette e il fiato di sangrilla di cento
persone, sta sempre in camicia, una delle sue preziose camice da
cantautore.
Francesco,
glabro, magro, snob, introverso e principesco come da oleografia, sembra
ancora più magro, infagottato com'è in giacche ed impermeabili del
babbo bibliotecario. Figurarsi se non fuma la pipa, se non arriva con il
collo del trench erto da sembrare Bogart:, se non si fa desiderare sul
palco, se non si spara ore di flipper nel Bar delle Rose lì a fianco,
scolandosi birre disperate.
Spesso
tocca proprio al presentatore Tinin - che al Folk tutti già chiamano il
"Bassigna" ed è il più anziano e "preciso" –
andarlo a pescare al banco o al flipper del bar perché, nonostante
sappia benissimo che è il suo turno, gli piace troppo farsi aspettare e
farlo incazzare.
Dopo
gli apripista della canzone d'autore alla romana, Edoardo e Stelo con la
loro romanissima e storica Lella, "La fija de' Projetti er
cravattaro"
Sono
dunque arrivati loro, più politicizzati e incazzosetti, ad intrattenere
i coetanei con le loro storie surreali, cattive, tragicomiche.
"Canzoni d'odio e d'amore" insomma, come le chiama il
Francesco.
Le
canzoni, le loro canzoni, le loro due o tre canzoni a sera, uno dopo
l'altro, seduti sul seggiolone, anch'esso di color vermiglio, come la
pedana, lui e Giorgio, Francesco molto spesso in piedi, Antonello al
pianoforte e la timidissima corista Diana Corsini a dar man forte,
quelle volte che c'è.
Civita,
A Gombrovicz, Sto pensando per Tinin, nel tentativo frettoloso di
superare la strada, l'inno, la demagogia insita nel farsi capire
gridando, nell'aver dovuto tentare d'essere popolare a tutti i costi,
scrivendo le sigle itineranti del "Teatro di strada."
Al
"Bassigna" tutti riconoscono esperienza umana, politica e
civile, ma deprecano, ironizzandoci su mica poco, le sue logorroiche
presentazioni per le quali, se un brano dura tre minuti, lui ne spende
quattro per descriverlo e farci ricamini ideologici infiniti.
La
casa del pazzo, The Partisan e Suzanne quelle di Giorgio, perché Cohen
è il modello, quasi un'ossessione. Giorgio, il cantilenante, ipnotizza
la sala e anche se stesso, al punto che ogni tanto bisogna svegliarlo
dalla trance di quei cazzo di La minore e Mi 7 ripetuti all'eccesso
sotto la voce scarna e quasi recitante.
Rosso
corallo, Al mio funerale, Nina e Signor aquilone per Francesco, che
tentava di italianizzare il suo country dylaniato con ritmi più
tranquilli, melodie nostrane, temi personali tra i quali la morte, il
vino e l'amicizia prevalevano. Francesco gambe unite, piedi in dentro,
mette la cicca accesa tra le chiavi della chitarra - tutti a imparare
perché fa molto fico -, "tira" la bocca e la voce proprio
come il suo idolo di Duluth, del quale ha già tradotto molto, usa
metafore coltissime, al limite dell'astruso per alcuni, favolose
citazioni per altri.
Lontana
è Milano, A Gesù Cristo e Sara Rosa per Toshiro-Antonello che, in
più, aggiunge, spesso a richiesta, perché si cantava insieme e faceva
cantare tutto il pubblico, la sua versione rock-ironico-pacifista della
militare Ta-pum.Antonello è ancora più cattivo e provocatorio di Fo,
di De André e della Marini nei confronti della Chiesa cattolica, del
Vaticano, d'un dio che desidera e a cui vuol rivolgersi, a patto che sia
di nuovo e per sempre un dio degli uomini e non della liturgia. Quando
attacca le prime strofe di a Gesù Cristo, il pubblico del Folk si
divide violentemente:
"Ammazzete
Gesù Crì quanto se' fico, chissà che me credevo che stavi a fa'/
volevo un po' vede', io so' ignorante, per' monno ch'hai creato, che
stavi a combina'..."
Naturalistico
e "genovese" Tinin, ipnotico e ossessivo Giorgio, dolcissimo,
simbolista e affabulante Francesco, potente, acuto, incazzoso un
Antonello ancora in lingua romanesca, se non proprio verace, quanto meno
appena rivisitata da studente del primo anno di legge.
Insomma,
e un'oretta d'autore mica male, spesso presentata e animata da papà
Archie Savage, uno dei componenti della formazione "Folkstudio
Singer", nume tutelare dopo l'abbandono di Arold Bradley, negrone
di ottanta chili che balla e canta da dio, ha una risata di tuono e se
ti da una pacca ti sderena.
Un'oretta
che termina, immancabilmente, con la sigla ninna nanna Irene Goodnight,
ripetuta due o tre volte per far capire che è assolutamente ora di
chiudere, di andare a dormire.
E
se qualche impenitente ingordo, innamorata o rompicoglioni proprio non
capisce, allora è il boss stesso che zompa in pedana e fa segni con le
braccia degni d'un marine sulla tolda dell'Enterprise mentre i quattro
cantautori, assonnati e imperterriti, ad libitum continuano con la
litania:
"Irene
goodnight, Irene goodnight, goodnight Irene goodnight Irene, y see you
in my dreams ".
Ma
quale Scuola Romana... Tinin, Francesco e Antonello si sono ritrovati
per puro caso insieme a scrivere e cantare canzoni in uno stesso luogo e
nello stesso momento, a fruire del gran lavoro popolare, dei modi, dei
temi di quei campioni contadini e borghesi di città che avevano, nei
dieci anni precedenti, tramandato con tigna e raccolto con amore,
dialetti e relativi canti regionali; molto spesso, dalle radici comuni,
dalla Val d'Aosta al profondo Sud.
E
allora è stato bello pensare, rifarsi ai vari Dylan, Tenco, Brel e
Ferré, ma è stato altrettanto interessante ascoltare le ballate
toscane, da Leoncarlo Settimelli e Caterina Bueno: barba, pochi capelli,
un po' di pancia e grande simpatia per l'intellettuale e giornalista
Leoncarlo; bellezza, straordinaria comunicativa, vino rosso e passione
per Caterina, la stessa cui De Gregori, più di dieci anni dopo, dedica
una significativa canzone d'affetto e stima, lei, la toscanaccia dalla
voce rauca che, per un'estate intera, divide a metà col suo
chitarrista, da vera rivoluzionaria.
E
le ballate autobiografiche pugliesi dell'ex morto di fame Matteo
Salvatore che ora, sopravvissuto alla miseria del Tavoliere, è osannato
dalla borghesia democratica romana e sbanda paurosamente, tradendo gli
assunti rabbiosi per qualche invito in Rai o qualche decina di biglietti
da mille? Matteo, o lo ami o lo odi, non c'è scampo. Se riconosci nella
sua faccia, la sua voce e la sua chitarra le storie lacrimevoli che
racconta e non pensi ai suoi modi paraculi di vendersele: beh, tutto
bene.Ma se analizzi il suo essere diventato, in pochi anni di permanenza
a Roma, il cocco dei "bene" progressisti e lo stolido pittore
di acquerelli naif compiaciutissimi, la sua fame di riscatto senza
dignità...
E
Otello Profazio, divo folk calabrese, che ormai è un'istituzione con le
sue storie antiche e terribili, che spaccia per tradizionali, mentre
sono regolarmente depositate alla Siae a sua firma?C'è, poi, la
potente, incredibile e incazzatissima super proletaria sicula Rosa
Balistreri che - se in piazza non trova microfoni - canta a voce nuda e
si fa sentire comunque da migliaia di persone: l'importante è non
perdere l'ingaggio, oltre che trasmettere la poetica del suo amico e
complice Buttitta da Bagheria e altre ennesime storie di sfruttamento e
di mafia. Rosa, come Matteo, ha campato per anni a pane olio e sale,
mica no.Ora, con l'ausilio d'una chitarraccia, d'una rabbia infinita e
d'una voce che è un ringhio, fa il folk di lotta, quello, magari, un
tanto al chilo e due accordi, ma di grande e immediata presa politica e
umana.
I
più spassosi? Merli e Chittò, come dire il Duo di Piadena, anch'essi
protesi nello sfruttamento del momento e del filone " Uva Fogarina"
finché dura.
II
cotè cittadino del folk politico è invece rappresentato, in Via
Garibaldi, particolarmente da Ivan, Giovanna e Paolo, come dire Della
Mea, la caposcuola Marini e Pietrangeli. Ebbene, Ivan è stonato, con la
"zeppola", non è un gran musicista ma le sue ballate, spesso
in dialetto milanese, sono ossessive e trapananti, fantastiche e
metaforiche, riuscendo a volte a sfiorare la grande poesia epica. Paolo,
già prima di Contessa, era il più moderno, caustico, coraggioso
interprete delle battaglie di fabbrica, di piazza e di strada, riuscendo
a raccontare - per sommi ma fondamentali capi - parole d'ordine, slogans,
bisogni, invettive e aneddoti nei tre minuti d'una fulminante canzone.
Giovanna?
Beh Giovanna non si discute e non si discuterà: è e sarà il capo, la
responsabile, la grande madre d'un movimento nato alla fine degli anni
cinquanta e spentosi nella metà dei settanta, quando Pippo Baudo portò
il folk a Canzonissima. Allieva della mondina Giovanna Daffini, ha
saputo coniugare i canti del lavoro con gli insegnamenti chitarristici
di Segovia, la musica contemporanea con Brecht. La sua faccia senza
età, la sua fierezza, la sua voce mutuata dai campi, la sua maniera di
raccontare tra una canzone e l'altra la realtà, traducendola in
immagini degne di Fo, non abbandoneranno mai la mente di Tinin e di
tutti gli altri buoni e generosi figli e allievi del Folkstudio.
Ospiti
fissi? C'è "Superguitar" Kuipers, a dar di penna spasmodica e
blues, inventando nuovi ritmi, deliziando tutti con la sua risata folle
e la lingua un po' olandese, un po' inglese e un po' italiana che
racconta storie fantastiche tra birra, cani, piattole parlanti,
medicin-show e isole incantate.C'è Luigi "Ludvig" De Gregori,
fratellone di Francesco, innamorato perso di Guthrie e Seeger, appena
tornato dal suo ennesimo viaggio in Irlanda, alle radici del country e
sempre in guerra con l'accordatura della sua chitarra: "Scusate ma
stasera ho bevuto troppo poco e i folletti Poltergheist si sono
incazzati con me..."
Cesaroni
ha preso ad odiarlo, il Luigi, perché dice porti sfiga: il fatto è che
il boss ama i cavalli e le corse, è un grande scommettitore. Luigi pare
abbia pronosticato qualcosa di male al cavallo del boss e il povero
animale si è azzoppato davvero. Da quel giorno, per mesi, il boss
s'apposta sulla porta e, come Achab, scruta nella notte per avvistare la
balena, la maledetta balena Luigi del malaugurio.
Fra
Giovanna e gli altri dei vari canzonieri politici e Matteo, Otello,
Maria, Caterina, Rosa, Tonino, il Duo di Piadena e gli altri folksinger
puri - molti di loro Tinin li ha visti ed ammirati sul palco del
Centrale, due anni prima, nello spettacolo di Fo -, è nata la sponda
d'autore e civile: se De Gregori è un figlio di Dylan e Antonello di
EItonJohn, Tinin lo è dei francesi tutti e di Tenco in particolare.
C'è insomma di che mettere le basi per una nuova buona canzone
italiana, confrontandola con quella già nata a Milano e Bologna , dei
vari Gaber, dei Guccini, degli Endrigo e degli amatissimi genovesi.
Tre
sacchi a sera a fine cantata e sono pizza e sigarette per tutta la
settimana. Sono nuovi amici, ragazze carine e disponibili, che si bevono
i racconti delle loro chitarre e del pianoforte, come estasiate. E
spesso li amano.
Serena
per esempio: una minuta, carinissima moretta sempre in prima fila
stravaccata di sghembo sulla poltrona rossa: Serena bella e impossibile.
Punta neanche troppo di nascosto Francesco, bello e più impossibile
ancora, che spesso ama appunto farsi puntare e basta e si accompagna a
una certa Nicole, una pittrice un po' eccentrica che gli fa da nave
scuola.
Ma
Serena piace molto anche a Tinin, che diamine. E allora, certamente
senza sentirsi per questo menomato nell' orgoglio, lui pressa sempre
maggiormente l'esulcerata fan degregoriana finchè essa, forse proprio
per ripicca verso il suo principe schizzinoso, accetta la sua corte e si
accontenta, per così dire, d'un altro lungagnone molto più
disponibile.
Sì,
davvero una pacchia. Poca gelosia, molta solidarietà e crescente
adesione politica. Giusto qualche scazzo isolato perché lui è un po'
più vecchio e più stalinista rispetto ai suoi pards un tantinello
indisciplinati e anarcoidi, indubbiamente poco soggetti alla disciplina
e alle gerarchie da sezione.
Un
pezzo per uno, ma molte volte anche in coro, oramai la fama dei giovani
poetastri s'è allargata e li vengono a sentire anche i Loi, i
Pontecorvo, i Grieco, le Mazzetti, le Ottolenghi, oltre a molti esperti
e giornalisti che cominciano ad esercitare le loro penne sulla
"Nuova Canzone" del Folkstudio.
E
a proposito di giornalisti, succede che Davide Grieco, il giovane figlio
di Bruno, debba andare una sera a sentirli per conto dell' Unità.
Succede anche che si senta poco bene e dia buca ai tre che ormai già
gustavano il frizzo del primo articolo importante. Ma niente paura:
Tinin, il mattino dopo, chiama Davide al telefono e gli
"passa" il pezzo, raccontandogli per filo e per segno canzoni,
pubblico, reazioni in sala.
Due
giorni, dopo sulla pagina romana, esce finalmente l'oggetto del
desiderio e Tinin corre al Folk per gioire insieme agli amici e per
ottenere merito ed encomio per un'operazione accorta.
De
Gregori è invece su tutte le furie; non lo saluta e quasi gli mette le
mani addosso: che diavolo è successo, ora? Che il povero amico critico
musicale, un po' rincoglionito per esser stato svegliato di mattino
presto, un po' ingarbugliato tra letto, taccuino e linea telefonica
disturbata, ha sbagliato a trascrivere un titolo - forse il più
importante per Francesco - e Signor aquilone è diventato... La signora
Piloni!
Sempre
più gente, insomma, comincia a conoscere, analizzandole, quelle ballate
che loro forse non avrebbero mai pensato un giorno di incidere. Hanno
l'onore di apparire in tivvù in un programma etnomusicologico di Berio
e della Ottolenghi che, accostandoli in una puntata nientemeno che a
Dylan, fa parlare lo studioso Alan Lomax della canzone popolare nel
mondo.
Fanno
poi un'altra conoscenza Rai e sono ospiti alla radio, di Giaccio e
Cascone, per una puntata dal vivo del programma "Per voi
giovani". Ecco le prime trasferte con i Folkstudio Singers, Mario
Schiano, Giovanna Marinuzzi, le due bionde sorelle di Lou Castel delle
quali una canta e l'altra fa l'attrice, Giovanni Crisostomo e tutti gli
altri protagonisti di quei giorni. Notevoli le esperienze a Foggia, a
Napoli e alla reggia di Caserta.
Per
Napoli partono in quattro con chitarre fra i denti, sotto le ascelle e
su per il naso, sul Maggiolone di Antonello.
Salgono
al Vomero per esibirsi al Teatro Instabile che ha come organizzatore
culturale l'amico Michelangelo Romano, futuro produttore di Sorrenti e
Vecchioni: e un posto molto "in", frequentato da turbe di
rivoluzionari da salotto con la erre moscia come quella che faceva Totò
nei suoi ruoli da nobile. Una serata al fulmicotone perché il
pianoforte per Antonello non c'è e lui, buono sì ma incazzato come
Hitler, deve accettare d'essere accompagnato dai tre pards con le loro
tre chitarrelle, standosene in piedi di fronte al pubblico e soffrendo
come Linus senza la coperta.
Accordi
sbagliati, polemiche, quasi lite e, sotto di loro, un pubblico che
rumoreggia maleducatamente.
"Ma
questi qua non cantano canzoni di lotta, queste sono le solite
canzonette bovghesi, pev di più piene di metafove e pavoloni... ma
cantateci Contessa, pev favove, fate i bvavi..."
Finisce
malissimo, tranne che per Tinin che, nonostante la rissa ideologica,
almeno viene rimorchiato per la notte dalla più animosa, matura e
piacente delle nobildonne compagne.
Ha
così la fortuna di conoscere dall'interno, per una notte eduardiana, un
mondo partenopeo che sino ad allora aveva visto solo al cinema: un mondo
fatto di odori di muffa, parati scollati, servitù complice, nonne
centenarie con la papalina, da scavalcare dormienti per andare al cesso
di notte, e cornetti caldi e latte nei bricchi d'argento massicci la
mattina "presto", alle undici!
com'è adesso
RENZO
ZENOBI
da
renzozenobi.it
Il
Folkstudio era un locale dove si faceva musica. La prima collocazione
era in via Garibaldi ed è là che venne anche Bob Dylan. Renzo lo
conobbe tramite Francesco De Gregori che invece lo frequentava
precedentemente, quando era già stato trasferito in via Sacchi. Era
composto da due ambienti principali: il primo era il bar al quale si
accedeva, dopo le scale, dalla biglietteria ed il secondo era la sala da
concerto dove si entrava dal bar attraverso una tenda. Questa sala aveva
un palco di legno alto 40/50 cm posto contro la parete di fondo e di
fronte, così come sul lato destro, vi erano file di sgabelli di legno
scomodissimi. Sul palco c'era una sedia alta tipo sgabello da bar di
legno rosso sulla quale ci si appollaiava e si cercava di tirare fuori
il meglio dei nostri accordi e delle nostre anime. Prima che si
cominciasse a suonare e durante l'intervallo si ascoltava in tutti gli
ambienti un disco jazz massacrato, sempre lo stesso. Dimenticavo: si
cantava senza amplificazione. Il Folkstudio era un' invenzione di
Giancarlo Cesaroni (oggi purtroppo non più tra noi), molto simpatico ma
anche molto temuto da Renzo per i suoi giudizi alla fine di ogni
esibizione. La sua compagna faceva i biglietti alla cassa (ciao,
Gabriella) e a volte si scendeva solo per fare quattro chiacchiere con
loro e bere qualcosa insieme. Era anche un punto di ritrovo, a volte ci
si passava dopo cena, si vedeva chi c'era, ci si scambiava qualche
novità e si andava via. Dal Folkstudio sono passati un pò tutti,
famosi e meno famosi, fra gli altri Venditti, De Gregori, Luigi Grechi,
Locasciulli, Lo Cascio, Stefano Rosso, Gianni Togni, Dodi Moscati,
Giovanna Marini e poi quelli che venivano da fuori Roma come Dalla,
Guccini e mille altri. Il sabato pomeriggio era open, cioè andavi da
Giancarlo, gli davi il nome e cognome e, se c'era spazio, ti diceva
"canti per quarto" e a quel punto avevi un pubblico pronto a
batterti le mani, oppure no.
E
sì, il Folkstudio era incredibile, ce ne siamo accorti ancora di più
quando, trasferito per sfratto in una traversa di via degli Annibaldi,
cominciò a declinare. Ma gli anni che Renzo ricorda sono stati
veramente formidabili e spera che queste poche righe abbiano dato l'idea
di ciò che abbiamo vissuto.
SERGIO
CAPUTO
dal
sito Solegemello
Il
Folk Studio era una cantina umida e puzzolente situata sotto un palazzo
nel cuore di Trastevere (Roma). Le pareti erano insonorizzate con sacchi
di iuta, c'era un piccolo bar con tre o quattro bottiglie, e la sala
vera e propria era uno stanzone, in un angolo del quale c'era una pedana
alta dieci centimetri, il palco. Da questa postazione precaria è
partita gran parte della canzone d'autore italiana che oggi ascoltiamo.
Sarebbe troppo lungo elencare i nomi, oggi illustri, che hanno iniziato
proprio in quella topaia a far sentire la propria voce, ma si dice che
perfino un non ancora famoso Robert Zimmerman (Bob Dylan), di passaggio
a Roma, vi fece un'apparizione cui assistettero una trentina di persone.
Il Folk Studio ha chiuso i battenti da molti anni.
Negli
anni settanta, al Folk Studio, c'erano tre personaggi emergenti che si
esibivano abbastanza regolarmente: Venditti, De Gregori e Bassignano. Di
questo terzetto giornalisti e pubblico di allora erano disposti a
giurare che sarebbe stato proprio Bassignano a "sfondare".
Sappiamo tutti, oggi, che le cose andarono diversamente. Perchè
Bassignano non sfondò? Azzarderò un'analisi rigorosamente personale:
Bassignano aveva un talento formidabile per farsi dei nemici. Bassignano
era (dovrei dire è perchè è vivo e vegeto, ma spero che gli anni lo
abbiano "ammorbidito") una delle persone più difficili con
cui si potesse avere a che fare.
Antidivo,
critico su tutto e su tutti al punto che perfino i suoi colleghi
temevano la sua lingua tagliente, aveva un fiuto infallibile
nell'identificare e denunciare il benchè minimo cedimento al
"frivolo"... Insomma, un autentico rompiscatole.
Inoltre
Ernesto aveva il vizietto di corteggiare (spesso con successo) le donne
di amici e nemici senza distinzioni ne' riguardo, e questa è la cosa
che più di tutte fece infuriare parecchia gente "importante".
Come
se non bastasse, invece di raccogliere il successo che sicuramente
riscuoteva e meritava, e frequentare salotti cultural-chic, nei quali
era peraltro richiestissimo per le sue doti di caustico intrattenitore,
saliva da solo sulla sua macchina scassata e andava a fare concerti sul
cocuzzolo di una montagna per i contadini, o nelle fabbriche più
remote, concerti dai quali il più delle volte tornava senza neanche il
"politicamente corretto" rimborso spese.
Oggi
Ernesto fa il giornalista free lance, per testate e anche per programmi
radiofonici.
DE
ANDRE’ – DE GREGORI
da
http://www.jamonline.it/album/albumitaliani.htm#deandre
Trastevere
come il Greenwich Village. Il Folkstudio come il Gerde’s Folk City.
Giancarlo Cesaroni, fondatore del Folkstudio, come Mike Porco, l’uomo
che gestiva il club newyorkese e che diede più di una chance al giovane
Bob Dylan. Francesco De Gregori come Bob Dylan, allora? Non proprio,
naturalmente, ma è certo che il giovane cantautore romano muove i primi
passi in un’atmosfera che ricorda quella in cui mosse i primi passi
Dylan. E quanto De Gregori abbia assorbito, musicalmente e
stilisticamente, dal cantautore americano è cosa nota ormai a tutti.
Certo
è che il Folkstudio, tra la fine degli anni Sessanta e i primi
Settanta, era un luogo unico, in Italia (in cui, peraltro, come narrano
le leggende, si sarebbe esibito, nel ‘62, un ancor sconosciuto Bob
Dylan, di passaggio in Italia sulle tracce della fidanzata). Un piccolo
e buio scantinato, dove si sarebbe allevata una generazione di
cantautori destinata a cambiare le regole della canzone d’autore
italiana nel corso degli anni Settanta, passati alla storia come
«quelli della scuola romana».
Fra
i tanti, furono due i nomi che avrebbero lasciato il segno più
profondo, quelli di Antonello Venditti e Francesco De Gregori. Che non a
caso avevano esordito con un disco «in comproprietà», quel Theorius
Campus uscito nel 1972. Dopo di questo disco le strade si erano divise:
Venditti con la sua visione personale, maggiormente tendente al pop, De
Gregori sempre più innamorato del songwriting di stampo nordamericano.
Prima
di Rimmel c’era stato l’acclamato Alice non lo sa (1973), che
conteneva l’omonima title-track di grande successo commerciale, grazie
anche a quel tema (allora) scabroso, quello di un matrimonio celebrato
all’insegna della verginità perduta e di una non chiara paternità.
Poi
c’era stato il bellissimo disco che portava solo il suo nome e
cognome, chiamato anche «il disco della pecora» per via del dipinto in
copertina: un disco spartano, essenzialmente acustico. Un disco che
conteneva una galleria di immagini desolate e allucinate, in perfetto
stile dylaniano (ma non quello del menestrello di protesta, piuttosto
quello del rocker anfetaminico e devastato di Blonde On Blonde) e anche
alcune delle canzoni più belle mai composte dal musicista romano.
Nello
stesso periodo De Gregori è però invitato da un personaggio
straordinario, Fabrizio De André, che gli chiede una mano per il suo
nuovo disco. L’avventura con De Gregori non sembra funzionare in modo
ottimale: il risultato è l’album Volume VIII, uno dei meno apprezzati
del cantautore genovese, in cui è però evidente in molti brani l’impronta
visionaria di De Gregori ma che soprattutto contiene una traduzione
italiana di Desolation Row, dal songbook dylaniano, che diventa Via
della povertà, un apprezzabilissimo lavoro di riadattamento interamente
curato da De Gregori («È stata la prima canzone di Dylan che mi ha
colpito, da ragazzino. Allora non c’erano ancora libri con le
traduzioni dei suoi testi e passavo ore e ore a cercare di capirne il
testo. In quel periodo avevo una necessità ’’biologica’’ di
impratichirmi con certe regole tecniche per scrivere una canzone, quindi
anche tradurre mi serviva»).
De
André sperava in un apporto maggiore per il suo disco, ma evidentemente
De Gregori stava ancora maturando le splendide composizioni che di lì a
poco sarebbero finite su Rimmel.
GIORGIO
LO CASCIO
Giorgio
Lo Cascio, prematuramente scomparso a soli 48 anni nel 2001, nei primi
anni '70 fu tra i promotori della cosiddetta scuola romana, che si
riconosceva nel Folkstudio di Trastevere. Giorgio Lo Cascio, Antonello
Venditti. Francesco De Gregori ed Ernesto Bassignano danno vita ad un
quartetto, I giovani del Folk. Erano legati, i quattro ("quattro
ragazzi con la chitarra ed un pianoforte sulle spalle" come canta
Venditti in "Notte prima degli esami") dallo stesso amore per
il folk, la canzone d’autore, la poesie e la politica. Giorgio
artisticamente era il figlio di Cohen, Francesco di Dylan, Antonello di
Elton ed Ernesto del povero Tenco. Le loro prime canzoni erano piene di
rabbia, vino, donne, funerali immaginari, aquiloni, soldati, treni e
sogni di libertà. Dopo le prime apparizioni al Folkstudio, Lo Cascio
insieme a De Gregori (di cui era fraterno amico) diede vita ad un duo,
Francesco e Giorgio, assimilabile per alcuni versi a quello di Simon
& Garfunkel. Lo Cascio è stato un'artista dotato di una
personalità autonoma. I suoi testi ci mostrano una vena intimista,
quieta, fatta di piccoli sentimenti che proprio dalla semplicità
traggono la loro profondità; il tutto espresso attraverso una musica
acustica, arpeggiata, che non disdegna però di arricchirsi tramite gli
apporti del moog, del flauto, del pianoforte, delle percussioni. Durante
gli anni '70 ha avuto una produzione da cantautore politico, meritevole
di essere riscoperta. Insieme a Venditti e De Gregori, firmò un
contratto discografico per la IT. Mentre Venditti e De Gregori
prepararono "Theorius Campus", il loro esordio discografico,
Lo Cascio incise "La mia donna", disco un po’ acerbo, molto
acustico, poco competitivo rispetto ai brani dei vari cantautori che
stavano venendo a galla e di scarsissimo successo. Lo Cascio riemerse
nel 1976, grazie all’etichetta Divergo. Il disco prodotto, "Il
poeta urbano", album politico molto bello, assai personale, faticò
però a farsi strada. Limitati furono anche i concerti tenuti da Lo
Cascio, che l’anno dopo incise (sempre con la Divergo) un nuovo album,
"Cento anni ancora". Anche questo disco non ebbe fortuna,
nonostante i brani fossero assai validi. Lo Cascio riuscì a incidere un
nuovo singolo, Cosa c'è che non va, sigla del programma tv "Tra
scuola e lavoro", poi sparì dalle scene. Molti anni dopo, vi è la
sua partecipazione ad un gruppo estemporaneo denominato U.A.F.F., messo
in piedi da vari cantautori allo scopo di fornire un supporto economico
al "Folkstudio" in difficoltà. Uscì poi un disco, "Il
vaso di Pandora", a nome di Stefano Iannucci e Giorgio Lo Cascio.
Lo Cascio è stato ospite del Premio Tenco nel 1975, 1978 e 1983. È
stato autore di "Diventare cantautori" (Lato side, 1981) e di
una biografia su De Gregori (Muzzio, 1990).
(www.solegemello.net)
Flash
1 - da “De Gregori” di Giorgio Lo Cascio – Muzzio Editore – 1990
(ritagli)
Il
suo stesso nome lo definisce: al di là del Tevere. Fisicamente separato
perciò dal cuore della vita antica, dal palazzi del potere, dai caffè
lussuosi e dalle misteriose chiese. Ma per me significava al di qua del
Tevere, perché la mia abitazione si trovava lungo l'antica via Aurelia.
Per
cinque anni vissi ai margini di questa moderna Suburra. Il mio liceo era
infatti come una rocca posata sul ciglio del Monte Verde, che assieme al
Gianicolo limita e contiene il ribollire della fantasia che in questo
quartiere scaturisce. Per cinque lunghi anni percorsi la via Aurelia
cintata di alte mura come se fosse un canale, approdando alla quiete dei
miei studi, sul ciglio dell'adolescenza.
Finché
una sera presi coraggio e, oltrepassando le mie colonne d'Ercole,
imboccai la via Garibaldí, che dal Fontanone scende come un serpente
verso la riva destra del fìume. Fu così che trovai una cantina lunga e
stretta, profumata di muffa. In fondo a quella cantina un palco di legno
verniciato di rosso con una seggiola di forma assolutamente particolare,
anch'essa verniciata di rosso. E su quella seggiola un ragazzo di
diciotto anni, con una chitarra Eko in mano, che cantava: "Era
mattina presto / bruciava la foresta / La scimmia scese a terra / e si
montò la testa / le si ingrossò il cervello / e cominciò a pensare /
Signore Iddio del cielo / che cosa mi fai fare?! ". Il Folkstudio
stava attraversando la sua seconda era.
Harold,
ligio ai principi dello show business noti solo a lui su tutto il
territorio della nostra amata Repubblica, conduceva le serate con un
susseguirsi vorticoso di artisti girovaghi di tutti i tipi, e molti di
essi erano destinati a fare parlare di sé in tutto il mondo. Venne Ravi
Shankar, Pete Seeger, Gato Barbieri, e persino un giovane taciturno e
scuro che inseguiva una fanciulla dell'alta borghesia fuggita dagli
States per non vederlo più (almeno così raccontano i suoi biografi) e
che forse non aveva ancora deciso di scegliere per sé il nome di Bob
Dylan.
Gli
spettacoli dovevano essere davvero interessanti e divertenti tanto che
attirarono anche gli strati "bene" della società romana, e
fecero così la loro comparsa le signore con la pelliccia e con i
gioielli, che disertavano i grandi teatri o i varietà al Sistina per
vivere qualche emozione bohèmienne insaporita dalla sangria, profumata
di muffa, resa piccante dalla silenziosa e ostile disapprovazione dei
loro accompagnatori.
Su
tutti gli artisti presenti in quel periodo giganteggiavano i Folkstudio
Singers, quattro americani neri e scatenati: Archie Savage, Billie Ward,
i fratelli Hawkins.
Quando Archie spalancava su di noi le sue grandi
mani nere le pareti della piccola cantina svanivano e ci trovavamo tutti
insieme immersi negli sconfinati campi di cotone del Sud, sulle rive del
Mississippi accarezzati dal tepore del tempo d'estate. Quando Archie
ritmava il tempo con il piede ci trovavamo d'improvviso tutti al galoppo
insieme allo sceriffo che inseguiva il povero Toni Dooley per
impiccarlo. Quando Billie Ward faceva vibrare le lunghe corde del suo
contrabbasso, vibravano in noi la gioia e il dolore di un intero popolo
che appassionatamente e disperatamente ama la vita.
Ma
anche gli altri artisti non erano certamente da meno: Albalu, Juan
Capra, Sebastiao e José Mariano cantavano la passionalità latina dei
loro Paesi del Sud America; Los Condores erano i primi in Italia a
evocare i suoni misteriosi delle più antiche civiltà andine; John Jim
and Tina con la loro musica creativa; Jimi Longhi con la prima vera
chitarra di plastica e la sua voce nasale folk. Un posto d'onore era
riservato al jazz. Non solo vaudeville e jazz caldo, ma anche il ben
più impegnativo free jazz. Volete alcuni nomi prestigiosi? Che ne dite
di Mario Schiano, Carlo Loffredo, Marcello Melis, Steve Lacy, Lee Konitz,
Don Moye, Gato Barbieri?
lo
ascoltavo rapito, ma ciò che mi entusiasmava di più era la scoperta
dell'esistenza di artisti italiani.
In
quel periodo io andavo matto per il folk americano: per Peter Paul and
Mary, Woody Guthrie, Bob Dylan e Joan Baez. Una sera vidi alla
televisione un programma sulla contestazione giovanile negli States. Vi
erano diverse canzoni di Joan Baez e a un certo momento fu inquadrato in
studio un ragazzo che eseguì un brano strumentale. Potete bene
immaginate quanto fui eccitato quando la sera successiva lo incontrai al
Folkstudio. Cantò alcuni classici quali Banks of the Ohio, eseguì
alcune splendide canzoni di Paul Simon, e cantò una tristissima canzone
in italiano, Buonanotte Nina, che mi piacque moltissimo. lo conobbi solo
il suo nome di battaglia, Ludwig, e cercai subito di fare la sua
conoscenza incontrando qualche difficoltà a causa della sua allora
schiacciante superiorità nella capacità di assimilare bevande
pesantemente alcooliche. Gli dissi che la canzone in italiano mi era
piaciuta moltissimo, e gli chiesi se l'avesse scritta lui. Mi rispose
che era stata scritta dal suo fratellino minore, e che avrei potuto
ascoltarlo presto al Folkstudio se lo avessi desiderato. E così feci.
Ecco dunque il giovane De Gregori, con la chitarra in braccio seduto
sulla seggiola folk!
Francesco
su questa seggiola assumeva una posizione un po' anomala, e ciò in
virtù della sua altezza lievemente superiore alla media, che il geniale
fabbricante della seggiola non poteva in alcun modo prevedere. Le sue
ginocchia erano pertanto un po' più alte del normale e l'insieme dava
l'impressione che egli fosse quasi appollaiato. Il secondo elemento di
maggior rilievo era la pettinatura di Francesco: portava i folti capelli
tagliati alla paggio.
Ben
altro discorso va fatto su ciò che quella longilinea figura produceva
sotto forma di musica e parole, cioè di canzoni. Tutti i suoi testi
erano estremamente graffianti. Già allora era nemico mortale della
banalità, delle ideologie, della tracotanza, dell'aridità. E ogni sua
canzone celebrava questo scontro titanico con le armi sempre
inossidabili dell’introspezione, della osservazione disincantata del
prossimo, della ragione e del sentimento. Sono quasi spaventato da
quanto ho appena scritto, ma sottoponendo questi miei ultimi concetti al
vaglio delle armi che ho appena descritto, non posso che scuotere la
testa e confermare la mia deposizione. Forse a Francesco mancavano
l'istintività del cacciatore, l'onestà contorta del maudit,
dell'artista maledetto, il grido a gola spiegata del conquistatore, la
caparbietà perseguitata del precursore. Ma tutto ciò, se eccelso in
altri, avrebbe veramente stonato in Francesco, sarebbe stato davvero
troppo, e Francesco andava molto più che bene così com'era. Prima che
io vi illustri i contenuti delle canzoni che cantava a quei tempi, è
necessario che questo mio spudorato panegirico attiri la vostra
attenzione su alcune importantissime caratteristiche tecniche del De
Gregori. Innanzitutto possedeva un formidabile bagaglio linguistico: un
vocabolario ricchissimo che gli consentiva di scrivere addirittura in
rima con la massima disinvoltura, cosa estremamente difficile.
La
prima canzone, di cui vi ho già parlato, si chiamava Buonanotte Nina ed
era la lettera di addio di uno straccione che saluta la bella e ricca
innamorata testimoniando la propria inadeguatezza per un futuro bello e
ricco che comunque le augura al fìanco di un altro.
Fino
ad allora le più belle canzoni d'oltralpe venivano italianizzate in due
modi solamente: come facevano i complessini degli anni '60, e cioè
cambiando completamente il testo e inserendo insulse storie d'amore al
posto degli argomenti spesso ben più impegnativi affrontati dagli
autori originali, oppure cercando di rispettare l'originale
stiracchiando, comprimendo o mutilando la nostra sacra lingua nel
tentativo di ottenere una pallida traduzione letterale, così come
migliaia di anni fa era solito fare il buon Procuste con gli sventurati
ospiti della sua locanda. Ma Francesco, novello Teseo, spazzò via tutta
questa gentaglia affrontando traduzioni molto impegnative di Bob Dylan e
di altri autori folk.
Il
segreto delle sue traduzioni consisteva non soltanto nella ricchezza e
nella padronanza del linguaggio, che gli consentiva di reperire i
vocaboli più adatti, ma anche nel fatto di essere in grado di inserire
immagini differenti, qualora l'originale fosse intraducibile, ottenendo
un risultato sicuramente accettabile e mantenendo rigorosamente
inalterato lo spirito, l'atmosfera, e il significato del testo
originale.
Leonard
Cohen. La sua scoperta fu un merito interamente attribuibile a Ludwig,
il quale tornò da uno dei suoi viaggi scellerati portando con sé un
paio di dischi del cantautore canadese.
I
suoi personaggi discreti affollavano la nostra fantasia molto più di
quanto non potessero fare i personaggi delle canzoni di Dylan: Suzanne
con la sua quieta e misteriosa consapevolezza e le sue altrettanto
misteriose offerte erotiche; Marianne amata e perduta insieme a se
stessa; Giovanna d'Arco, accarezzata una volta sola dal suo amante di
fuoco; Isacco, che all'ombra del pugnale del padre perdette in un colpo
solo ogni illusione sulla giovinezza, su Dio, sull'umanità. E tanti
altri ancora. Francesco si accostò a questo materiale con la flemma di
un luccio che si getta sull'esca, e produsse una serie di traduzioni
veramente magnifiche.
Chi
ascoltava queste canzoni al Folkstudio non immaginava che fossero state
scritte da un canadese, credeva che fossero di Francesco, e riteneva di
essere di fronte a un genio. Pensate! Erano davvero di fronte a un genio
ma non sapevano di non sapere il perché!
A
questo punto fanno il proprio ingresso nella nostra storia due
personaggi che meritano qualche parola in più: il primo di essi si
presentò una sera con un montgomery chiaro di pecora, con un paio di
jeans ed enormi scarpe di para. Aveva tra le mani un pezzo di carta sul
quale aveva appena scritto il testo di una canzone. Fu invitato ad
accomodarsi al pianoforte, e dopo pochi minuti eravamo tutti immobili
con la mascella spalancata in modo poco dignitoso. Un applauso per
l'ingresso di Antonello Venditti, prego! Il secondo entrò nel
Folkstudio di soppiatto, come una mandria di bisonti assetati, ed ebbe
premura di chiarificarci immediatamente la qualità del suo impegno
politico nelle fila del PCI e lo spessore delle sue composizioni cariche
di denunce sociali.
Come
potete intuire il destino stava già mescolando le sue carte e
preparando un poker dalle caratteristiche uniche: la sapienza di
Francesco, le mie lagne, la voce di Antonello, l'esuberanza di Emesto
Bassignano.
Un
bel giorno Cesaroni ricevette l'incarico di organizzare uno spettacolo
"all stars of Folkstudio" per il Circolo Daunia di Foggia, un
ritrovo estremamente esclusivo e lussuoso. Venne pertanto noleggiato un
pullman intero che fu stipato con tutti gli artisti presenti al momento:
Archie Savage, Mario Schiano, i Blue Moming (Maurizio Giammarco, Roberto
Ciotti e Alfredo Minotti), l'ottimo esecutore di fiamenco Giovanni
Crisostomo, la giovanissima Giovanna Marinuzzi, presentata come Joanna
Perez, Susan Castel, sorella di Lou Castel e impegnata nella battaglia
per la diffusione dell'esperanto, e infine i nostri eroi: Francesco De
Gregori, Antonello Venditti, Emesto Bassignano e io.
Trascinati
dall'irruenza di Archie tutti noi riuscimmo a esprimere il meglio di noi
stessi. Assestammo un colpo mortale alle riserve di vino pregiato del
Circolo, e durante tutta la notte per i corridoi dell'albergo
echeggiarono scalpiccii veloci e risate.
Forse
il buon Cesaroni rimase favorevolmente impressionato dalla nostra
performance in quell'occasione. Comunque sia, decise che i suoi
passerotti avevano messo le ali e che era giunto il tempo di spingerli
fuori dal nido.
Pertanto
decise di costituire un gruppo di giovani promesse, di assegnare loro il
nome di “I Giovani del Folk”, forse evocando le glorie passate dei
Folkstudio Singers, e di gettarli sulla piazza.
Non
che noi avessimo le idee molto chiare su cosa volesse dire "montare
uno spettacolo": avevamo cantato spesso insieme eseguendo un brano
o due a turno, cosi come l'ispirazione del momento ci suggeriva di fare.
Evidentemente consapevole delle nostre perplessità, Giancarlo ci
propose di chiedere una mano al grande Archie Savage, e la cosa ci
sembrò un'ottima idea. Archie naturalmente accettò immediatamente. Ci
raggiunse un pomeriggio, arrivando puntualissimo come tutti gli
americani, accompagnato da un giovane che a me sembrava un po’
effeminato. Si mise subito al lavoro, e ci spiegò che la prima cosa da
fare era quella di stabilire la posizione che avremmo dovuto assumere
sul palco. Disse infatti che dovevamo noi stessi costituire una specie
di scenografia, visto che le nostre persone e i nostri strumenti erano
gli unici elementi scenografìci a disposizione. Dato che Antonello
doveva suonare il pianoforte, la sua posizione era automaticamente
decisa; accanto ad Antonello anch'io avrei preso posto su una sedia;
Francesco avrebbe utilizzato la seggiola folk, delle cui caratteristiche
ho già ampiamente parlato, e il Bassignano avrebbe svettato in piedi,
creando così un insieme mosso e dinamico. Stabilito questo primo punto,
ci disse che era estremamente importante il primo impatto con il
pubblico: dovevamo individuare una specie di sigla di apertura, e
utilizzare qualche trucchetto per stupire e interessare il pubblico.
Dopo
aver esaminato assieme il problema decidemmo di assumere come sigla una
versione di Tapum, vecchia e gloriosa canzone alpina, rivista e
vivificata da Venditti. Antonello sarebbe salito per primo sul palco,
con il suo inseparabile montgomery tipo pecora, e dopo aver
distrattamente sfiorato un tasto del pianoforte per centrare
l'intonazione giusta, con lentezza, in modo da indurre il pubblico a
chiedersi cosa mai stesse macchinando, avrebbe raggiunto il centro del
palco e avrebbe iniziato a cantare da solo la prima strofa senza
accompagnamento musicale, confidando nella sua voce forte e limpida. A
ogni strofa uno di noi si sarebbe aggiunto al coro, con voce e chitarra,
sbucando inaspettato da un punto diverso del piccolo locale, fino
all'apoteosi finale nella quale tutti insieme avremmo entusiasmato il
pubblico cantando a squarciagola.
Venne
la sera del primo concerto: tutti i giornali annunciavano nel tamburino
dedicato a Folkstudio i Giovani del Folk, e il pensiero di essere
comparsi per la prima volta sul giornale mi eccitava immensamente. Il
pubblico era quello delle grandi sere: superiore alle venti unità. E
parve gradire le nostre canzoni, accettare con piacere le personalità
molto diverse, dei quattro artisti (pensate: artisti!) e apprezzare
trucchi scenici inventati da Archie. Non ricordo assolutamente i
discorsi fatti più tardi nella pizzeria da Ivo a Trastevere, e ciò a
causa del comprensibile stato di ubriachezza nel quale dovevo trovarmi,
ma sono certo che furono molto, molto allegri.
Il
nostro spettacolo infatti era costruito con l'avvicendarsi di noi
quattro, ognuno dei quali suonava da solo le proprie cose. Ben più
impegnativa e affascinante appariva la possibilità di eseguire in due i
nostri brani: doppie voci, due chitarre. I più smaliziati di voi
penseranno immediatamente con un sorrisetto: Simon & Garfunkel,
vero? Ebbene, questi sciocchi individui sono esattamente nel giusto: è
proprio ciò a cui pensavamo. Si trattava di due dei nostri idoli, e
ridevamo constatando che Paul Simon scriveva le canzoni, cantava,
suonava la chitarra, e ci chiedevamo cosa ci stesse a fare Garfunkel.
Poi un giorno ci capitò di sentir cantare Garfunkel da solo, e
finalmente capimmo.
In
particolare era per noi fonte di grande soddisfazione l'arrangiamento di
Via della Povertà, cioè Desolation row di Dylan, nel quale io, grazie
ai miei anni di studi classici, riuscivo a riprodurre i contrappunti
geniali di chitarra folk trascritti durante notti insonni passate
accanto al giradischi. Con Cohen, poi, riuscivamo a esprimere il
massimo, perché con la sua struttura melodica molto lineare il canto
per terze risultava molto riuscito. Un giomo accadde che, mentre stavamo
ridendo, scolando bottiglie, provando canzoni, Francesco mi mostrò un
testo che aveva scritto senza mai trovare una musica adatta. Si trattava
de La casa del pazzo, e mi piacque moltissimo.
Scegliemmo
per noi il nome di "Francesco e Giorgio" dato che l'uso dei
cognomi risultava decisamente più improponibile: "De Gregori e Lo
Cascio", sempre in rigoroso ordine alfabetico, e non certo di
importanza. Solo una volta mi capitò di vedere pubblicizzato un
programma con un titolo più esilarante di quello che avevamo
saggiamente deciso di non adottare: fu quando in un paese della Sicilia
mi trovai a suonare con altri due ottimi amici, e la cosa forzatamente
venne così annunciata: «Stasera grande concerto con Lo Cascio,
Locasciulli e Scascitelli». Anche allo speaker dei megafoni sarebbe
scappato da ridere se non si fosse trattato di un comunista
assolutamente ortodosso e quindi privo di qualsiasi senso dell'umorismo.
Flash
2 - da un’intervista rilasciata a Nicholas Albanese
Nel
1960, a Roma a Trastevere, è nato un locale che si chiamava Folkstudio,
dove un piccolo gruppo di amici si ritrovava per suonare e per cantare.
Era lì che quel gruppetto di italiani e stranieri coltivava la propria
passione per la musica di generi nuovi e poco conosciuti a quei tempi:
rock, blues, soul, jazz, country e canzoni folk. L'americano Harold
Bradley fu uno dei fondatori del Folkstudio; dirigeva le serate di
musica per un pubblico sempre crescente ed entusiastico. Musicisti di
tutto il mondo venivano per dare il loro contribuito: Pete Seeger, Ravi
Shankar, Gato Barbieri e persino un giovane americano, Robert Allen
Zimmerman, che sarà conosciuto più tardi come Bob Dylan. Da un punto
di vista musicale, gli anni Sessanta, anche grazie a questo ambiente,
sono stati un momento particolarmente fertile.
Harold
Bradley, successivamente, ha lasciato lo studio, e la gestione è stata
affidata a Giancarlo Cesaroni (morto nel gennaio del 1998), un altro dei
pionieri del Folkstudio. Gli artisti continuavano a venire: dagli
americani neri che cantavano gli spirituals, ai musicisti sudamericani,
come Juan Capra, Sebastiao e José Mariano. Cesaroni non soltanto
credeva nella musica come genere di intrattenimento e come forma d'arte,
ma anche come forma d'espressione sociale. Reclutava musicisti che
avevano qualcosa importante da dire, molti dei quali erano giovani
italiani che componevano canzoni politiche, sociali e di protesta
mondiale della canzone negli anni Sessanta. Noteremo infatti che essa
era caratterizzata dalla fiorente musica folk americana. La canzone
americana aveva assunto un ruolo diverso nella società rispetto al
passato: era diventata l'espressione di comportamenti incentrati sulla
protesta sociale. Era quello un periodo di forte tensione sociale, sia
in America che nel mondo, aggravatasi dopo l'assassino di figure
carismatiche e "rivoluzionarie" come John F. Kennedy nel 1963,
Martin Luther King, Jr. e Robert F. Kennedy nel 1968, e con il crescente
coinvolgimento americano nel conflitto del Vietnam. La lotta per i
diritti civili in America ha raggiunto il culmine in seguito ad alcuni
episodi di violenza, trasmessi per televisione, la quale aveva ormai
acquistato un posto d'onore in ogni famiglia americana. Una delle voci
di protesta più potenti ed efficaci, per i giovani, era rappresentata
dalla musica, che in quegli anni si era trasformato da semplice svago a
importante arma di espressione culturale e sociale. Come afferma Radtke:
“La contestazione giovanile è strettamente legata all'espressione
musicale che funge da elemento di solidarietà”. Artisti folk come Bob
Dylan, Peter, Paul and Mary, Woody Guthrie e Joan Baez sono venuti alla
ribalta con loro canzoni, che rispecchiavano l'irrequietudine e
l'agitazione di cui era pervasa la società in quel decennio.
“Antonello
fece la sua comparsa un pomeriggio con un montgomery tipo pecora che lo
ha accompagnato per molti anni. Aveva in mano un pezzaccio di carta con
il testo di una canzone(….): era “Sora Rosa”, e a noi piacque
molto. Antonello suonava il piano in un modo che non avevo mai sentito e
aveva una voce veramente eccezionale.
Ci
fu tutto il tempo di imparare i suoi testi, perché aveva solo tre
canzoni, più “Roma Capoccia”, di cui però si vergognava non
ritenendola abbastanza impegnata e che quindi non cantava, e per molto
tempo suonò soltanto quelle…”,
Adesso
questi locali non esistono più. Il Folkstudio, con la morte di Cesaroni,
che è stata pochi mesi fa, è chiuso. E' quello è l'ultimo locale
rimasto. Tutti i locali oggi danno da mangiare, fanno musica di
trattenimento. Puoi anche andare a fare la musica impegnata, ma la farai
sempre mentre la gente mangia, chiacchiera e beve la birra. Non è più
come quando nei locali invece si andava là e si sentiva la musica.
Questo non c'è più. Quindi ci sono oggi delle difficoltà maggiori da
tutti i punti di vista. Insomma, è stato un periodo, è un ciclo
adesso, sta ritornando... condizioni difficili. L'artista dovrà
faticare molto per riemergere mentre indubbiamente nel Settanta ci sono
stati gli artisti che sono stati facilitati. Io stesso ho avuto
facilità a fare delle cose che oggi non mi farebbe fare nessuno. E
tantissimi altri.
Il
Folkstudio è nato perché è arrivato Harold Bradley, e quindi lui ha
cominciato ad animare. C'era questo giro di studenti americani che si
davano da fare, avevano voglia di divertirsi, di fare cose interessanti
e importanti. Intorno a lui si è creato questo gruppo di amici, e
quindi hanno cominciato a fare questa musica. Poi ci sono degli italiani
che l'hanno portata avanti - Cesaroni, i suoi amici - che l'hanno fatta
vivere.
CLAUDIO
LOLLI
dal
sito “Brigata Lolli”
“Folkstudio”,
dall’album “Dalla parte del torto” (2000), dedicata a Giancarlo
Cesaroni.
E
poi del resto la gente nei bar vuole battere i piedi,
e
scaldarsi di fiati e risate... col freddo che c'è
e
la musica è carta da zucchero in mani bruciate
a
scandirsi un bel tempo di vita che vita non è.
Ed
è chiaro che i giorni che passano, lasciano il segno
nelle
tasche nei pugni nei sogni, negli occhi che ho.
poi
m'incanto, mi fermo e magari m'invento un disegno
carta
verde, lontana, gonfiata da un vento del sud
E'
lontano quel fiato di mare e sei lontano anche tu e
non è proprio questione d'amore, è qualcosa di più.
E'
qualcosa che rompe le tasche senza fare din din
una
musica sciocca che esce da un bel telefilm
respirare
nel cielo del mondo e non poterlo toccare
l'allegria
è un pallone rotondo che non sa dove andare
E
del resto la gente alla fine vuole muovere i piedi
e
scalare montagne davvero più alte di te
che
rimani col fiato di vino a soffiare vetrate
la
tua musica un soldo di zucchero che aspetta un caffé
C'è
di nuovo la luna nel cielo, forse è la TV
non
è proprio questione d'amore, è qualcosa di più.
PINOMARINO
da
pinomarino.it
Con
il vespone e un'imbracatura di cinte sulla schiena per la chitarra,
Pinomarino andrà a suonare dall'88 al Folkstudio di Giancarlo Cesaroni,
prima in via Sacchi e poi in via Frangipane, l'ultima sede.
Anche
se sulla coda della sua attività e sulle forze residue di Giancarlo
Cesaroni, per gli autori di canzoni il Folkstudio rappresenta ancora nei
primi anni novanta, l'ineguagliabile e benedetta possibilità di
suonare.
Il
palchetto di tavole rosse, il seggiolone rosso, il pianoforte verticale
preso in affitto e riconsegnato a fine stagione distrutto dall'umidità,
le preghiere rivolte all'ignoto pubblico pagante affinchè giungesse in
numero sufficiente per il comincio delle serate, il bancone alcolici e
analcolici volutamente deserto e utile esclusivamente al sostegno dei
gomiti durante le discussioni al bar e le partite a scopetta, quindi
l'impossibilità di mangiare e bere se non di sottobanco dalla bottiglia
personale di whisky del Cesaroni… di questo e di altro, ora che
l'integralista assenza, così come integralista fu la presenza del Boss
e del suo Folkstudio, ha lasciato una possibile traccia solo nelle
persone, si può dire che chi ne ha goduto ha il privilegio di onorare
oggi il privilegio avuto, continuando, con quello spirito, sempre.
STEFANO
ROSSO
dal
sito http://digilander.libero.it/gianni61dgl/stefanorosso.htm
Un
"personaggio" atipico nel panorama della canzone d'autore
italiano. Cantautore? Strumentista? Difficile definirlo. Canta con la
erre moscia canzoni ironiche ma anche autobiografiche. Nelle sue canzoni
si parla della nostra Italia ma anche di America, di rapporti con le
donne ma anche di se stessi, a volte con amenità, sempre con
l’arguzia da trasteverino puro. Stefano Rosso suona inoltre la
chitarra da consumato strumentista, in perfetto stile finger-picking.
Negli ultimi tempi, è riuscito raramente a registrare dischi e la sua
popolarità si è un pò ridotta, ma il pubblico che lo apprezza gli è
da sempre fedele. Nella seconda metà degli anni Settanta ha avuto un
momento di considerevole popolarità con Una storia disonesta, forse la
prima canzone italiana in cui fa capolino lo spinello, che era un po’
il ritratto divertito del fricchettone post-sessantottino. Nato a Roma,
vive a Trastevere, in via della Scala, che ha immortalato nella canzone
autobiografica Letto 26. Il cognome, Rosso, è fittizio, il suo è il
più comune d’Italia (Rossi), ma il suo modo di comporre è assai
originale, ciò gli viene dal linguaggio e dalla prospettiva sbilenca,
furtiva in cui si pone per osservare e vivere il quotidiano. Con una
voce tranquilla e colloquiale, la erre moscia, l’intonazione da
vecchio amico, romanesca e ciondolante al punto giusto, Stefano Rosso ha
collezionato diversi album, forse con un pò di discontinuità, trovando
però spunti saporiti sparsi con poca cura. La filosofia di vita, l’afflato
esistenziale resta fuori dallo studio di registrazione, compare invece
nelle sue canzoni una simpatia naturale, giocata sul realismo rapido, il
lazzo è sempre pronto e la battuta a raffica. Predilige melodie
semplici e strumenti che abbozzano invece di tagliare l’ambiente.
Eppure si sorride ascoltando i suoi dischi, non solo masticando l’ironia
spessa, ma cogliendo pure le parodie indecise tra il graffio velenoso e
la dissacrazione in punta di piedi. Dopo Una storia disonesta e ... E
allora senti cosa fo, che ottengono una buona affermazione commerciale,
nel ‘79 incide Bioradiografie, l’ultimo album per la RCA, , che
scatena la sua ira e il malcontento, perchè è praticamente boicottato
dalla casa discografica. Nel 1980, partecipa al Festival di Sanremo con
il brano L'italiano, contenuto nel disco Io e il signor Rosso,
pubblicato da una nuova casa discografica, la Ciao record. Negli anni
'80 incide cinque dischi, poco conosciuti, anche perchè mal
distribuiti. Nel 1997, la sua nuova uscita discografica, Miracolo
italiano, un'antologia contenente tre nuovi brani. Incide poi per la DV
More Il meglio, che contiene i suoi maggiori successi, re-interpretati e
alcuni nuovi brani. Contiene anche Preghiera, fino ad allora incisa
soltanto da Mia Martini nel disco Che vuoi che sia... se t'ho aspettato
tanto, del 1976.
FRANCESCO
GUCCINI
Da
maggiesfarm.it - Oh tu, vecchio Bob Dylan - di Francesco Guccini
Dice:
"Non faresti un pezzetto su Dylan ? Potrebbe essere interessante e
tutto il resto" dice "sai, uno che fa canzoni, che scrive su
un altro che fa canzoni, uno che poi ha avuto tanto peso eccetera
eccetera..." E io dico: "Perchè no?" e l'idea mi sembra
buona, e anche in un certo senso divertente.
Si
era più o meno in settembre, e a me piacciono i progetti a lunga
scadenza, voglio dire che certe cose come idee lì per lì mi piacciono,
ma spesso restano tali, nel senso che l'idea è buona ma poi mettiti lì
alla macchina da scrivere a tirar fuori le cose da dire.
E
poi non sono un critico; i dischi me li ascolto così, li metto su poi
mi piacciono o no, parlo soprattutto dei testi, li ascolto e certi testi
mi lasciano steso, e mi piacerebbe averle scritte io, quelle parole.
Così ti rimangono dentro, te le rimescoli senza accorgerti di niente
poi, anche dopo un anno magari, tiri fuori la tua, di canzone, non
copiata, intendiamoci, ma c'è sempre qualcosa da imparare, e in questo
senso Dylan per me è stato importante.
Ma
una critica, o qualcosa di simile?! Sai, in giro c'è quella gente
(bravi, voglio dire) che sanno anche di che colore era la camicia che
portava nel concerto quello là di quell'anno, che corde montava sulla
chitarra, perchè ha smesso di usare quelle, e giù giù fino a tutta la
formazione del complesso in ordine alfabetico: Abbati, Abbondi, Accursi,
Barigazzi, Bufalini...
Poi
allora dischi da ascoltare non ne avevo; era già molto se riuscivo a
mettere assieme le duecento per le Nazionali senza filtro, mica storie;
il giradischi sì, un mono bestiale con una puntina da 350 kg. e non è
che gli amici me li prestassero volentieri.
Così
dico: "II pezzo lo faccio, ma in un altro senso, cioè diciamo
cos'è stato Dylan, e lasciatemi sbrodolare addosso un po' di ricordi,
che in quel senso a volte mi viene anche bene, e diciamo cos'è stato
Dylan, ma soprattutto chi era che lo impersonava e cosa accadeva in
quegli anni, a cominciare circa dal 1964".
E
Bob Dylan, per me, era quel tale Joe Novitsky, che si faceva chiamare
"Gringo" perche aveva fatto il corrispondente del N. Y .Times
in Sud-America, dove credo sia ora a fare la stessa cosa; e pare che là
lo chiamassero così.
"Gringo"
girava con un paio di stivali da cow-boy estate e inverno; ma d'inverno
ci metteva sopra anche giubboni di pelle e strani copricapi (ora non so
se DAVVERO portasse strani copricapi, ma ne era il tipo, voglio dire );
girava spesso con una custodia nera e dentro c'era una Gibson, la prima
che abbia mai visto, e la cosa, dico, la chitarra, era già un bel
colpo, se la si paragonava alla mia, allora neanche Masetti, una Carmelo
Catania tutta tenuta assieme dallo scotch nero perche avevo avuto la
pessima idea di caderci sopra rientrando una sera.
Joe
studiava allora alla Johns-Hopkins, e ci si incontrava al giovedì sera
in un posto che si chiamava la "Grondaia"; lui suonava roba
americana, io le mie canzoni d'allora, come Il 3 dicembre del '39, L'
antisociale eccetera. E lo avrei ascoltato delle ore, per quel suo
arpeggio maledetto che guardavo guardavo e non riuscivo a imparare. Gli
avevo detto: "Insegnamelo" e lui me lo aveva anche insegnato,
ma così, in fretta, è ovvio non ero riuscito a imparare niente.
"Ma
che arpeggio è?" "Boh" diceva "è il travi's pick,
o chiamalo come vuoi". "E questa canzone di chi è?".
"Di Woody Guthrie". "E chi è Guthrie?". "Un
vecchio folksinger, un hobo; è bravo, ora ai giovani piace Dylan, ma
Dylan canta come lui, ha preso tutto da lui...", "Dylan, e chi
è Dylan?", ma poi non mi interessava molto, chi era Dylan, mi
interessava più quell'arpeggio, pollice, pollice, medio, pollice,
medio, indice, pollice...
Poi
Bob Dylan è, per me, quell'autostoppista americano di cui non ricordo
il nome, solo che veniva da Palo Alto, California. Solo il nome, per me
allora, una specie di mito, in cui entravano Steinbeck, la California e
tutto il resto; i figli dei fiori, allora, di là da venire, almeno da
noi.
Fu
nello stesso anno, l'anno di Joe, più o meno il 1964 credo, ma la
memoria dei vecchi spesso s'incasina. Palo Alto era sulla tangenziale,
che faceva l'autostop, e Ludi mi era venuto a prendere quella domenica
mattina verso le 11 perchè aveva scoperto quell'osteria deliziosa,
dice, dove c'era, (appena fuori Bologna, due passi, ho la macchina qui
giù), "un salame e un'albana che non te li devi proprio
perdere".
Ma
dico, hai presente l'ora, ma lui che era fatto così dice dài dài e
andiamo e sulla tangenziale carichiamo questo tizio e ce lo portiamo
dietro, (lui che voleva andare a Firenze), a mangiare salame e a bere
albana. E Ludi poi se lo porta anche a casa sua a mangiare, e ci
incontriamo nel pomeriggio, in giardino da Ludi, che aveva quel
registratore con tutte le canzoni che ci piacevano allora, e c'era Brel,
c'era Brassens, c'era Amodei, e qualcuna delle mie d'allora, tipo Le
belle domeniche.
Palo
Alto per ascoltare ascoltava, anche le nostre traduzioni, ma credo che
non capisse bene queste cose, o che non gli importassero molto, perchè
poi gli americani sono così, se le cose non le hanno fatte loro, o non
è arte del rinascimento, non è che gli interessino particolarmente.
Folklore pataccaro, monumenti, e via andare, i ragazzi. E fa:
"Conoscete Dylan ?" "Certo" dico "Dylan Thomas".
E lui fa "No, no, Bob Dylan! Oh me, he's great!".
Bob
Dylan è, per me, quel ragazzino americano, amico di mio fratello ma un
poco più vecchio di lui, a Bologna con quella sua strana madre e un
numero incredibile di fratelli più piccoli (come solo riescono ad
averne gli americani) e questa sua strana madre a Bologna per un anno a
scrivere un libro di cucina, o di viaggi, o qualcosa del genere. Venne
un giorno a casa mia con dei dischi finalmente DISCHI, di Dylan e
Guthrie. E soprattutto c'era quel meraviglioso Freewheelin", con
Don 't think twice, e Blowin' in the wind e Hard rain's, e i Talkin'blues
di Dylan e di Guthrie, e io là ad ascoltarli per pomeriggi e a cercare
di capire le parole, con gli amici di allora, poi a cercare di
ripeterle, e a tradurle, e a buttare quei giri nuovi d'accordi sulla
chitarra e in poco meno di tre mesi vennero fuori Auschwitz e Noi non ci
saremo e È dall'amore che nasce l'uomo. L'idea di Noi non ci saremo poi
stranamente uscita da una mia strana interpretazione di Mr. Tambourine
man.
Bob
Dylan è per me il primo folk-studio bolognese , le nostre idee di
allora, le nostre discussioni di politica e di musica, e il viaggio ad
Amsterdam, coi primi soldi delle prime canzoni uscite. Ad Amsterdam era
tempo di provos e io e Claudio con le nostre chitarre a cercarli, lungo
i canali e negli scantinati; i provinciali che non capivano bene la
situazione, un po' sospettosi, un po' curiosi, noi ancora coi capelli
corti, arrivati là quando il movimento stava già morendo.
E
quella marcia per il Vietnam, in centro ad Amsterdam, e io che cantavo
Masters or war e stranamente l'uomo della TV olandese venne a
intervistare proprio me, forse si vedeva che ero straniero, e disse,
perchè questo, perchè queste canzoni, e io a spiegare perchè e
cos'erano quelle canzoni, e cosa rappresentavano.
Ci
si credeva, voglio dire: "I tempi cambiano, i tempi stanno
cambiando" e in un certo senso era anche vero.
Anche
il nonno di quella ragazza, Nike, se ne stette tutta una mattina ad
ascoltare quelle canzoni, le mie e quelle di Dylan, con attenta
pazienza, perchè la nipote gli aveva detto "Ascoltale, sono nuove,
sono importanti" e lui, il vecchio famoso architetto, in quella
buffa casa piena di strani oggetti e disegni e sculture e foto, si
emozionò, si esaltò, forse un po' gigionesco, dicendo cose tipo io
credo ai giovani, mi piacciono, sorgono sempre, stanno ribellandosi,
stanno arrivando, portando nuove forze, come i popoli del terzo mondo.
Non tutto vero, forse retorico, ma allora era bello, come, nella
confusione di allora, cantare Dylan, di sera, dentro le facoltà
occupate, quelle prime volte.
Bob
Dylan è, per me, il '68-'69, l'arrivo a Bologna di Debby (nota di
Napoleon: Deborah Kooperman, musicista americana amica di Guccini. Ha
suonato in molti suoi pezzi) e di quel gruppo d'americani miei allievi
coi quali si era sempre assieme.
Forse
gli ultimi anni interessanti di questi ultimi anni. E vuol dire Gandolfi,
l'osteria fuori porta d'Azeglio, prima che diventasse un posto
importante, di moda; solo noi e i vecchi, prima, poi tutta la gente che
ci seguiva il giovedì sera, e poi anche le altre sere.
C'era
anche Alex, greco, e tutti i suoi amici, Janis che ballava, e il vecchio
Bergamini con la fisarmonica, a cantare mezzo francese e mezzo italiano,
lui che aveva portato dalle "mine" quello strumento e la
silicosi. E infatti due anni dopo, quando il Moretto che aveva preso il
locale me lo fece rivedere, ed erano due anni che non ci entravo, di
proposito, e anche allora non sapevo che sarebbe diventato un posto
importante, vidi su un mobile, fra la polvere e la confusione lasciata
dagli imbianchini la fisarmonica di Bergamini.
E
il Moretto mi fa "Sai, l'ha lasciata qui, poi è morto, e nessuno
l'è venuta a riprendere" e fu un colpo davvero, e scrissi quella
canzone Le osterie di fuori porta anche per lui, per Bergamini, e non
solo per quello che noi eravamo allora.
Che
a raccontarlo così fa un po' cineromanzo, ma a farle, le cose, è
differente.
E
c'era Lynn, la strana Lynn che cantava assieme a me Mr. Tambourine man,
ubriaca di vino da 250 lire la bottiglia, allora, e crollava sotto ai
tavoli ridendo e piangendo; e c'era Frascari, un vecchio contadino che
ci portava a casa sua alle tre di notte, quando Gandolfi chiudeva, e
tirava fuori vino e salame e pane e ciccioli, e faceva friggere la
salsiccia alla moglie che si alzava e ci guardava sbalordita, e noi
ancora a cantare, sotto gli occhi stupiti delle figlie che dovevano
andare a lavorare.
Chissà
se a Dylan fischiavano le orecchie, in quei momenti? Certo, la
situazione, non se la poteva immaginare, noi là, americani greci e
italiani, sulle colline di Bologna, a urlare it ain't no use to sit and
wonder why, baby fin quando Frascari andava a mungere e noi voltavamo le
macchine verso Bologna.
Ma
già tutto sapeva di qualcosa che stava per finire, o che doveva finire,
anche se forse non ce ne accorgevamo; eravamo felici, andava bene, e non
guardi mai molto avanti, in quei momenti.
Ma
non ritrovai Dylan l'anno dopo, in America, e non c'erano le cose che
avevo pensato di vedere e di trovare.
Già
Dylan, per dire solo lui, era come invecchiato, e non lo si cantava
più. Farlo, sembrava di ripetere qualcosa di già conosciuto.
C'erano
altri nomi; lui, chissà dov'era, era già passato; di presente c'era la
malinconia e la voglia di tornare a casa per vedere se era possibile
ripetere quelle cose che non si possono ripetere. Al massimo, si fanno
diverse, con altra gente e in altri posti. Le cose finiscono e i miti
passano, restano i ricordi. E anche Dylan, in un certo senso, era
scomparso.
Ma
Dylan è stato per me quello strano personaggio di un film, Pat Garret
quando lui, proprio lui, così piccolo (e Debby, che l'aveva conosciuto
e ci aveva suonato assieme, a New York, me lo aveva detto, che era
piccolo) quando lui dicevo esce fuori da quella porta e il tizio gli fa:
"come ti chiami" o "e tu chi sei?" qualcosa così
non ricordo bene. E lui sta un attimo zitto, e poi risponde: "Che
domande". E quella strizzata d'occhio, fatta a quelli che l'hanno
capita, mi è piaciuta, e mi ha ricordato tutte le cose che erano state
e che avevamo fatto, assieme a lui; e forse più grandi di lui
(Francesco Guccini).
IVAN
DELLA MEA
da
“Francesco e Giovanna, che bel fischio!” di Ivan Della Mea –
L'UNITA' del 9.12.02
Il
principe Francesco mi disse: “Facciamo qualcosa insieme Ivan, in fondo
siamo nella stessa barca”.
“Non
siamo nella stessa barca” gli risposi.
“Allora
siamo nello stesso mare” disse il principe Francesco sorridendo.
Mi
dava fastidio che fosse così alto e magro e sorridente e disponibile.
“Non
siamo nella stessa barca – ribadii – e neanche nello stesso mare e a
ben vedere neanche nello stesso pianeta”.
Il
principe Francesco mi lasciò perdere.
Giancarlo
Cesaroni, anima del posto, suonò la campanella.
Io
iniziai il secondo tempo del mio recital al Folkstudio di Roma, in Via
Sacchi. Correva l'anno...farebbero meglio a stare fermi gli anni.
Ho
sempre pensato che in quelle mie risposte ci fosse più invidia che
sinistra coerenza di un sinistro di sinistra; ho anche pensato, poi, che
fossero un po' sciocche e questo non perché, negandomi, mi fossi
giocato Dio sa quale occasione, ma perché la storia di Francesco De
Gregori, per quel che ne sapevo, mi diceva di ascoltarlo: epperò era
quella una stagione, a mio avviso, in cui lui era tutto un po' troppo
bravo, un po' troppo giusto, giusto in tutti i sensi, e io un po' troppo
sbagliato in quasi tutti e lui tirava fuori una canzone dopo l'altra e
tutte piuttosto belle alcune anche troppo come la donna cannone e
titanic e viva l'Italia sempre alla grande, canzoni sciorinate all'aria
come le lenzuola bianche stese di Ordet di Dreyer, canzoni che hanno
tutti gli orizzonti, i quattro compresi che. Per dirla con George
Brassens, crocifiggono il mondo.
DARIO
SALVATORI
da
"Le risposte nel vento in formato poster" di Dario Salvatori -
(Ed. Ottaviano) - 1980
C'è
un episodio nella carriera artistica di Bob Dylan che rischia di
diventare mitico, almeno per l'ltalia. Nel 1961, più per puntiglio
verso la sua girl-friend che lo aveva abbandonato che per altro, Dylan
venne in Italia, o meglio "in
Europa",
come dicono gli americani. La sua ragazza era a Perugia e lui ne
approfittò per visitare Roma e Londra.
A
Roma alcuni amici musicisti, chissà perchè, lo portarono al Folkstudio,
un piccolo locale di Trastevere che già da due anni ospitava nuovi
talenti, italiani e stranieri, in fatto di folk, jazz e canzone politica
(nota di Napoleon: da cui uscirono tra l'altro De Gregori, Venditti, Lo
Casciulli, Bassignano, De Angelis etc).
In
America aveva appena inciso il suo primo long playing per la Cbs, sotto
l'attenta produzione di John Hammond, un disco che conteneva anche dei
pezzi suoi ma che in ultima analisi sentiva fortissima l'influenza di
Woody Guthrie, Hudie Ledbetter, Sonny Terry e Cisco Houston. In Italia
ovviamente era
pressochè
sconosciuto. AI Folkstudio fece un"'ospitata", visto che la
serata non era sua, qualche pezzo e via. La cosa finì lì.
In
prospettiva il fatto divenne storico. E c'è da giurare che lo
diventerà ogni anno di più. A determinare l'importanza dell'episodio
concorsero vari fatti. Innanzitutto la popolarità di Dylan. In secondo
luogo l'intensa vita artistica del Folkstudio, ormai ventennale (del
resto la lista dei personaggi illustri passati sul
palco
del piccolo locale di Trastevere come sconosciuti sarebbe lunghissima ),
e non ultimo il fatto che Dylan in Italia, come performer ufficiale non
ci è mai venuto.
Un
fatto importante dunque, ma anche singolarmente curioso.
Giancarlo
Cesaroni del Folkstudio assicura che quella sera in sala, mentre si
esibiva quel ventunenne sconosciuto, non c'erano più di quindici
persone. Eppure ci sono in giro centinaia di persone che giurano di
esser state presenti a quell'avvenimento eccezionale. Sono quasi tutti
degli addetti ai lavori del settore musicale. Ma c'è di più. Nel 1962
il Folkstudio era nella sua antica sede di Via Garibaldi e non ancora in
Via Sacchi, sempre a Trastevere, dove sarebbe arrivato solo molti anni
più tardi.
Naturalmente
questi bugiardi delle sette note assicurano di averlo ascoltato in Via
Sacchi, segno che non si sono presi neppure la briga di farsi i conti un
po' più esattamente.
Insomma
sono anni che sentiamo raccontare in radio, in televisione o sui
giornali questa panzana all'insegna del "c'ero anch'io".
È
vero che il rock è giovane e ha bisogno della sua storia, e quindi dei
suoi storiografi, ma le bugie si possono anche lasciare a casa.
Tutto
questo per cogliere più da vicino, se possibile, il fenomeno Dylan in
Italia, visto che del resto, cioè del Dylan artista internazionale, non
mancano certo altrettanti episodi, anzi abbondano libri, volumi,
biografie, discografie,monografie, in italiano e in inglese, per non
parlare naturalmente del materiale ufficiale, cioè dei film e
soprattutto dei dischi.
Bob
Dylan è l'unico grande degli Anni Sessanta (gli altri sono i Beatles e
i Rolling Stones) a non aver mai messo piede in Italia.
Beatles
e Stones lo fecero al momento giusto, quando la loro popolarità era al
vertice, lui no, anche perchè ha avuto una storia diversa e
probabilmente avrebbe più successo ora un suo concerto in Italia che
non tredici anni fa.
Dipende
dalla maggior specializzazione musicale del pubblico giovane, dalla
conoscenza
dei suoi testi, dai motivi di studio delle sue canzoni.
In
Italia Dylan è sempre stato un fenomeno d'importazione, complici i
testi, "internazionali" ma certo scarsamente traducibili (ma
è stato fatto anche questo).
Dylan
è l'artista e il biografo dell' Altra America, quella delle marce per
l'integrazione nel Sud agli inizi degli Anni Sessanta; l'America del
Village, quella di Chicago e di Jerry Rubin; quella di Kent State,
quella di milioni di
dimostrazioni
contro il Vietnam; quella che giunta alla soglia degli Anni Settanta si
è un po' arrestata senza sapere più dove andare.
Quella,
insomma, di Bob Dylan.
Ma
tutte queste valutazioni, peraltro fondamentali, dovettero essere
mediate per arrivare in Italia, almeno a livello fenomenologico.
L
'errore fu probabilmente dell'industria discografica. La casa
discografica che quindici anni fa iniziò a distribuire i dischi di
Dylan sul nostro mercato non sapeva che pesci pigliare.
Quando
arrivò Like a rolling stone il problema era se metterlo insieme ai
"cantanti americani" o alla "musica beat". Qualcosa
di umiliante.
Per
fortuna era già molto attiva una certa frangia di critici e traduttori
progressisti che si impossessarono felicemente di Dylan. In testa a
tutti Fernanda Pivano, che probabilmente fu la prima in Italia, intorno
al 1964, a scrivere un articolo su Dylan di una certa consistenza.
Fu
questo, probabilmente, il secondo errore.
Si
identificò in qualche modo l'opera del musicista sul piano letterario,
quasi una sorta di monello della "New Left" americana, che nel
frattempo si era fatta troppo seria.
Fatto
sta che dovemmo attendere un altro paio d'anni per capire che Bob Dylan
era essenzialmente un musicista, e che musicista !
Il
merito deve essere attribuito alle trasmissioni radiofoniche (beninteso
Rai) di allora, soprattutto Bandiera Gialla, Per voi giovani e Count
Down, condotte rispettivamente da Gianni Boncompagni, Renzo Arbore e
Giancarlo Guardabassi, nomi che forse faranno sorridere qualcuno ma che
all'epoca ebbero una funzione ben precisa.
Ci
sono frasi delle sue canzoni che hanno segnato grandi vittorie; grida
poi raccolte dal grande coro elettronico di una generazione americana
che per la prima volta nella storia, possedendo già tutto, poteva
attaccare la qualità della propria vita.
Difficile
e impossibile qui elencare il materiale prodotto da Dylan, che fra
l'altro il prossimo anno festeggerà i suoi vent'anni con il music
business, basterà citare la biografia di Anthony Scaduto, la prima e
fino ad oggi di gran lunga
la
migliore. Lo stesso Dylan, quando si trovò il libro fra le mani, ebbe a
dire: "La cosa strana di questo libro è che mi piace".
Anche
nel suo caso, come per i Beatles e i Rolling Stones, esiste tanta e tale
letteratura, molte cose eccellenti ed altre stupide, che sarebbe il caso
di consigliare ai lettori di passare a quelle, subito dopo aver esaurito
i dischi.
A
guardare la sua ventennale carriera si scopre che Dylan non si è troppo
spremuto, a differenza di Beatles e Stones, che negli anni di maggior
successo sono arrivati anche a suonare oltre trecento sere l'anno, è
sempre stato parsimonioso, sia in fatto di tournees che per ciò che
concerne i dischi; tutto ciò gli ha permesso di arrivare alla soglia
dei quarant'anni piuttosto gasato, con una voglia di fare a dir poco
sorprendente.
Organizza
tournees, chiama con sè vecchi collaboratori, incide dischi dal vivo,
si sbatte come un matto per trovare il denaro per - finanziare le sue
follie cinematografiche. Ma non basta. Intreccia un flirt dopo l'altro,
torna a rifare il cascamorto con la sua vecchia fiamma Joan Baez
all'interno della Rolling Thunder Revue (pare che sia stato questo il
definitivo motivo della rottura con sua moglie). Si direbbe
instancabile.
Forse,
insieme a Cassius Clay, è l'unica star degli Anni Sessanta ad essere
sopravvissuta. O almeno in grado di affrontare il futuro a testa alta.
Gran
parte dei miti di allora sono spariti, inghiottiti più che altro dalle
loro stesse gesta, da una sciocca politica culturale, peraltro non
sempre presente. Diciamo allora che Dylan si è mostrato in grado di
saper invecchiare; per una
star
carismatica della sua portata non è cosa da poco. I Beatles per farlo
si sono dovuti dividere.
Il
tempismo di Dylan è stato proverbiale.
Almeno
una volta l'anno Dylan ebbe modo di compiere un'azione che in seguito si
sarebbe rivelata di fondamentale importanza.
Nel
1963 cancellò una sua apparizione al popolarissimo Ed Sullivan Show
perchè la televisione gli censurò una canzone di protesta;
nel
1964 adottò la chitarra elettrica fra le proteste dei fans del folk
(l'anno dopo la scena si sarebbe ripetuta con maggior enfasi al Festival
di Newport); nel 1966 il famoso incidente motociclistico, quasi mortale,
che gli impedirà di lavorare per due anni e dal quale uscirà
completamente trasformato nel 1968,
anno
in cui terrà uno storico concerto alla Carnegie Hall.
L
'anno della sua rinascita è sicuramente il 1969. Nel mese di agosto
compare al Festival di Wight.
E'
il suo grande ritorno, la prima apparizione in pubblico di un certo peso
dopo l'incidente.
Ormai
è ricco e la sua partecipazione costa cara: 35.000 sterline più una
percentuale sugli incassi (oltre 300.000 sterline). Da allora il suo
ritorno è stato lento ma progressivo: come artista ha voglia di tornare
sul palco, sente
soprattutto
la mancanza del pubblico. Ad ogni esibizione, per ogni concerto è
pronta una nuova polemica, un piccolo sussulto, qualcosa che non
funziona. Si torna a parlare di vecchie questioni, cercando di stabilire
se il suo sia stato più o meno un tradimento e in che misura sia
possibile parlare ancora oggi di Dylan come di un artista giovane.
Le
polemiche non sono ancora cessate. Anzi, si rinnovano in continuazione,
ma con una povertà di argomenti desolante. L 'ultimo tour mondiale di
Dylan ha messo nuovamente in risalto la sua statura di artista. Al di
là delle polemiche, dei sopraggiunti quarant'anni, della ricchezza,
della sua vigliaccheria, dell'avarizia, del menefreghismo nei confronti
del prossimo, c'è da star certi che sentiremo parlare di lui per molti
anni ancora.
GIOVANNA
MARINI
Giovanna
Marini è musicista. Giovanna Marini è cantante politica. Giovanna
Marini è, infine, ricercatrice. Ma in ognuna di queste definizioni il
ruolo di Giovanna Marini è affatto particolare. E ciò che sovraintende
a questa particolarità è la reinvenzione del tutto originale di questi
ruoli ormai ‘normalizzati’ nella cultura degli anni ‘60-’70. Il
musicista è infatti quello chiuso nei suoi conservatori e nelle sue
sale da concerto, quello di cui si occupa la critica ufficiale, quello
che viene da Darmstadt o magari addirittura dagli Stati Uniti. Oppure è
lo strimpellatore di chitarra d’accompagnamento, o il pianista da
piano-bar, il musicista per poesia, potremmo definirlo. Il cantante
politico è l’anonimo (o gli anonimi) espresso dalle lotte delle
masse. Oppure è il generoso divulgatore di slogan in do/sol 7. Il
ricercatore è il geloso maniaco del magnetofono, il professore
universitario con giuste ambizioni filologiche. Oppure il furbo
saccheggiatore di musiche popolari per americani in cerca di emozioni
esotiche. La Marini è invece musicista nel senso che ogni sua ballata
riecheggia in continuo una consuetudine non episodica con la musica
colta’ del passato, e soprattutto quella grande stagione della musica
italiana che va da Palestrina a Monteverdi. Ma mai per riferimenti
sicuri; piuttosto, vorremmo dire, per aver assorbito, quasi senza
avvedersene, questa musica. E per essere, nel comporre, sempre attenta
alla costruzione, alla melodia come all’armonia, come (segno di
indubbia cultura musicale) al timbro e al ritmo. Il procedere delle sue
ballate lunghe è continuamente spezzato senza però che l’unità
venga meno: le ballate della Marini (anche quelle semplici per voce e
chitarra) non sono una sequela di tanti brani, ma nemmeno l’alternarsi
banale di strofa-ritornello-strofa tanto caro alla canzonetta in serie.
Sono invece un continuo nascere di idee armonico-melodiche che si
incastrano le une sulle altre senza stanchezza. E l’uso della voce,
infine. La Marini anche in questo si dimostra musicista: la voce (e la
sua voce, poi, splendidamente modulante dal contralto al soprano) è uno
strumento; i testi sono importanti, ma importante è anche il loro
veicolo, un veicolo appunto tutto musicale. E dunque la voce canta
spiegata, urla, parla metricamente, parla normalmente e, infine, ‘svola’.
Ma sullo svolo torneremo. La Marini è cantante politica. E, anche in
questo caso, la sua musica non è un accompagnamento di slogan, non
fornisce una visione piatta e generica, o trionfalista e retorica, delle
lotte, della società, della battaglia socialista. E, invece, all’interno
di una battaglia politico-culturale decisamente orientata, piena di
contraddizioni, di slanci, di analisi più che di sintesi, di mediazione
più che di registrazione, di riflessione più che di semplice
testimonianza o colonna sonora delle lotte. La canzone politica di
Giovanna Marini è, nel bene e nel male, assolutamente inimitabile: è
la commistione di impegno politico, ironia dell’intelligenza,
raffinata cultura musicale. Nel bene e nel male perchè non si vuole con
questo dare un giudizio nel merito della produzione della Marini, ma
evidenziarne l’originalità e intelligenza del metodo. E infine
ricercatrice. Ma anche qui a modo suo. La Marini più che ricercare per
ricercare o per ricreare, ricerca per radicarsi da qualche parte: tutto
quello che sente, che capisce, che chiede e le viene risposto, dove
ancora si fa musica popolare, è vano ricercarlo nelle sue composizioni,
è facile invece trovarlo come substrato culturale in tutta la sua
produzione. Nè il mestiere di ricercatrice le impedisce, spesso, con la
solita ironia dell’intelligenza, di inventare veri e propri moduli
popolari. Tale è il caso dello ‘svolo’. Nella canzone popolare del
Povero Antonuccio, nel finale, mentre un altro cantante continua la
melodia normale, la Marini improvvisa un lamento, svisando con la voce (svolando,
appunto) quasi a imitare il pianto lamentoso delle prefiche. La teoria
dello svolo è, in realtà, un’invenzione della Marini stessa. Il che
non le impedisce, peraltro, di usare lo stesso procedimento nella
canzone su Pasolini (Persi le forze mie, persi l’ingegno). Ma l’invenzione
di canzoni o moduli popolari è nella Marini qualcosa di diverso dal
divertissement, dall’operazione snobistica dell’intellettuale sulla
‘cultura inferiore’. È invece dimostrazione di quanto attuale e
presente possa essere ancora la musica ‘altra’, contrariamente a
quanto sostengono coloro che la vogliono morta per averne, sotto vetro,
le spoglie imbalsamate. E inoltre, in Giovanna Marini, è prova di una
convinzione teorica profonda: che non esistono forme musicali ‘altre’
che nascano dal nulla e che sarebbe, contemporaneamente, delittuoso
affidare al ‘già detto musicale’ la veicolazione di messaggi nuovi.
In questo senso i pastiches di Giovanna Marini sono compenetrazioni di
stili i più vari che, variamente accostati, amalgamati e rivisitati,
tendono a dare un messaggio univoco, non subordinato alla povertà
strumentale nè a quella testuale, ma anzi in grado di valersi della
ricchezza sia testuale che strumentale, sia armonica che ritmica, per
dare non già autorità ma pienezza culturale al messaggio. Nella Marini
non è difficile rintracciare “in riassunto liberamente rivisitato”:
il madrigale di Marenzio, la canzone profana medievale, la musica
strumentale barocca, l’opera italiana, il valzer viennese, la
modalità contadina dell’italia meridionale, e si potrebbe continuare
(persino il cromatismo wagneriano potrebbe entrarci). Il tutto fuso e
variamente emergente (e a volte assente, beninteso) a fornire saldezza
musicale: tanto che, qualcuno potrebbe obiettare, la musica della Marini
rischia di esulare dalla canzone politica così come oggi la intendiamo.
Ma sarebbe, ci pare, assai riduttivo porre in questi termini la
questione. Sarebbe come affermare che la canzone politica ha, come dato
distintivo, la rozzezza musicale. Contio questa teoria basterebbe,
crediamo, la sola Reggio Calabria, in cui il tessuto musicale fa da
sostegno (quasi inosservato, separato dal testo) a parole di
inequivocabile politicità, con un risultato finale di grande ‘emozione’.
Nè del resto siamo d’accordo con Piero Nissim quando sostiene che l’unica
canzone politica esistente è quella legata strettissimamente alla lotta
e cantabile da tutti: quella infatti è, più propriamente, un aspetto
(fondamentale) della cultura operaia oggi, è una questione di ricerca
urbana, accanto alla quale però esiste un livello di riflessione (i
termini “più giusta”, “meno giusta” non hanno significato) e di
elaborazione più articolata che richiede, di necessità, l’intervento
dell’intellettuale. Questo compito di riflessione lo svolge, oggi,
Giovanna Marini assieme ad altri: è un compito di intelligente ricerca
e di intelligente creazione, di impegno politico e culturale.
Flash
n . 1 - da “Folkstudio story” di Dario Salvatori
Fu
Sally, una giovane israeliana in perpetuo viaggio verso Israele, non so
se ci sia mai arrivata, a dire al giovane inglese: "Roger, forse si
stanno annoiando, . . . Roger . . non sta andando .tanto bene. Non mi
sembrano contenti. . ." e poi fu la rissa. Eravamo in un'osterla di
Rorna con chitarre e mandolini. Trastevere, di venti anni fa. C'erano
Roger, Sally, Harold e altri amici, forse c'era anche Cesaroni ma io
ricordo Sally perchè aveva un dito di meno e suonava la chìtarra e
Roger perchè era sicuro che ai trasteverini la nostra musica sarebbe
piaciuta tanto. Non piacque affatto. Anzi, stavano per rovesciarci
addosso le tavole con vino, pizze e tutto all'ennesima canzone gallese
di Roger, all'ennesimo canto provenzale mio e all'ultima nenia ebraica
di Sally. Harold non cantò, ma lui si distinse subito per un fiuto
straordinario. All'ultimo momento una donna enorme si alza in piedi e
dice "lassateli perde", dice soltanto, ma con la voce fa
tremare i vetri. Tutti si calmano, lei ha dei gioielli grossi come le
dita e si mette a cantare. Non avevo mai sentito una cosa simile.
Harold
mi sussurra "ci vuole un localetto nostro, come questa osteria, per
cantare, e magari far pure pagare qualcosa, qua no, questi ci
ammazzano". E si aprì il Folkstudio. Dopo quattro anni al
Folkstudio non ci sono andata più, ma quando ritornai lo trovai
fiorente. Pieno di ragazzi che urlavano che volevano canzoni politiche.
Harold tuonava spirituals di liberazione (ve l'avevo detto che aveva un
gran fiuto?) Cesaroni sembrava di passaggio, in realtà lo gestiva lui,
ma questo è il suo stile. Benito preparava il popcorn e Maureen con
Roger cantavano l'Irlanda. Andammo pure a Verona, in qualità di
Folkstudio Singers. Mario Schiano anche lui sempre sulla porta, la
provvisorietà fatta istituzione. In realtà, a vederla all'indietro,
lì si è fatta cultura. Ogni fermento, ogni spinta, si registrava
automaticamente al Folkstudio. Nel sessantotto ci cantava Pino Masi, nel
settantadue De Gregori; e ancora oggi, chi si cimenta in un pezzo nuovo,
dìfficile, e vuole farlo tra gente che possa capire, va al Folkstudio.
lo
credo che la pacifica gestione animata proprio solo dall'amore di non
buttare via i patrimoni, la nostra memoria storica, che ha sempre
caratterizzato il modo di agire di Cesaroni, sia stata la salvezza del
Folkstudio. E questo dimostra che senza obbiettivi spericolati, ma con
grande consapevolezza che un luogo per esprimersi liberamente è sempre
più prezioso, unita al voler conservare a tutti i costi la propria
memoria, si compie un atto di profonda cultura. lo penso proprio questo,
e perciò desidero che il Folkstudio non chiuda mai, soprattutto che non
esca dalle mani di Cesaroni, perchè è difficile adesso saper tenere
insieme un luogo dove fare cultura e la gente. C'è per ora un perfetto
entrare e uscire dal pubblico al privato e viceversa nel rapporti con il
Folkstudio che potrebbe perdersi e che invece è anch'esso prezioso come
ultima testimonianza di un modo di essere che oggi, fra la paura di
cadere nelle trappole delle etichette di moda, e la paura di non essere
abbastanza chiari, si va perdendo.
Non
a caso oggi canta al Folkstudio il Cantinpiazza, un gruppo nuovo, alla
sua prima esperienza, e non a caso ci ha da poco cantato Pietrangeli,
dopo tredici anni di attività nella canzone politica, in un suo ritorno
al pubblico romano.
Vorrei
che nel marasma generale questo luogo restasse aperto com'è sempre
stato, un gran raccoglitore di persone, voci, esperienze, racconti vivi,
in libertà, senza mediazioni. (Giovanna Marini)
PAOLO
PIETRANGELI
Nato
a Roma nel 1945, figlio del regista cinematografico Antonio, laureato in
filosofia, è venuto in contatto con il Nuovo Canzoniere italiano nel
1966. Aveva da poco scritto Contessa, in occasione della prima
occupazione dell'Università, in seguito all'assassinio dello studente
Paolo Rossi da parte dei fascisti, che rimarrà la sua canzone più nota
e che divenne la canzone delle lotte studentesche degli anni 1968-1969.
Dopo gli entusiasmi, anche le ingenuità di quegli anni, Pietrangeli,
finì per assorbire il riflusso postsessantottesco con relativo corredo
di frustrazioni e disillusioni: i suoi dischi stemperano gli impeti per
una descrizione delle contraddizioni quotidiane piena di sfumature, dove
hanno un posto maggiore il " personale ", la caricatura, la
satira impietosa. Il suo discorso diventa più omogeneo, non
"popolare" certo come linguaggio (le sue canzoni, tranne
alcune eccezioni, non si prestano a essere cantate in coro e a essere
facilmente memorizzate), ma in grado comunque di esprimere sentimenti
"collettivi ", se si pensa al pubblico cui si rivolgeva per
affinità: le masse studentesche e i nuovi ceti medi politicizzati.
Negli anni '70 da ricordare anche il suo impegno come regista con opere
abbastanza diverse fra di loro: un film-documentario sul fascismo
vecchio e nuovo, "Bianco e nero" (1975), un altro sulle
inquietudini sessual-esistenziali dei giovani: "Porci con le
ali" (1977), infine "I giorni cantati" (1979).
IL
NUOVO CANZONIERE ITALIANO
Il
nome, proposto da Roberto Leydi nel 1962 (ispirato a una vecchia
raccolta di Pietro Gori), fu assunto dal gruppo di cantanti e operatori
che già operavano nell’ambito delle allora Edizioni Avanti!, poi
divenute Edizioni del Gallo e infine Edizioni Bella ciao. Attorno alle
figure di Gianni Bosio e di Roberto Leydi si raccolsero allora un po’
tutti i protagonisti del folk revival italiano, o per lo meno quelli
operanti nel Settentrione. Alcuni nomi: Sandra Mantovani, Michele L.
Straniero, Fausto Amodei, Sergio Liberovici, Tullio Savi, Ivan Della
Mea, Giovanna Daffini. Organo del gruppo divenne la rivista omonima,
mentre intanto si andava sviluppando l’attività di edizioni librarie
e soprattutto discografiche (sotto l’etichetta « I dischi del sole
»), ma di eccezionale importanza fu l’attività di concerti e
spettacoli che portò finalmente ad ampia
notorietà buona
parte del ricco patrimonio canoro sociale tradizionale che veniva
intanto ritrovato nell’attività di ricerca che corse sempre parallela
alle altre attività del gruppo. Il primo spettacolo proposto dal Nuovo
canzoniere italiano, fu rappresentato all’Umanitaria di Milano nel
1962 ed ebbe come titolo «L’altra Italia, canti del popolo italiano»
(curato da Roberto Leydi e Tullio Savi) in cui cantarono Fausto Amodei,
Sandra Mantovani, Michele L. Straniero. L’anno dopo, alla Casa della
cultura di Milano verrà presentato un ciclo di spettacoli articolato in
nove serate e che avrà titolo « L’altra Italia, prima rassegna della
canzone popolare vecchia e nuova », cui aderirono numerosi personaggi
del mondo culturale milanese e lombardo. Nel 1964 a Padova ebbe luogo l’anteprima
dello spettacolo «Pietà l’è morta, la Resistenza nelle canzoni» e,
nel giugno di quello stesso anno, nell’ambito del Festival di Spoleto,
c’è la prima di «Bella ciao» che susciterà poi tanto scandalo. Nel
1966 viene presentato lo spettacolo «Ci ragiono e canto», che
contribuirà ad acuire certe polemiche, che già comunque avevano avuto
inizio l’anno precedente e che porteranno al distacco dal Nuovo
canzoniere di Leydi, Sandra Mantovani, Bruno Pianta, Hana Roth, Matteo
Deichmann. Nel 1967 esce il primo numero del bollettino « Linea rossa
», sempre quell’anno viene fondata la Lega di cultura di Piadena, cui
segue di un anno la nascita della Lega culturale di Aquanegra sul
Chiese. Intanto matura anche il distacco dal gruppo di Nanni Ricordi.
Nel 1973 nasce a Roma il circolo Gianni Bosio, sezione romana del Nuovo
canzoniere italiano, e l’anno dopo viene organizzato un seminario sul
tema «L’altra cultura. Interventi, ricerche, documenti sulla presenza
alternativa della cultura popolare e proletaria». Tra i gruppi che in
qualche modo si ricollegano alle attività del Nuovo canzoniere italiano
vale la pena di ricordare i circoli Gianni Bosio di Roma, Torino, Chieti,
Modena e di altre città, il Collettivo di lavoro G. Daffini di Reggio
Emilia, le leghe di Piadena e di Acquanegra, il Nuovo canzoniere veneto,
la Colonia Cecilia, il Canzoniere popolare di Bergamo, il Canzoniere
grecanico - salentino di Lecce, il Gruppo operaio ‘E Zezi di
Pomigliano D’Arco e altri ancora. Tra i musicisti e cantanti che
agirono sotto l’etichetta del Nuovo canzoniere, da ricordare Giovanna
Marini, Ivan Della Mea, Paolo Pietrangeli, Paolo e Alberto Ciarchi,
Renato Rivolta, Fausto Amodei, Gualtiero Bertelli, Alfredo Bandelli.
MATTEO
SALVATORE
Autore
ed esecutore nato ad Apricena (Foggia) nel 1923. Il padre, Lazzaro,
manovale e militante comunista, fu più volte arrestato durante il
fascismo. Salvatore
apprese a suonare da un vecchio suonatore di violino cieco, Vincenzo
Pizzicoli, che egli iniziò a frequentare dall’età di sette anni e
con il quale faceva le serenate alle belle di paese per conto dei loro
innamorati, e dal quale apprese circa 130 canzoni. All’età di venti
anni si trasferì a Roma e iniziò a cantare nelle trattorie per fare
qualche soldo,
finché fu «scoperto» da Maurizio Corgnati che lo introdusse in un
giro della buona borghesia di cui egli allietava le feste. In seguito
poté incidere alcuni dischi sia di canzoni popolari sia di sue
composizioni, queste ultime sparse in una miriade di 45 giri di livello
assai ineguale. Nel 1973, in seguito all’uccisione della sua
convivente Adriana Doriani, ha dovuto scontare una pena detentiva.
Liberato nel 1978, ha ripreso l’attività concertistica. Rimangono
ancora oggi la sua straordinaria voce acuta e le canzoni che l'hanno
trasformato in un simbolo del canto ribelle del canto ribelle del
Meridione.
GRUPPO
PADANO DI PIADENA
Il
gruppo nasce nel 1962 e da allora ha subito numerose modificazioni dell’organico,
allineando di volta in volta Bruno Fontanella, Delio Chittò, Amedeo
Merli, Sergio Lodi, Policarpo Lanzi, Adolfo Nolli, Ortis Robusti. Amedeo
Merli e Delio Chittò hanno formato nel 1967 il Duo di Piadena. In gran
parte operai, non tutti sono di Piadena (Cremona). Le prime esecuzioni
in pubblico risalgono al 1963; in seguito presero parte, nell’ambito
delle attività del Nuovo canzoniere italiano, alla rassegna «L’altra
Italia» alla Casa della cultura a Milano, agli spettacoli «Bella
ciao», «Ci ragiono e canto» e al primo Folk festival di Torino. Il
Duo di Piadena, che si è staccato dal Nuovo canzoniere italiano, ha
preso parte, fra l’altro alla ripresa televisiva di
«Ci
ragiono e canto». Importante è anche il lavoro di ricerca e di
razionalizzazione della cultura popolare iniziato con Gianni Bosio in
cui si sono impegnati i componenti del gruppo, lavoro che ha portato,
tra l’altro, alla pubblicazione di due fascicoli ciclostilati
contenenti i testi e le musiche di due importanti repertori di canti di
risaia: quello delle mondine di Castelnuovo Gherardi e quello delle
mondine di Villa Garibaldi. Il Gruppo padano di Piadena ha rappresentato
una delle esperienze più avanzate di riproposta di canti popolari e di
elaborazione di nuove canzoni politiche (tra cui ricordiamo
«La
Santa Caterina dei pastai», «Il padrone socialista» e «Sciopero!»).
La scelta di campo operata dal Duo di Piadena è diversa: abbandonata la
strada della ricerca sul campo e del vivere dall’interno la condizione
operaia e contadina, essi si sono proposti come cantanti
semiprofessionisti che, sebbene a livelli comunque dignitosi, hanno
cercato di raggiungere un pubblico più vasto, incidendo numerosi dischi
dal valore alquanto discontinuo.
EDOARDO
DE ANGELIS
Storico
punto di riferimento per i cantautori della "scuola romana",
De Angelis ha contribuito, dal Folkstudio (1970) ad oggi, allo sviluppo
e all'immagine della canzone d'autore italiana. Ha
realizzato quattro
album con la Schola Cantorum, e nove come solista. In qualità di
esperto di musica italiana e canzone d'autore è stato più volte
chiamato a tenere rubriche giornalistiche specializzate, è stato
titolare di una serie radiofonica sulla storia della canzone d'autore e
di interventi e interviste radiotelevisive. Ha gestito uno spazio
dedicato alla musica italiana in “Music Mag”, settimanale musicale
della TV svizzera. Ha pubblicato un libro, “Scrivere canzoni”,
destinato ai giovani che vogliono avvicinarsi al mondo della musica. E'
stato produttore di Francesco De Gregori e di Sergio Endrigo, ideatore
di “Cantare in Italiano”, etichetta discografica associata alla BMG
RICORDI, aperta a nuovi talenti della canzone d'autore.
E' direttore
artistico di “Teatro del Sole”, società che si occupa di produzione
e servizi per la musica e lo spettacolo. Negli ultimi anni è stato
protagonista di una lunga serie di incontri con i ragazzi delle scuole
medie superiori e delle università, in molte città italiane, con la
sua iniziativa “Parola di cantautore”, tesa a verificare la qualità
del rapporto tra i giovani e la musica italiana. Ha partecipato come
responsabile del settore Musica a NET, spettacolo sulle nuove tecnologie
della comunicazione, ospitato dalle Scuole Superiori dei principali
capoluoghi di provincia italiani. E’ Presidente di “Via del Campo”,
Associazione Culturale con la finalità di identificare, riunire,
proteggere e promuovere giovani artisti italiani nel campo della musica.
MARIO
SCHIANO
da
“Folkstudio story” di Dario Salvatori
Caro
Cesaroni, A proposito dell'annuale vendita del Folkstudio, da molti
giorni ricevevo decine di telefonate di persone le piú eterogenee che
mi chiedevano notizie sulla messa in vendita del Folkstudio (ma perchè
proprio a me?), Quanto costa . . . se si può visitare . . . ci vorrei
fare una discoteca ... un pub un ambulatorio per cani, un circolo
monarchico….
Mi
ricordo anche di una telefonata fattami da uno di quel giovani musici
sbocciati al Folkstudio non tanto tempo fa (a duemila lire per sera) e
che adesso danno il caviale al gatto di casa: "Si me gira me compro
tutto er palazzo. E vabbè.
Oggi,
comunque, credo proprio che si sia travalicato ogni limite di
tollerabilità.
Indovina
un pò chi mi ha telefonato? Lo jettatore, sì, quello con l'ombrello
(dovrei nominarlo ma mi fai tenerezza).
"Sono
a pochi metri da casa tua, ora ti raggiungo. . ." e mi ha costretto
a uscire a precipizio per dirottarlo. L'ho bloccato a via Garibaldi
costringendolo a sedere al Bar delle Rose, proprio davanti ai numeri
civici 56 e 58, le prime due "sedi" del Folkstudio.
Non
l'avessi mai fatto! Ha cominciato con i ricordi e con il racconto dei
suoi vani tentativi di acquistare il "Folk” sin dal
millenovecentosessanta: Barold Bradley pare che tentasse di metterlo in
vendita ogni anno intavolando trattative, però, soltanto con quaccheri
e mormoni USA.
“Io
ci restavo molto male. . .
"Ma
se le trattative non si concludevano mai?"
"MI
sentivo escluso e ci restavo male, credimi!"
"Ti
credo, ti credo! (Bradley, sparì da Ro- ma e non se ne seppe mai più
nulla.)
"Quest'anno,
però, spero di farcela, Ma come mai il "nostro Cesaroni si è
deciso a vendere?"
Gli
ho dovuto spiegare che si tratta di uno ... scherzo che tu fai
abitualmente per tener viva la tradizione. C'è rimasto male: quindi,
stai attento.
(Per
inciso ti domando: come mai la notizia è arrivata fino allo jettatore
che, per fortuna, ora abita così lontano da Roma? Di norma la annuale
comunicazione della vendita del Folkstudio era stata sempre
rigorosamente riservata a quattro o cinque potenziali acquirenti oltre
che a pochissimi amici aventi il compito di recítare quotidianamente:
'Peccato, era così bello! E mo' la sera che facciamo?", fino a
quando l'ultímo del. . . . "cormpratori", dopo la rituale e
concitata trattativa, non veniva messo cortesemente alla porta.
Operazione questa seguita da abbondanti libagioni e da un festoso
"Arrivederci a Settembre". Ricordi?)
-
"Ma sei sicuro che è uno scherzo?!". A questo punto ho dovuto
dargli il tuo numero privato di telefono. Arrangiati.
Poi
ci siamo alzati ed è accaduto, in queel momento, qualcosa di misterioso
e terribile. Si è sentito un sordo boato sotterraneo e il tombino
stradale, a due passi solo da noi, ha sussultato sinistramente. Fissando
atterrito il mio interlocutore ho fatto un passo indietro toccando le
chiavi e farfugliando, tra me, "vade retro, vade retro . .
Il
tombino, poi, si è quasi del tutto scoperchiato e dal ventre della
terra, oltre ad effluvi nauseabondi, sono venuti su anche labili suoni
elettronici distorti.
C'è
stato un grande scorrere di gente. Qualcuno, molto bene informato, ha
urlato: "E' un fonoevento di Nicolini!". Qualcun altro: “Viva
l'estate romana ottanta!". Ho visto il nostro "amico"
quasi genuflettersi sul tombino e ripetere più volte, con sorriso
estatico: "Questo è il vero underground ..........
Può
darsi. Per me è troppo umido e puzzolente. Preferisco il Folkstudio.
Caro
Cesaroni, ci rivedremo a settembre. (Mario Schiano)
LUIGI GRECHI
IO, MIO FRATELLO FRANCESCO E GLI ANNI MAGICI DEL FOLKSTUDIO –
[Intervista a Luigi De Gregori] – Vino caldo, pop corn e ricordi
sfumati: “Negli anni del Folkstudio ero quasi sempre ubriaco, ma
l’atmosfera magica di quel posto non l’ho dimenticata”. Luigi De Gregori
ha più di settant’anni e il desiderio di tornare a quando notte e giorno
confondevano i profili nell’alba di Trastevere: “Il locale era scomodo.
Un basso umido in cui percorrendo un corridoio si giungeva a una stanza
quadrata”.
Il palco era lì e sul palco suonava chi ne aveva voglia: “Oggi dirlo
sembra strano, ma a metà degli anni 60 il Folkstudio era un punto di
riferimento dall’enorme valenza internazionale. Gli hippies e i
folksinger che bruciavano la cartoline militari che li avrebbero voluti
soldati sul fronte vietnamita, fuggivano attraverso il Canada,
raggiungevano la Scandinavia e poi, viaggiando verso l’Europa del Sud,
arrivavano a Roma per unirsi a quel carnevale estemporaneo”. Dal primo
Folkstudio: “Quello ricavato dallo studio del pittore Harold Bradley in
cui davanti alla porta di metallo dell’ingresso si affollavano dialetti
diversi mossi dalla voglia di suonare e guadagnarsi la cena” tra “i
fiori falsi e i sogni veri della friggitoria chantant” nel corso del
tempo passarono De André e Rino Gaetano, i ragazzi con il pianoforte
sulla spalla di Venditti, Guccini, Bob Dylan e Francesco De Gregori,
figlio di Rita e Giorgio, fratello di Luigi.
“C’era un bordello ogni sera e solo dopo molte multe da parte dei
vigili, qualcuno propose di strutturarsi in associazione. Il programma
era sempre estemporaneo e a volte, quando non c’era nessuno, Bradley, un
afroamericano dall’esistenza molto avventurosa che mi piacerebbe
ringraziare per le tante cose belle che mi ha insegnato, improvvisava.
Prendeva un blocco di travertino sotto il pianoforte e lo scuoteva con
una mazzetta da muratore mentre la voce vibrava ‘When John Henry was a
little baby, sittin’ on his daddy’s knee’.
Per decenni, di fronte al mondo, Luigi De Gregori, lunga barba bianca,
stivali e giacche da texano a un passo dal rodeo: “Mi sono sempre
vestito così, non posso stupirmi se qualcuno si incuriosisce” ha usato
il cognome della madre, Grechi: “In fondo non ero andato a pescare molto
lontano. Accadde non perché – come sarebbe semplice pensare – con
Francesco avessi dei problemi, ma perché li avevo con la mia identità.
Temevo il desiderio di confronto da parte del pubblico, la confusione,
gli interrogativi oziosi su somiglianze e differenze. Quando ho capito
che effettivamente eravamo diversissimi, ho lasciato cadere la
distinzione e mi sono riappropriato del mio cognome”.
Durante lo scorso Festival della canzone, i due si sono ritrovati
insieme su una pedana. Il titolo dell’evento: “Noi non ci Sanremo” era
più di un manifesto. Il luogo deputato, “L’asino che vola”, un
Folkstudio del 2000 in cui Grechi, ogni due settimane, sempre di
martedì, organizza programmazioni utili a far esibire ragazzi senza
chiedere patenti o appartenenze certe: “La gente non chiedeva altro, lo
spazio è bellissimo, ‘Noi non ci Sanremo’, filologicamente seguiva la
stessa linea del Folkstudio di un’epoca lontana”.
https://www.cinquantamila.it/storyTellerArticolo.php?storyId=0000002309319
Francesco De Gregori a L'asino che
vola" il 7.2.2023.
https://www.facebook.com/millepapaveri.rossiroma/videos/1261309624793023/
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