«La copertina è derivata dal fatto che non volevo perdere tempo, e poi
ricordavo le copertine di Battisti nel periodo panelliano, tutte
bianche, senza nulla, mi piacevano molto, era l'unico a farle così».
“E’
stato registrato e mixato in venti giorni, per giunta mentre avevo
ancora nelle orecchie il disco
precedente. Sono meravigliato io stesso, ma si vede che ne avevo
bisogno, l’arte è una medicina contro i mali della vita. Mi sto
scoprendo una tenerezza tardiva per i ferri del mestiere, addirittura un
amore senile per la sala di registrazione, uno studio come quello di una
volta, sala grande, ampio spazio per l’ingombro fisico degli
strumenti, nessuna fredda miniaturizzazione tecnologica. Il disco si
chiama Calypsos. Parla dei conti non risolti con l’amore, che rimane
un momento di grande indecifrabilità, dei rapimenti d’amore. Il
riferimento è più alla ninfa che fece innamorare Ulisse che al ballo,
anche se una canzone è dedicata proprio al ballo. E un’altra, ‘Cardiologia’,
alla scienza del cuore, ammesso che sia una scienza, quella…”.
(Francesco
De Gregori)
Che
di Calypsos non si butta niente
(Antonio Piccolo)
Alt.
Avviso al lettore: questa non è una recensione. Questa è un’esegesi.
Non potrebbe che essere così per un prodotto così fresco, spontaneo,
vitale. Il frutto naturale di un genio artistico, che racchiude in sé
evidenti capacità tecniche e un’ispirazione formidabile.
De
Gregori torna dopo undici mesi da “Pezzi” - contro ogni logica di
mercato - con nove brani inediti sull’amore o, comunque, sulla vita,
isolandosi dai tempi bui che aveva descritto (splendidamente) nel disco
dell’anno scorso. C’è chi parla di un concept album sull’amore:
non è così scorretto, perché un’unità di fondo nell’amore è
palese. Questo è un disco strano, unico. Non solo composto, ma anche
suonato in poco tempo. Cosa che non può andar bene per ogni album, ma
per questo sì. Può essere suonato senza maniacali precisioni, senza
essere inciso e re-inciso più volte prima di essere reso pubblico.
Perché basta il traino irresistibile dell’ispirazione. Perché è
come un universo a sé: ha un meccanismo proprio. Al primo ascolto ero
perplesso. Al secondo stavo iniziando a entrare nella sua logica. Al
terzo ne ero perdutamente innamorato.
Inoltre,
questo è De Gregori e basta. Ci sono influenze esterne e riferimenti
altrui, ma per lo più consapevoli e voluti. Chiariamo che non c’è
niente di male se l’ombra di Bob Dylan è presente, come nel
memorabile “Pezzi”. Però fa piacere che questo disco possa
dimostrare che, se De Gregori vuole, è capace anche di farne a meno.
Cominciamo
con la copertina, che contiene tre citazioni. Uno: la sua forma scarna -
con il titolo scritto a penna - è una dedica affettuosa a Lucio
Battisti, che così aveva voluto le copertine dei suoi ultimi album.
Due: il titolo, che è il nome della bellissima ninfa Calipso (“l’ho
scritto al plurale perché i rapimenti d’amore sono molti”, dice De
Gregori), innamorata di Ulisse più che di se stessa e che, per amore,
lo aiutò a partire per Itaca a costa di allontanarlo da lei; ma è
anche il nome di una danza delle Antille. Tre: il sottotitolo - “9
canzoni nuove” - che richiama “Ten new songs”, un album di Leonard
Cohen.
Continuiamo
sottolineando che i testi sono la vera forza di questo disco: parlano
del tema più abusato dell’arte, eppure non sono né scontati né
banali. Anzi. A costo di essere odiati da De Gregori, diciamolo: sono
poetici. Intendendo per “poetico” non il senso tecnico che
appartiene al genere della poesia, ma “alto, elevato, onirico”. Le
musiche non sono originali, ma accompagnano perfettamente lo spirito e,
soprattutto, la parte melodica è portata ad altissimi livelli dal canto
superlativo, che viaggia tra note e timbri tra loro lontanissimi. E poi,
è prodotto così amorevolmente da Guido Guglielminetti, che i loro
arrangiamenti sono la cosa più giusta al momento giusto. Niente di più
e niente di meno.
1.
Cardiologia Primo brano in tutti i sensi. Capolavoro del disco. Cosa
c’è che non va in questa canzone? Niente. A dispetto del freddo
titolo che indica la “scienza del cuore”, è di un’emotività
penetrante. Per questo canto perfetto, che scende e risale a mo’
dell’album “Bufalo Bill”; per questo preponderante pianoforte
suonato da Alessandro Arianti e delicatamente supportato dal basso di
Guglielminetti; per questo testo che è veramente un breve saggio in
toto dell’amore, “che raccoglie conchiglie dopo la mareggiata / e il
cielo è ancora scuro ma la notte è passata / e macina la sabbia dentro
i mulini a vento / e che non ha mai fretta e che non ha mai tempo”.
Ah, palesiamo l’imbarazzante errore di Gino Castaldo che sulla
Repubblica annuncia ai quattro venti che in questo pezzo per la prima
volta De Gregori dice “ti amo”: e Pezzi di vetro dove la mettiamo?
2.
La linea della vita Un pezzo ritmato dal testo spontaneo, arrangiato con
invettiva e divertimento (sacrificando un po' di estetica per dei
ridicoli cori femminili alla Bongusto!). Ma è il testo che è
sbalorditivo, con considerazioni generiche sui rapporti, su quegli
strani meccanismi che si creano, per cui magari si fa finta di non
riconoscersi, e non ci si saluta. Com'è genuina la goffaggine dell'io
parlante che, quando lei dice "una bussola dovevi almeno portarla
con te!", risponde "una bussola! potevi almeno spiegarmelo
come si usa una bussola, scusa!".
3.
La casa Per dirla simbolicamente, è la versione adulta de La casa di
Sergio Endrigo. E' la casa che costruiamo nella nostra mente, fatta
delle nostre illusioni, utili e necessarie per la nostra sopravvivenza.
Una piccola perla dolce e delicata, con un melodia fiabesca. Dice De
Gregori: "è una canzone sulla fragilità. Sul fatto che costruiamo
sempre qualcosa che è destinato a crollare. Non è pessimismo, è
disincanto". Dice anche che ultimamente sta ascoltando quasi
esclusivamente musica classica. E si sente: un gioco di timbri studiato
e raffinato, archi lievi diretti da Guglielminetti che fanno brillare il
tutto. Quant'è bello il cambio melodico nel verso "e ci pianto
quattro rose / e ad ognuna do il tuo nome" o nel simmetrico "e
ci metto la scommessa / che ti voglio amare sempre"?
4.
L'angelo L'unico calypso (nel senso della danza) del disco, cantato
insieme a Luci Campety. Musicalmente non molto convincente, a dirla
tutta. Ma che idea geniale: il protagonista è l'angelo della morte, ma
non è minaccioso. Anzi. Danzando sul ritmo caraibico, arriva con
assolute buone intenzioni, "e dice sono venuto a sciogliere / e non
a spezzare", "sono venuto a prendere / e non a rubare".
Perché la morte, sembra strano, fa parte della vita. Sarei portato a
pensare che prima di scriverla, De Gregori ha letto l'ultimo romanzo di
Saramago - "Le intermittenze della morte" -, se non sapessi
che è uscito mentre lui registrava.
5.
In onda Rivive il mito di Ulisse, che si butta in onda, nel senso del
mare, ma anche nel senso che è in gioco, visibile a tutti. Forse. Perché
nemmeno l'autore sa bene di cosa parli questa canzone alienata, fatta di
atmosfere quasi futuristici, un ritmo che lentamente scorre e un
arrangiamento estraniante. Come se fosse tutto un sogno, fatto di
silenzi e forti immagini della natura (fra strada, pioggia, vento,
porte, luce, tappeti, vestiti e colori). Il cantato arriva a degli acuti
rischiosissimi, e si sperimenta irrefrenabilmente.
6. Mayday Uno dei vertici dell'album. Pur ringraziando tutta l'infleunza
dei Dire Straits, questo rock cupo e travolgente è un centro pieno. A
partire dalla sezione ritmica perfetta, passando per gli stupendi assoli
della chitarra elettrica Fender Telecaster 55 di Paolo Giovenchi e i
cori finali di Elsa Baldini, Claudia Bertè e Moira De Santi. Fino a
finire in questo testo straordinario, che si rivolge ad un Ulisse
qualunque che, per salvarsi la vita, deve mettere fine ad una storia
d'amore logorante, "lasciare la vecchia strada",
"rischiare di più", "comprare un vestito nuovo",
"non aver paura di dimenticare". "Mayday", come la
richiesta di aiuto del Titanic ed infatti la canzone si conclude così:
"per salvarti la vita / non ci stare a pensare / chiudi bene la
porta alle spalle / e butta la chiave / guarda dritto negli occhi /
l'amore che stai per lasciare / e abbandona la scena / abbandona la
nave". Piccola nota: viste e considerate le sonorità distorte del
pezzo, sembra essere interscambiabile con Passato remoto, contenuto nel
precedente "Pezzi".
7.
Per le strade di Roma Anello debole del disco. Testo privo di retorica,
senza dubbio, dove è rappresentata la Roma del popolo e quella della
dolce vita, quella delle campane e quella di ragazzi che "sognano
di fare il politico o l'attore", quella di "donne da
guardare" e quella di "zoccole in via Frattina". Ha anche
un suggestivo minimoog nella coda finale, ed è una novità per De
Gregori. Però pare scritta a tavolino e non spicca mai il volo. Senza
contare la partenza identica (musicalmente) a In onda.
8.
L'amore comunque Degregoriana fino all'osso, un'elegia ad una
"regina del tempo, della sabbia e del vetro", carica di
immagini d'impatto. Un ritornello rimato ed orecchiabile, cantato a due
voci (entrambe registrate da De Gregori stesso). Piccola considerazione
sull'amore, e anche difesa a suo modo. "Che tu ne faccia meraviglia
/ o spettacolo banale / lacrime a rendere / o scherzo di
carnevale"...l'amore, comunque, c'è sempre.
9.
Tre stelle Finale azzeccato più che mai: tre stelle, come quelle di un
motel. "E' un inno agli amori tra Minnie e Topolino. Alla fine,
abbiamo scherzato, l'amore ci può essere anche in un motel, vicino
all'autostrada", dichiara De Gregori. Come in Stella della strada,
pure incentrata su una prostituta, anche qui ci sono le stelle e il
country. Un divertissment significativo, con un pianoforte spensierato
ed un allegro clarinetto (è dai tempi de Il cuoco di Salò che non si
sentiva nei suoi dischi uno strumento a fiato che non fosse l'armonica a
bocca). Dopo otto canzoni di un certo spessore, ci voleva. In fondo,
parafrasando Guccini, l'amore e la morte non sono altro che due delle
tante sciocchezze della vita.
Vortici
- di Max Klingher (ricorda qualcosa?)
Niente,
nemmeno un dente. . ..
(lettera
a Calypso) (Mimmo Rapisarda)
Cara
Calypso,
spero che queste parole di conforto possano raggiungerti, ovunque tu
sia.
Chi ti scrive è uno stupido mortale che in queste giorni non ha fatto
altro che pensare a te, ascoltare te, anelare te. Riempirsi le orecchie
di te.
Sento il bisogno di consolarti, triste musa innamorata di colui che hai
trattenuto, che per te era il figlio, il padre, lo sposo, l'amico e il
signore della tua isola, e che adesso è partito lasciandoti sola. Lo
so, lo so che vuoi dirmi, che due buoni compagni di viaggio non
dovrebbero lasciarsi mai, che dovrebbero essere per sempre due marinai.
Ma fatti coraggio, il tuo cuore malato lo ricorda ancora mentre
passeggiava solitario sulla spiaggia ogni mattina, a raccoglier
conghiglie dopo la mareggiata, piangendo sullo scoglio guardando il
mare.
Dal ritorno della guerra di Elena, tempo fa è stato nella terra dei
Ciclopi e un giorno qualcuno gli chiese come mai la prima strofa che
parla di un uomo con la gamba di legno e che sognava Atene era tronca,
si interrompeva. Lui rispose che era stata scritta così perché a
quell’uomo mancava una gamba e inciampava ad ogni spigolo, e quindi
anche sulle parole di una canzone. Gli dissero che era una trovata
geniale, arguta, astuta come quel nome Outis, Nessuno, che utilizzò
quando con vigore s’intrattenne nelle caverne dei giganti che fecero a
Pezzi i suoi compagni, sfiancati da pietre agitate e rotolanti, fino a
quando un giorno disse “Alice non abita più qui”. Era giunta
l’ora di tornare a casa, l’Odisseo sentiva il bisogno di navigare
nei suoi mari, di ritornare ad Itaca. E così in breve tempo, viaggiando
all’incontrario con la follia del capitano Smith, è approdato sfinito
sul bagnasciuga della tua ammaliante tunica.
Non in sette anni ma in sette settimane stavolta l’hai amato e non ti
è bastato promettergli l’immortalità per tenerlo stretto al tuo
seno, suo confortevole guanciale di notte e muro del suo pianto al
mattino. Non è bastato. A malincuore e con esperienza teatrale (ma
anche nostra fortuna), tuo malgrado hai dovuto spingerlo a partire,
aiutarlo addirittura a costruirsi un’imbarcazione in soli cinque
giorni, o comunque in brevissimo tempo. Così il tuo amante è salpato
su una zattera, una semplicissima zattera bianca sulla quale ha scritto,
di suo pugno, soltanto il tuo nome: “Calypsos”, con quella s finale
per sottolineare la pluralità di tutte le volte che ti ha amata in
queste settimane. Nove volte, e che prima di partire ti ha ricordato
come se fossero lettere d’amore.
Nella prima te lo dichiara subito quello che provava per te. E te lo
dice mentre è già in mezzo al mare, te lo dice adesso, ti chiama
Regina del tempo, della sabbia e del vetro. Te lo dichiara ora, a
priori, il suo AMORE COMUNQUE senza commenti, che tiene svegli per ore a
tutti i costi con un pizzico di godimento fra lacrime che bagnano le
lenzuola. E’ come uno spietato desiderio nel buio che non puoi o non
vuoi rifiutare. Più stai male e più ti piace; anche se piangi, anche
se gioisci è amore in ogni caso. Cinismo, masochismo malinconia e
orgoglio si prendono tutti per mano e vagano nella notte alla ricerca di
un cuore lontano, soffrendo, nascosti dal manto notturno. Lui lo sa che
stai leggendo e le onde alte venti metri non gli faranno mai paura in
quel mare da attraversare, e non sarà il canto delle sirene a farlo
fermare, non si farà portar via dal vento, non si farà mangiare dal
mare, lui è figlio di un marinaio. E’ un tenero canto di passione,
una dichiarazione d’amore e di addio come quelle che solo lui sa fare.
Per vincere questa paura canticchia una cantilena simile a “Quindici
uomini sulla cassa del morto” in cerca dell’isola del tesoro di
Morgan, un suono che sa tanto di Terra e acqua e Carne di pappagallo,
una nenia per esorcizzare l’arrivo dell’angelo della morte che
sarebbe potuto arrivare da un momento all’altro. Ma lui accetta questo
avvento come una cosa naturale, che fa parte anch’essa del viaggio e
quindi, tranquillo e seduto su quella sorta di timone a poppa, la canta
quasi sottovoce per non farsi sentire, con ritmi sudamericani che gli
ricordano il primo disco che ascoltò nella sua vita: Calypsos di Harry
Belafonte. Per fortuna, al suo arrivo L’ANGELO gli offre da bere, gli
fa segno di tacere e, come la guardia costiera, gli fa il segno di
passare.
E così lui passa, e va IN ONDA. Senza le rotte prestabilite dalla vita,
issa la vela e va incontro a quell’immenso sipario blu che gli si
presenta davanti: blu, solo blu, come le note che canta, che ti prendono
e ti trasportano in una ipnosi musicale surreale. Nemmeno un gabbiano
che ti possa dare l’indicazione di una terra vicina, nemmeno un
ritornello diverso che ti distolga da quella piatta magia impregnata di
archi. Tutto è forte e chiaro, il cielo è un gigante, la luce è
immensa. Mentre sogna l’approdo alla serenità di una patria che non
riesce a trovare, piove e soffia il vento sulla zattera che affonda e la
tempesta passa sul suo viso. Aspettando che qualcuno gli risponda lancia
il suo MAYDAY per salvarsi la vita, per uscire da là. Ma senza timore,
perché sa che per salvarsi la vita deve rischiare ancora di più, senza
paura di sbagliare la rotta e con istinto quasi animalesco andare
avanti, incontro ai cambiamenti che l'esistenza impone. Un gran
bel pezzo, pesante e nello stesso tempo gradevole, alla Chi ruba nei
supermercati o alla Penthatlon, con certi passi che ricordano le colonne
sonore dei film spaghetti western, veloce da cantare, divertentissimo da
suonare, molto melodico e che riecheggia in qualche modo gli
assoli di Mark Knopfler.
Ha voglia di casa Odisseo, di camminare per vicoli che conosce, PER LE
STRADE DI ROMA, in mezzo alla sua città, ma un’altra Roma che non ha
niente a che vedere con le stornellate di Lando Fiorini in Trastevere o
col Cupolone dei souvenirs raffiguranti il Papa. Rispecchia esattamente
quello che oggi Roma è: strade di orientali, centinaia di milioni di
zoccole e topi in via Frattina, lucciole sulla Salaria, Turchi
all’Argentina, Villa Borghese. Un pò la Roma dell’omonimo film di
Fellini. Ma lui l’ama lo stesso in questo strano rapporto, come quando
dichiarò che in Piazza di Siena, un po’ di tempo fa, era fin troppo
orgoglioso di essere lì a cantare nello stesso luogo in cui fu
trasportato in carrozzina da bambino, come tanti bimbi romani. Gli
stessi bambini che una volta sognavano di essere, da grandi, Chinaglia o
Falcao e che in questo presente senza stupore sognano di fare l’attore
o il politico. (potenza dei mezzi di informazione e della colla sulle
poltrone!).
Ma
soprattutto desidera di costruirsi LA CASA virtuale, comunque una sua
casa, una tana, dove ci possa passare anche il suo Argo quando sente i
temporali, una casa senza tetto e pavimento con sole quattro rose
disperate che ricordano te. Con la scommessa che ti vuole amare sempre,
anche se la padrona di casa sarà un’altra. E la sogna la sua casa,
sogna la sua porta aperta, la sua luce accesa. Una casa confortevole
come gli hotel a TRE STELLE, a conduzione quasi familiare, meno superbi
e formali dei cinque stelle, simili a quei motels americani che si
incontrano dalle parti del Colorado per passarci la notte con la
Cadillac parcheggiata fuori, davanti alla finestra. E l’atmosfera che
si percepisce in questi motel è la stessa del ritmo incalzante,
avvolgente, anzi coinvolgente, di quello che ti sta dicendo. Un
motivetto come quello che si canta con allegria sotto la doccia di
questi bagni in camera, con bustine di bagnoschiuma vecchie di quattro
anni e l’acqua calda che non vuole proprio arrivare. Stavolta usa
passi nuovi, fuori dai canoni della canzone d’autore, il classico 4/4.
E qui ha dato una svolta alla sua carriera musicale. Lo puoi proprio
sentire al meglio quando ti racconta de LA LINEA DELLA VITA, in cui è
presente qualcosa che non ha niente a che vedere con lui. E’ tutta una
vita che passa da qua con questo andamento, magari è stata soltanto una
questione di motivi tecnici, ma il tempo che questa volta usa per
salutarti sono delle stupende terzine blues appartenute a allo slow di
Elvis, a un certo rock anni '60 dei Cascades e dei Platters e a ritmi
suonati da enormi Gibson luccicanti sotto le capannine di una rotonda
sul mare all’ombra di neons blu, gialli, verdi, viola. Una ballata
scritta con accordi che potrebbero indurre ad un semplice giro armonico,
uno di quelli che si usava ai tempi di Little Tony, ma che in realtà è
composta da una struttura musicale complessa. Stupenda, forse la
migliore canzone di tutta l’opera.
Calyspo, figlia di Zeus, tu che sei la donna single dell’antichità,
tu che rappresenti lo stereotipo dell’amante ideale, la donna
libertina che fa l’amore senza sensi di colpa, tu che non sei certo un
angelo del focolare come Penelope, tu che sei la regina di un’isola
piena di prati fioriti simbolo dell'amore irregolare, tu che invece di
farti corteggiare prendi l'iniziativa… ma lo sai che quando le donne
amano con passione come te rischiano di diventare soffocanti? E arrivati
a questo gli uomini scappano. Come Ulisse. Infatti, chiude bene la porta
alle spalle e butta la chiave, guarda dritto negli occhi l'amore che sta
per lasciare e abbandona la scena. E per non perdersi ancora una volta,
il mascalzone ti ha pure chiesto una bussola da portare con sè, ti ha
chiesto pure di spiegargli come si usa.
Lascialo andare, possente ninfa. Gli uomini scappano tutti, come lui,
perché in ognuno di noi uomini c’è un Ulisse dentro l’anima, in
ognuno di noi c’è un Rex che sogniamo di vedere apparire
all’orizzonte per fuggire dal porto che vogliamo lasciare o tornare
nel porto che avevamo lasciato. Non so perché, ma noi uomini siamo
stati sempre affascinati dai moli, dalle navi, da quei simboli di fuga,
per cercare qualcosa migliore di quella che stiamo per abbandonare. Ma
imbecilli a tal punto da non accorgerci che, spesso, la meta del nostro
viaggio è proprio all’imbarcadèro, al primo piolo della scaletta
d’imbarco.
Però prima di partire ha percepito qualcosa di strano in quel tuo
invito a salpare. Convinto com’era di essere invischiato in un tuo
ulteriore tranello, ti ha detto “Sto partendo, ti abbandono…
Guardami, perchè non parli? Sto per andare via, sbrigati, prima che sia
troppo tardi!. Se non rispondi, allora odiami! Almeno so che in questo
momento provi qualcosa".
Agendo in questo modo contraddittorio gli hai offerto la tua ultima
carta, il tuo ultimo prezioso tentativo di stupirlo ma, furbo com’è,
non c’è cascato. E vinta, chiamandolo Alitros (furfante), gli hai
detto “Amore mio, grazie per avermi fatto sentire un essere umano. Per
avermi fatto provare ancora amore. E dolore”; poi gli hai accarezzato
la mano, facendogli notare che in quelle pieghe c’è una linea che
gira e che sottintende la vita. Lui ti ha risposto serio “Questa retta
finita è mia, è un’acqua che corre veloce in salita, è la stessa
acqua corrente di un po’ di tempo fa. Ma ora si è fermata qua”.
“Vattene, vattene adesso. Non ti voltare, non c'è nessuno da
salutare“.
Per questo ti ringrazio o Dea, per averlo fatto partire, per non averlo
trattenuto e lasciato esclusivamente per te. Capisco il tuo dolore, ma
ti sono grato per aver profuso in lui tutta quella voglia d’amore che
ancor oggi gli fa scrivere versi come un ventenne innamorato, che sputa
fuori senza vergogna ai quattro punti cardinali dai margini di quella
barba, bianca di anni e di sale ma che di fronte ai Proci ridiventa
giovanissima, di colore rosso e nel suo pieno splendore. Lui che
potrebbe campare di rendita, adagiato nel talamo coniugale, invece ha
ancora voglia di ripartire, di rimettersi in gioco, di cercare nuove
strade per ritrovare sempre se stesso: quel Principe Itachese che noi
tutti conosciamo. Perché i Geni non hanno bisogno di evolversi, di
aggiornarsi, di stare al passo coi tempi; perché il genio è sempre
attuale, qualunque cosa crei, qualunque cosa tocchi. Se fossero ancora
in vita, i Geni avrebbero riscritto Il vecchio e il mare senza toccare
una virgola, avrebbero rigirato Amarcord senza tagliargli un fotogramma,
avrebbero riscolpito il David senza nessun altro colpo di scalpello. Ti
sembrerò un nostalgico, uno di quelli che lui non sopporta, ma è così.
Volente o nolente – e l’ultima lettera ne è un esempio - il suo
cuore sanguina ancora di nascosto e all’insaputa di tutti, sovente
pizzica i tasti più armoniosi del suo pianoforte con ritmi caldi e
modulati, con melodie a lui, a noi, familiari. Anche se ogni tanto va a
fare il diavolo a quattro con Aiace e Achille suonando sotto le mura di
Troia, lo ritrovo sempre ricoverato al reparto CARDIOLOGIA di un
ospedale da campo pieno di belle infermiere da farci l’amore e che lo
conoscono bene perché è un inguaribile paziente affetto da una grave
malattia cardiaca: compra ancora dozzina di rose e osserva la curvatura
dei pianeti più incantato dell’innamorato di Peynet. Proprio come una
volta. E come una volta dice ancora Ti amo, ma stavolta son passati più
di quattro giorni da quando fu lasciato ferito da pezzi di vetro. Ma lo
dice ancora, per fortuna.
Il suo cuore è perennemente morsicato come il tuo, Calypso. Te l’ha
mangiato Odisseo prima di partire lasciandoti come ricordo queste
struggenti lettere d’amore. Ma di nuovo non gli torna il conto, come
sempre gli ha lasciato sopra quel dente che, distratto com’è, non
ritrova mai e che lascia in ogni alcova. Per caso non l’hai mica
ritrovato a Ogigia, quando ti ha morso il cuore l’ultima notte?
Chi sei, donna che chiamano Calypso? Il tuo nome vuol dire occultatrice,
e forse nascosta era l’ispirazione che ancora regnava padrona in lui e
che indissolubilmente non si era ancora esaurita. Nascosto era il suo
amore per una missione che lo ha spinto a navigare controcorrente,
contro ogni logica commerciale, contro ogni forma di ambizione, senza
altri scopi. Ma soltanto per amore tuo, e questo doveva saperlo il mondo
intero, subito. Forse sei davvero tu quell’acqua che canta e lui
quell’acqua per te. In qualunque porto, sarai sempre al fianco di
quello zingaro errante che su una zattera bianca va ancora alla deriva,
ancora canta e che non saluta quando se ne va.
Donna, tu sei l’arte. Ecco chi sei.
Ti saluto gentile e innafferabile Calypso, padrona e schiava di questa
verità che ti ho appena rivelato. So già che quel dente conficcato sul
tuo cuore lo conserverai per sempre nella tua isola perché, bellissima
ninfa, lo sai ….. l’hai constatato a tue spese……… dell’amore
non si butta niente, ma proprio niente.
Con
affetto e riconoscenza,
Mimmo
Rapisarda.
Calypsos
- 9 canzoni nuove (Lorenzo Iovino)
Non
ci aspettavamo questo disco, e forse non se l’aspettava nemmeno De
Gregori. Quando un artista decide di incidere vuol dire che le idee ci
sono e sono abbastanza. I maligni diranno che De Gregori è stato
costretto dalle basse vendite, o che Pezzi era talmente brutto da dover
rimediare al più presto. Non ci pare.
E’
un disco sui viaggi del cuore, d i cui Calipso è il simbolo, ma anche
sulla nostàlghia. È un album variopinto e vitale, confezionato come un
Bianco di Battisti,sottotitolato strizzando l’occhio a Cohen, poco
pubblicizzato e molto sentito. Torna la parola amore in ogni canzone,
perché di questo parla Calypsos. C’è una evoluzione musicale che
potrebbe generare negli anni a venire delle sonorità ancora non
provate. Ci sono testi semplici e intensi.
C’è
anche qualche pecca ( troppo cane, troppo pane, troppo vino), così come
alcune scelte di missaggio; ma il risultato comunque egregio. Possiamo
augurarci che De Gregori continui a fare dischi come questo. Per ora gli
facciamo i più sinceri complimenti.
Cardiologia:
Inizia con tre accordi di pianoforte in fila, i più semplici del mondo,
rafforzati da un intenso contrabbasso elettrico. Una canzone
sull’amore, o un discorso, una scienza che di questo si dovrebbe
occupare. De Gregori compone probabilmente testo e musica insieme al
pianoforte. Il risultato è una delle più belle canzoni d’amore mai
scritte, pervasa da dolcezza malinconica, accompagnata vocalmente nei
registri più bassi ( con un inaspettato “ti amo”), suonata bene,
tanto scarna nell’esecuzione e sobria nel cantato quanto è invece
ardito il giro armonico. Infatti c’è una ricchezza compositiva
melodica ed armonica quasi senza precedenti ( solo le canzoni di Bufalo
Bill hanno simili intrecci). Il cantato ha una linea affatto facile, ma
la voce “nuova” di De Gregori raggiunge una vetta interpretativa.
Il
testo ha il taglio dell’impersonale, con i “Che” all’inizio di
ogni verso, e si muove tra immagini belle, dure e forti ( su tutte : “
e macina la sabbia tra i mulini a vento, e che non ha mai fretta e che
non ha mai tempo”), concludendo che “dell’amore non si butta
niente”. Il finale ricorda la melodia di Vecchia Valigia, così come
“e fa curvare i pianeti” è ripreso da Dylan. Ma da ora in poi
smetteremo di contare Dylan come fonte.
Per
ora, nonostante i passaggi in radio, passa ancora sotto silenzio. Una
canzone sorprendente.
La
linea della vita: Un tempo retrò, “alla Fred Bongusto”, un clima
leggero ed un testo molto meno scontato di quanto non possa sembrare, su
corsi e ricorsi, gli abbandoni e gli incontri, il tempo che cambia, le
persone che si lasciano e si rincontrano. Un punto di vista diverso
rispetto a Cardiologia: un testo ben tessuto e a tempo con la musica. La
quasi citazione di Dylan ( ok, non ce la faccio a mantenere le promesse)
nel terzo verso ( “magari è questione di troppa sensibilità”)
assume un senso evidente se si considera il tema centrale: l’amore che
si consuma, la perdita dei contatti, l’improvviso ritorno delle
persone ed il rischio di non riconoscersi o non salutarsi più , dopo
anni, quando l’amore si dimentica e magari si ricordano i baci. Come
in Non dirle che non è così, o quasi.
La
linea della vita, che sta nella mano (e nelle mani), è “una retta
finita”, dove non c’è bussola per orientarsi. La musica è efficace
e garbata, con cori femminili in evidenza ( stavolta c’entra Cohen).
L’effetto
è gradevole e a tratti emozionante.
La
casa: Una canzone d’amore che pesca metafore dai vangeli ( rose,
evangelisti), dalla musica popolare ( la struttura delle strofe,
l’idea stessa della metafora complessiva per parlare d’amore), dalla
canzone d’autore di Endrigo-Rodari . Una musica ed un arrangiamento da
ninna nanna, con archi ben utilizzati, pianoforte ( lo strumento che fa
davvero il suono di questo disco), chitarre e quant’altro. Quasi una
Piccola mela trent’anni dopo. Con la promessa “che ti voglio amare
sempre” invece di “forse un giorno faremo l’amore”. E’ un bel
passo avanti.
L’angelo:
Una canzone che ci potevamo aspettare in qualsiasi momento della
carriera di De Gregori. Un tempo ritmato ( nemmeno troppo, a dire la
verità) ed un testo basato sulla ripetizione. Cantata tutta in
controcanto, alla voce femminile avremmo preferito una voce doppiata.
Sembra
venire fuori da un gioco di bambini, o da un modo di dire ( è usanza,
per dissuadere i bambini dal fare smorfie, dir loro che “passa
l’angelo” e c’è il rischio di rimanere in quella espressione per
sempre). Invece parla di morte (“ e finisce il bicchiere”), del suo
avvicinarsi, della paura che serpeggia tra le persone e che nessuno può
notare. È una morte che consola, che scioglie e non lega. La vera pecca
qui è nell’interpretazione, troppo piatta.
In
onda: L’episodio più complesso del disco. Intima, ermetica, si
sarebbe detto una volta, non tanto per i versi, tutto sommato facili, ma
per il senso generale, inevitabilmente criptico. Una canzone scritta di
getto, ad inseguire un’ispirazione. Sembra un altro discorso sulla
vita, con toni sereni nella tempesta, echi di Vento dal nulla. Se Pezzi
trasmetteva un’ansia ed un tormento, questo disco e questa canzone
parlano di una certa serenità nel vivere. Il contrabbasso e le tastiere
fanno un tappeto sonoro eccellente, che consente alla chitarra elettrica
di emergere negli arpeggi e nell’assolo. La cosa più interessante è
l’uso della batteria: fa il lavoro di una batteria campionata, con
colpi in controtempo da musica house( una bella novità ). La melodia è
centrata, mai ripetitiva, e ricorda alcune canzoni di Zucchero ( se la
cantasse lui sarebbe commerciabile come il pane, per usare una metafora
poco usata nel disco…) e l’interpretazione è al meglio, senza
strascichi, con tanto di via personale agli acuti. Uno dei punti più
alti del disco. E della produzione degli ultimi anni.
Mayday:
Tosta e gagliarda, con cambi d’accordo tra minori e maggiori. Se tutto
Pezzi avesse avuto questo sound sarebbe stato ancora più affilato.
Tutto è più spontaneo e allo stesso tempo ricercato. Le basi di questo
aggiornamento sono da rintracciare nel lungo tour che si è concluso
mentre iniziavano le registrazioni del nuovo disco. Una
basso-chitarra-batteria con Hammond insistente, fills a far prendere
fiato, pause ed accelerazioni. Il messaggio disperato, il mayday, è però
troppo generico ed appare alla fine ingiustificato. È tutto sommato un
gran bel divertimento, col suono che arriva dritto dritto dai Dire
Straits e da un signore di Duluth e con (più di) qualche analogia con
Pentathlon.
Per
le strade di Roma: Tastiere, chitarre strappate, batteria a gonfiare
l’atmosfera e far montare la polvere. Uno sguardo empatico al
passaggio del tempo presente sulla città eterna, tra le strade, sulle
persone. Un quadro sui nuovi ed i vecchi abitanti, sugli odori
appiccicosi del cibo e della città stessa, sui vizi dei nuovi ricchi
(“gente che se la tira”, “ e un certo modo di non sembrare”),
sui giovani con le idee confuse. In un verso De Gregori si autocita, ma
la frase, contestualizzata è polemica, ed i topi non sono animali ( “
e uomini ed animali cambiano zona: lucciole sulla Salaria, zoccole in
Via Frattina”).Ed il futuro passa e non perdona, e gira come un ladro
per le strade di Roma.
Una
bella canzone, che trasferisce in musica le nebbie e le suggestioni,
come il giro in vespa di Nanni Moretti, ma con un pizzico di polemica.
Non è affatto una canzone dolce, né una dichiarazione diretta
d’amore alla propria città ( tipo “Quanto sei bella Roma quanno
piove…”).
È
uno sguardo su molte cose che non vanno, spesso privo di commento, e
sulla invincibile bellezza della capitale, che riesce a fare poesia di
terrazzi e case occupate, che soffre lo smog e la calca e diventa così
ancora più epica, che affianca i semafori alle colonne. È forse la
prima canzone “metropolitana” italiana, che non si rifugia nella
retorica ( e questo ce lo potevamo immaginare) e non cerca cartoline, ma
vede gli angoli umani e sofferti della città. Questo la rende
commovente.
La
musica è azzeccatissima, con uso di distorsioni di chitarra inaudite in
De Gregori, e con un intermezzo di minimoog che mette i brividi. La
melodia è un lungo “ e chiedimi perdono per come sono”, ma se la
cava benone. Unico appunto: nell’ultima strofa la batteria avrebbe
dovuto fermarsi e riprendere nella coda. Avrebbe dilatato i tempi e
acuito la forza dei versi. Ma poco importa. Necessiterebbe un videoclip
ad arte,
L’amore
comunque: Mah. Sembra un eccesso di versi da Cardiologia a cui De
Gregori ha cambiato la musica ed aggiunto un inciso, peraltro contorto e
con accordi minori gratuiti; in altre situazioni del disco è
un’operazione ben riuscita. Qui no. De Gregori cerca azzardate
metafore matematiche, parla di neve di ferragosto, sabbia e vetro ( ma
anche questa l’abbiamo già sentita) e di un amore acerbo che non fa
dormire. Poteva sfruttare meglio proprio questo spunto.
L’arrangiamento
è sciatto, il cantato idem. Poteva salvarsi se la batteria avesse
trascinato la canzone dalla fine dell’inciso. Di certo l’episodio
meno riuscito dell’album.
Tre
stelle: Fresca, vitale e ironica, parla di un albergo di quelli che un
artista frequenta spesso in tour. Un invito ad una donna, che suona
beffardamente come una brochure d’agenzia. Indimenticabile la vista
sulla statale, il giardino profumato, le cameriere belle che puliscono
la stanza, mettono le lenzuola pulite, e già questo basterebbe, e
lasciano caramelle. C’è un che d’amore disperato alla Paolo Conte,
tutta la forza di un testo di De Gregori, bravissimo a non essere
serioso, e spunti melodici e testuali che sembrano arrivare dalle
freschezze giovanili di Viva l’Italia e Titanic. I cori femminili e
l’alzata di tonalità finale trasmettono una allegria da fine disco
alla Trio Melody. Tanto pianoforte, quasi alla Dalla, clarino ( ma
quanti strumenti suona Arianti?) ed un sound beatlesiano riscoperto
forse grazie allo stimato Cremonini. C’è poco da sogghignare o
indignarsi. È un’ottimo pezzo.
Una
volta per fare una canzone ce ne volevano Centocinquanta, di stelle, ora
ne bastano tre. De Gregori ha imparato la parsimonia, in questo ed
altro. Evviva
Due
settimane dopo (Salvo Cascone)
A
me piacciono le dispute che si scatenano subito dopo l'uscita di un
disco di FDG. Nonostante siano più o meno uguali nei loro tratti
salienti, scatenano in me un'avidità che mi riconosco in pochissimi
altri piacevoli trastulli che la vita ci offre.
Di
conseguenza, quindi, leggo con interesse pareri, sentenze,
recensioni,critiche, cronache e tutto ciò che mi può fornire spunti di
rilessione interessanti.
Con
una bella bottiglia di grappa friulana accanto, leggo in continuazione,
leggo leggo e rifletto, rifletto e rileggo....
Fatta
questa indispensabile premessa, mi cimento anch'io nella redazione di
una nota critica a Calypsos prendendo spunto innanzitutto da quello che
penso io ma attingendo, soprattutto, alla vastissima produzione di
parole prodotte in ogni dove nel web a seguito di codesta uscita
discografica.
Dico
subito che questo è un disco, secondo il mio modestissimo parere, fuori
da qualsiasi schematizzazione gli si voglia attribuire. E' un disco
fuori dal tempo, fuori dalla logica di mercato, fuori dalle aspettative
che i più avevano, fuori dalla perfezione tecnologica. E', insomma, un
DISCO FUORI....! Essendo un DISCO FUORI, quindi, è un disco fortemente
degregoriano, con buona pace di chi deve necessariamente andare a
trovare il pelo nell'uovo dell'artista.
Calypsos
non è un disco di IMPATTO. No! Calypsos è una disco di nicchia, un
disco da caminetto, luci basse, liquore forte, partner e rilassamento.
Calypsos è un disco fatto di atmosfere, un disco che crea l'atmosfera.
Calypsos è un disco che deve essere ascoltato, riascoltato e che infine
svela. Calypsos è un disco che io non ho apprezzato subito ma che piano
piano mi sta facendo tornare sui miei passi.
Cos'è
quest'eterna ricerca del CAPOLAVORO?
Anzi
Vi chiedo, cos'è un CAPOLAVORO?
Anche
alla Pausini attribuiscono capolavori!
Felicità
è il capolavoro di Albano, lo sapevate?
Quindi?
Di cosa stiamo parlando?
Ho
letto spesso che Calypsos è un disco poco ispirato, addirittura per
nulla ispirato. Ho letto che Francesco è ormai alla frutta, che è
afflitto da senilità intellettiva, da bulimia "pubblicatoria",
da narcisismo musicale, da conto in banca scoperto. Ho letto di tutto,
insomma. Ma non ho letto mai cose semplici, del tipo; ho ascoltato per
bene Calypsos e non mi piace. Mai.
Le
motivazioni sono sempre esagerate, come potete notare.
Un
artista è innanzitutto un uomo, uno che compie azioni che vanno ad
interagire con altre azioni compiute da altri uomini. Stop. Se ha fatto
una cosa che non gradiamo non c'è bisogno di andare a scomodare chissà
che cosa. Non piace e basta. Punto.
Ritorno
a Calypsos. Tratti salienti.
Amore,
in tutte le sue sfaccettature.
Cori
femminili.
Uso
del basso.
Strumenti
antichi.
Atmosfere
lente ma non cupe.
Qualcuno
ha scritto VINTAGE. Condivido in pieno il senso (non il termine) ed è
quello che secondo me l'artista ha voluto appositamente creare. Noto un
rimpianto per i tempi che furono, il minimoog e le pomiciate sui divani
delle prime discoteche, ricordate? I coretti spensierati delle canzoni
anni '70 ed i the danzanti. Ricordate?
Da
contrapporre alla ACID MUSIC ed al frastuono tecnologico delle
discoteche moderne.
Francesco
ha fatto di nuovo un qualcosa che va al di là della semplice canzone.
Ha lanciato un "messaggio". Sta dicendo a tutti noi di
abbassare i toni, di riflettere, di capire le cose a fondo. Ce lo dice
nella linea della vita di ognuno di noi che così non si può
continuare. Facciamo finta di non conoscerci più, ci dimentichiamo
sempre delle cose più importanti.
Francesco,
ancora una volta, mi ha sorpreso. Si è vero, il disco ha sicuramente
alcune pecche, ma l'idea di fondo che esce fuori da un disco come
Calypsos fa dello stesso uno dei dischi più importanti della sua
produzione.
Non
voglio descrivere le singole canzoni, non mi interessa farlo e credo non
ne sarei nemmeno capace. Altri lo fanno meglio di me. Voglio solo
descrivere le sensazioni che tutte le canzoni che compongono il disco
creano in me. Voglio solo ribadire la grandezza dell'artista e la sua
capacità di pubblicare, in un periodo di urla e pochezza culturale, un
disco che ci dice a tutti quanti di partire da NOI, dall'amore e dalle
cose semplici.
Chi
si aspettava da Francesco invettive contro avversari e sistemi politici,
ha certamente dovuto ricredersi.
Ma
Francesco ha fatto di più.
Ha
detto a tutti noi che la serenità è dentro ognuno di noi. Basta
saperla svelare. Come? Ascoltandola!!
Saluti
In
onda e le altre. Interrogarsi sul perchè della morte. Aspettare
risposte che non arrivano, provare a darle e non riuscirci. Ripenso al
De Gregori de "L'Agnello" che si rivolge a Dio, chiede un
aiuto per poter avere la fede, tristemente consapevole di non
possederla. A catena, questo mi porta a riascoltare i versi di Ti leggo
nel pensiero e cosa ri-trovo? Un uomo che parla ostinatamente con questa
entità che lo trascende -benchè affermi di non credervi- e chiede
aiuto. Tanti dubbi ma niente risposte. E' meravigliosa questa
ostinazione del De Gre, ma soprattutto il modo in cui si è trasformata.
In onda ne è la prova. Un invito ad accettare serenamente la nostra
finitudine, l'imperscrutabilità della morte, ma soprattutto la sua
imprevedibilità. E' un uomo saggio e sereno quello che parla anzi
-canta- meravigliosamente questi versi. E lo fa nella maniera più
struggente che esista.
"..che
si trasforma in colore per la notte che resta.. e il viola diventa rosa
e illumina la tua finestra.." Quale modo più poetico di descrivere
un'alba ?
Ecco
cosa di 'vecchio' e già sentito ho trovato in quest'ultimo lavoro di
Francesco:l'immutata poeticità del suo parlare, l'assenza di banalità
e l'inesauribile profondità dei suoi testi.
Calypsos
non è altro che la Fenomenologia dell'Amore. L'amore che si
personifica, guarda silenziosamente e in disparte i due amanti e... non
fa commenti.
Ora
è la passione che tutto travolge, cui non si può resistere..
"..il desiderio spietato che non si può rifiutare..", ora è
il suo divenire Sentimento "vero", intriso ANCHE d'affetto. La
casa è questo, il dolce racconto della 'costruzione' del nido, fatta
pensando che sarà per sempre, nonostante i momenti 'no' che ogni Storia
prima o poi dovrà conoscere. Rose intrecciate a spine dolorose ne sono
il simbolo.
Non
credo che basti ascoltare e leggere i testi delle canzoni per
comprenderne il significato più recondito.
E'
invece la calda modulazione della sua voce ad imprimere indelebilmente
il SENSO alle sue parole. Parole 'pregnanti' che sempre ritornano.. come
i 'Kani' bianchi (fantasmi del passato ??) ai quali non possiamo
sfuggire.. e che dire allora del bisogno di una Bussola per non
soccombere? Per non farci travolgere dalla vita? E' un invito ad esser
Attori Protagonisti della nostra esistenza. A non subire passivamente
gli eventi, prendendoli di petto.
Non
credo che Francesco abbia avuto 'fretta' di inciderlo (perchè mai
avrebbe dovuto averne??), ritengo che la forma e i suoni di Calypsos
siano voluti dall'autore. Così come l'apparente noncuranza nel
realizzarlo. Non è una novità che il Nostro non ami particolarmente l'
"impacchettamento" di un disco. L'Imperfezione è il segno
dell'opera d'arte. E' DOVEROSO che travalichi le regole, i dettami, le
convenzioni. Calypsos è lo specchio del De Gregori di oggi.
Sereno, saggio e innamorato della vita.
(Michela
– Rimmelclub)
Che
tu ne faccia meraviglia o spettacolo banale, lacrime a rendere o scherzo
di carnevale
neve di ferragosto, macchina per sognare musica per i tuoi occhi o
parole da conservare…
O come un ladro da quattro soldi lo butti giù per le scale perché nel
buio non l'avevi visto ma lo sentivi respirare, e ti teneva sveglia per
ore…. Perché nel buio non lo volevi, ma ti teneva sveglia per ore…
Regina
del tempo, della sabbia e del vetro della fine di tutti i numeri e
dell'inizio dell'alfabeto,
dimmelo adesso, dimmelo ora dove posso lasciare il vestito
come posso asciugare la pioggia che bagna il tappeto.
E
guarda l'amore che non ha commenti da fare.
L'amore
comunque che non ha paura del mare da attraversare…
Che
si trasforma in colore per la notte che resta, e il viola diventa rosa e
illumina la tua finestra,
come una medicina o un dolore da rinnovare o un desiderio spietato che
non puoi rifiutare,
ed è così che ti lasci guardare è così che ti piace, così che ti
fai immaginare…
Regina
del tempo della sabbia e del vetro della fine di tutti i numeri e
dell'inizio dell'alfabeto,
dimmelo adesso, dimmelo ora, dove posso lasciare il vestito, come posso
asciugare la pioggia che bagna il tappeto.
___________________________________________
Alessandro
Svampa: batteria
Guido
Guglielminetti: contrabbasso elettrico NS
Alessandro
Arianti: piano acustico Yamaha, Hammond, Oberheim
Alessandro
Valle: pedal steel guitar
Lucio
Bardi: chitarra Martin D28
Paolo
Giovenchi: chitarre Gibson J45, Gretsh 6120
Che
si gioca per vincere e non si gioca per partecipare
Chi è ferito e non cade, ma continua ad andare
A sbattersi nel buio e a farsi vedere
A sanguinare di nascosto e a pagare da bere
A goccia a goccia, ma tu guarda, il mio cuore mangiato
L’amore ha sempre fame, non l’avevi notato
E dice sempre con disinvoltura
Senza paura dice: “mai”, senza paura mai.
Che
si veste di bianco per scandalizzare
E compra rose a dozzine
E fa curvare i pianeti e fa piegare le schiene
Che si gioca per vincere e chi vince è perduto
Con una chiave ed un numero in mano
Tutta la notte aspettare un saluto
E a pensare: “ti amo”
Chi
raccoglie conchiglie dopo la mareggiata
E il cielo è ancora scuro, ma la notte è passata
E macina la sabbia dentro i mulini a vento
E che non ha mai fretta e che non ha mai tempo
E poi l’amore indecente, che si lascia guardare
L’amore prepotente che si deve fare
E gli amori ormai passati e ancora vivi nella mente
Chè dell’amore non si butta niente
__________________________________
Guido
Guglielminetti: contrabbasso elettrico NS
Alessandro
Arianti: piano acustico Yamaha, Oberheim
Batto
il tempo, spreco il tempo. La ninfa che
trattenne e intrattenne Ulisse. Così, Calypsos trattiene e intrattiene.
Non sono un’esperta musicale, ma l’ultimo disco di De Gregori questo
fa, a mio avviso. Intrattiene perché non occorre che tutta
l’attenzione sia ad esso rivolta, la musica scorre fluida insieme ai
testi nelle orecchie, diversamente da Pezzi, album pregevole che però
costringe ad ascoltare ogni passaggio, perché il tutto non si può
cogliere se non nel dettaglio – devil is in the details. Le
spennellate, sonore e verbali, di “Gambadilegno a Parigi”, del
“Panorama di Betlemme”, di “Tempo reale”, sono un percorso a
ostacoli, pezzi di mosaico, come già è stato fatto notare. In Calypsos
basta mettere su il disco e lasciare che tutto entri per conto suo,
senza interferire in questa magnifica ‘possessione’.
Ma
una volta avvenuta la possessione, l’opera trattiene, non ti lascia
andare, non si può che riascoltarla. Sarà per la brevità – solo
nove canzoni – sarà per la semplicità, ma l’ultimo suono di “Tre
stelle” ti invoglia a ricominciare daccapo, mentre vorresti passare ad
altro, come la ninfa invogliava Ulisse a rimanere sull’isola mentre
lui sarebbe voluto tornare a casa. È una sorta di sospensione del
nostos orchestrata per rivedere, e risentire: nella sospensione
temporale di un ritorno e nella ripetizione, uno sguardo dal di dentro
ad ogni forma di emozione, una radiografia del sentimento, una scienza o
un discorso del cuore – cardiologia. Cosa si fa quando la mareggiata
è finita? Si raccolgono conchiglie, quelle sputate dal mare e rimaste lì
dopo che si è ritirato. Cosa si fa quando un amore è finito? Se ne
raccolgono le conchiglie da conservare, ché dell’amore non si butta
niente. Cosa si fa su un molo? Si batte il tempo con un piede, si spreca
il tempo, e questa frase non si spiega né si interpreta, è così e
basta, per De Gregori come per chiunque vada su un molo da solo magari
con poca luce. E così si è – semplicemente – in onda, si è e
basta, e il molo e i pensieri e i fantasmi che ci visitano – il nemico
che sorride – sono le emozioni legate a questo essere qui, e ora. Cosa
si fa quando si entra con imbarazzo nella casa di un amato o di
un’amata mentre fuori piove? Si sta attenti a non impacciare, non si
vuole bagnare il tappeto. Cos’è Roma, o la nostra emozione di Roma,
se non i turchi all’Argentina o i gabbiani sulla Magliana? Infìne –
la canzone meno apprezzata dagli stessi fan di De Gregori – cosa ci si
aspetta da un tre stelle, se non le lenzuola di bucato e le caramelle
sul cuscino?
Con
Pezzi, De Gregori ha usato violenza contro ogni mistificazione della
politica e della società: auspicare il ritorno del logos e della
ragione della Grecia antica, la filosofia ateniese, in un tempo di
spartani e sanguinolenti massacri che riducono in ‘pezzi’ e tolgono
valore ad ogni cosa ha una forza enorme, un coraggio frontale non da
Ulisse ma da Ettore, o da Achille. Con Calypsos il discorso musicale
verte sugli interstizi di armonia ancora possibili in un tempo franto,
sull’indugiare ulissesco su Ogigia, sul temporeggiare e, dunque, sul
tempo individuale, dopo quello collettivo di Pezzi, anche se pure quello
visto dall’occhio, unico, del musicista. Eppure de Gregori riesce a
non scrivere confessioni sentimentali rousseauniane quando parla delle
emozioni del tempo individuale; e riesce a non scrivere manifesti
politici quando parla delle emozioni del tempo collettivo, cosicché
l’uno ne esce collettivizzato e l’altro individualizzato, mi si
passino i termini.
Di
più non so dire sulle nove canzoni nuove, posso solo ascoltarle a
ripetizione mentre sono in onda.
P.S.
Mi perdoni Mimmo Rapisarda per questo mio intervento, dopo il suo
splendido "niente, nemmeno un dente".
Cristina
(Rimmelclub)
Che
è tutta una vita che passo da qua, e ancora rischio di perdermi,
magari è questione di troppa sensibilità, o sono soltanto motivi tecnici...
E
tu dici una bussola, dovevi almeno portarla con te,
una bussola potevi almeno spiegarmelo come si usa una bussola, scusa....
Ci
sono amori che non si ricordano e baci che non si dimenticano,
persone che passano e non si salutano e sputano, e cani bianchi che a volte ritornano.
E
tu dici la vita, dovevi almeno capire perché la vita, il tempo che cambia col vento che arriva
quest'anima stanca che pure respira, quest'angolo piatto che gira, quest'anima
dolce e cattiva, che dice "guardami..." dice "perché non parli...?" dice "sbrigati
prima che sia troppo tardi... guardami... perché non parli? Fermati prima che
sia troppo tardi...."
Saranno
trent'anni che passo da qua e adesso fai finta di non riconoscermi.
Ma guarda la gente che salti mortali che fa, e quanti nani sui trampoli, e tu dici:
"Perdonami... ma non credevo che fossi tu, perdonami..." Va bene perdonami, però perdonami cosa?
E
tu dici "La vita", la vita.... Questa scatola vuota, quest'anima nuda, questa retta finita,
quest'acqua che corre veloce in salita, quest'anima forte e ferita, che dice:
"guardami..." dice "perché non parli...?"
dice "fermati prima che sia troppo tardi... guardami... perché non parli? E sbrigati prima che
sia troppo tardi, perché non parli...?" dice "fermati prima che sia troppo tardi... guardami...
perché non parli? Sbrigati prima che sia troppo tardi...guardami...perché non parli...?
Guardami...perché non parli?
Fermati prima che sia troppo tardi...."
____________________
Alessandro
Svampa: batteria
Guido
Guglielminetti: contrabbasso elettrico NS
Alessandro
Arianti: piano acustico Yamaha
Alessandro
Valle: pedal steel guitar
Lucio
Bardi: chitarra Martin D28
Paolo
Giovenchi: chitarre Gaglio, Gretsh 6120
Elsa
Baldini, Claudia Bertè, Moira De Santi: coro
Esce
«Calypsos» De Gregori riscopre i colori dell’anima
"Il
Giornale", 16/02/2006: Cesare G. Romana
Che smagliante allegoria dell'amore, con le sue provvisorie conquiste
e la sua fatale precarietà, ci affida Omero nell'episodio di Calipso,
la ninfa dai crespi capelli che per sette anni tiene Ulisse legato a
sé, prima di restituirgli la libertà per volere di Zeus. L'amore
dunque che trafigge, sfugge e riemerge nel vivo della memoria: ché
sono almeno dieci, nel lungo tragitto dell'Odissea, i momenti in cui
la «voce leggiadra» di Calipso riaffiora, evocata da veloci
flashback.
Il nuovo disco di Francesco De Gregori, che esce oggi a soli undici
mesi dallo splendido Pezzi, s'intitola appunto Calypsos, ed è non a
caso un'assorta riflessione sull'amore ineludibile, «che si gioca per
vincere e chi vince è perduto», l'amore «come una medicina/ o un
dolore da rinnovare», insomma «l'amore comunque»: con le sue fughe
e il suo persistere.
O almeno questa è, insieme ad altre, una possibile chiave di lettura:
ché sarebbe tradire quest'album magico e proteiforme, tentarne una
lettura didascalica, imprigionandone in un netto percorso concettuale
il sottile reticolo di allusioni, nuances, intriganti ambiguità.
Infatti Calypsos è un gran disco proprio per il suo essere intimo,
enigmatico, dolcemente contraddittorio. Perché dice senza dichiarare,
mutuando l'incanto inconscio dei sogni. Se Pezzi era il capolavoro
palese, che ti possiede d'acchito col suo ritmo di rock, Calypsos è
un giardino dell'animo, una partitura cameristica che svela via via,
nel riascolto, colori e profondità. A partire dai suoni:quel lieve
discorrere del pianoforte, in Cardiologia, quel ritmo frizzante eppur
mansueto di La linea della vita. Quelle trasparenze sospese in La
casa, quel canto serpentino di In onda. Quel mondo che si svela per
gradi in Per le strade di Roma, «quando la notte scende/ e il buio
diventa brina/ e tutto si consuma e tutto si combina» e par di
ritrovare certe liriche pasoliniane. Fino a L'angelo che a me ricorda,
ma a contrariis, un'altra grande pagina di De Gregori, L'agnello di
Dio: «In realtà quella era una canzone sociale - puntualizza
Francesco - questa è una riflessione sulla vita e la morte, sulla
loro accettazione serena», ma potrebbe celare una pensosa parafrasi
del dono d'amore: «Sono venuto a sciogliere/ e non a legare/ sono
venuto a sciogliere/ e non a spezzare», la complicità che non
insidia la libertà.
Non chiedo all'autore se sia questa l'interpretazione corretta: sa
bene, Francesco, che la canzone non va decrittata, ma percepita,
attraverso le sensazioni che irradia: «Non c'è niente da capire»,
cantava lui stesso, molti anni fa. Piuttosto gli va di raccontare
l'impulso che ha dato vita a Calypsos, quando ancora durava il
successo di Pezzi e un nuovo lavoro non sembrava alle viste: «Già
quando scrivevo l'album precedente, avvertivo questo genere di
suggestioni, legate alla realtà degli affetti e dei sentimenti. Ma
non legavano con lo stile e con la passione civile di Pezzi: così le
ho tenute da parte, e subito dopo mi sono rimesso all'opera». Da qui
sono nate pagine come Tre stelle, ammiccante e tenerissima: «Piace
anche a me, così minimale, con quell'aspetto un po' disneyano: i due
innamorati che si ritrovano in un albergo a tre stelle potrebbero
essere Minnie e Topolino...».
Insomma, un disco che viaggia controcorrente, questo Calypsos: parla
dell'amore - lo provoco - in un momento di così grandi tensioni
sociali e politiche. E lui: «Ma su quel versante avevo già dato, era
inutile ribadire quello che Pezzi diceva già, esplicitamente. Del
resto non sono mai stato un autore di manifesti: chi parla di me come
di un artista schierato, il solito cantautore con la kappa, mi conosce
davvero poco».
«Canto l’amore
come Fred Bongusto» De Gregori: con melodie anni ’50 mi allontano
dalla politica
di Mario Luttazzo
Fegiz - Il Corriere della sera" del 16/02/2006
«Sta finendo
gli studi ed è indeciso se fare il politico o l'attore». Da questa
frase orecchiata in un ristorante da un giovane benestante e sicuro di
sé che parlava a voce troppo alta di un amico, De Gregori ha tratto
un verso della sua nuova canzone «Per le strade di Roma» nell'album
«Calypsos» che esce venerdì 17. Nove brani inediti a prevalente
regime sentimentale, in qualche caso secondo lo stile di Fred Bongusto.
Arrivano a meno di 10 mesi da «Pezzi» e ne costituiscono per
l'artista il naturale prolungamento. «Attore o politico? Sentendo
queste parole ho drizzato le orecchie: chi pone la questione in questi
termini o è un poeta o è un criminale. Le alternative che dovrebbe
dare la vita a un sedicenne non sono solo queste. Certo non penso che
tutti i giovani siano così. Ma il ragionamento è molto romano,
tipico della capitale della politica del cinema e della tv dove il
politico e l'attore sono visti come mestieri intercambiabili, il che
storicamente non è nemmeno inesatto».
«Calypsos» è un disco speciale, sospeso, di grandissimo respiro
musicale e poetico: una casa di legno e cartone («La Casa») tenuta
su dalle rose che si arrampicano, rappresenta la caducità delle cose
che costruiamo, «In onda» gioca sulla ambiguità fra on air simbolo
della diretta mediatica e il trastullo del lasciarsi trasportare per
l'appunto dall'onda. «In onda vuol dire esserci, essere percettibili.
Ma fare l'esegesi dei testi significa banalizzare il tutto» obietta
De Gregori, che tuttavia è disposto a chiarire un altro verso della
canzone «Per le strade di Roma» quando canta «il futuro passa e non
perdona e gira come un ladro per le strade di Roma». «Roma è una
città dove alberga il futuro, ma non è un futuro messo in vetrina,
come a Milano. Roma è una città propositiva. Anche se sembra
sonnolenta, è all'avanguardia. Ed è la prima volta che scrivo una
canzone decisamente campanilista sulla capitale».
Nel disco la politica è assente. «Non ce n'era lo spunto e non mi
pare che se ne sentisse la necessità in questo momento in Italia. Non
puoi uscire di casa che sbatti contro qualcuno che ti parla di
politica. Prendiamoci questo quarto d'ora di felicità. Con un disco
imprevedibile per il pubblico ma non per me che, mentre registravo
"Pezzi", ho capito che stavo entrando in un nuovo clima».
Così ecco «Cardiologia» e «La linea della vita» (con chitarra
miagolante e coretti stile anni Cinquanta, «alla Bongusto» sostiene
con orgoglio De Gregori).
In una si sostiene che nell'amore non si butta niente, nell'altra che
a volta si dimenticano amori, ma si ricorda un singolo bacio. Dopo la
donna sognata, quasi erotica, di «L’amore comunque» arriva «Tre
stelle».
«E’ un inno quasi amoroso a questo tipo di alberghi spesso. Da anni
mi sento più il cantante della band piuttosto che la ricca star e
così ho scoperto i "tre stelle". Le cameriere belle fanno
parte dello spirito disneyano del brano: al ritmo di un pianofortino
mi immagino Minnie e Topolino che si danno un appuntamento più o meno
clandestino in un trestelle».
Insomma per De Gregori «è un disco di straniamento, di rovesciamento
dei ruoli, di sogni. Le canzoni non esprimono soltanto cose concrete,
ma pensieri, desideri, utopie. Chiudere una porta, aprirne un’altra.
La vita è fatta di rotture, di naufragi, di ricomposizioni sognate o
realizzate».
E i giovani? «Come noi, all’epoca, mimano una sorta di cinismo di
fronte alla realtà che hanno davanti, ostentano un disincanto per
qualsiasi cosa, che se la conoscessero già. Impareranno le cose che
contano: i sentimenti, le rose che si arrampicano, il tuo vino da bere
a settembre con chi ami. Il resto è destinato a crollare».
De
Gregori parla di amore, di morte, di fragilità e di un aldilà che
probabilmente non c'è, o forse sì. Depone l'indignazione che gli aveva
fatto ventilare nello scorso disco (solo 11 mesi fa) una dipartita dal
suolo italico. Rispolvera il falsetto, acquieta il rock per uno stile
più acustico e, come se si fosse re-innamorato di una sua foto di 30
anni fa, sforna un disco di ballate emozionanti come da tempo non se ne
sentivano. Esce Calypsos, dove Calypso è la dea dell'Odissea ma anche
il ritmo di una delle canzoni più belle del disco, L'angelo, un brano
che parla di morte.
- Pensieri cupi Principe?
No. Fa parte delle esigenze di noi uomini interrogarsi su un mistero
come quello della morte. Soprattutto per un laico come me, uno che non
"crede" nel senso tradizionale del termine. Uno che non ha
un'idea consolidata dell'aldilà, che non si aspetta un paradiso
cattolico. Nella canzone il mistero viene risolto dalla figura di un
angelo che "viene a sciogliere e non a legare", scusa se mi
cito. Il senso è vedere la nostra fine come un momento di scioglimento
dolce, non una frattura, non una cosa di cui aver paura. Una canzone che
dovrebbe riconciliarci con l'idea della morte che in occidente è sempre
bandita. Soprattutto nelle canzoni, perché poi nessuno si scandalizza
se un film o un romanzo trattano l'argomento. In una canzone è
inusuale.
A proposito di laicità. Non trovi che nell'Italia di oggi questo sia un
valore sempre più dimenticato? Che anzi tutti si affrettino a
dichiarare una qualche appartenenza religiosa?
- Vorrai mica farmi parlare di politica? Vorrei evitare… Al di là del
fatto che (e non stupirò nessuno) mi auguro vinca il centro sinistra
alle prossime elezioni, non saprei che dire perché qualsiasi cosa poi
viene reinterpretata, strillata, ribattuta, rimasticata.
Perché,
essere laici vuol dire schierarsi?
- Io sono un laico certo, anzi sono dolorosamente laico. Perché mi
piacerebbe credere, vorrei tanto... L'uomo che veramente crede ha un
grande privilegio: ha una chiave di lettura della vita, della morte, dei
sentimenti. E invece il laico vive una condizione più dolorosa, io mi
sento orfano. Dopodiché la fede esasperata, la fede più formale che
sostanziale, è una cosa che non mi piace. E c'è n'è tanta in giro.
Così come c'è tanta gente che ha fede e di cui ho rispetto. Però mi
piacciono le persone che oltre a credere in Dio credono anche negli
uomini.
Non vuoi parlare di politica perché hai paura che ti tirino per la
giacchetta?
- A me c'è poco da
tirarmi per la giacchetta, si sa da che parte sto. Ma è vero che sono
molto annoiato dalla politica.
Però c'è chi, tra i colleghi, lo fa per te. Vedi Fossati, con il suo
j'accuse alla democrazia perduta… E lo fa in maniera forse fin troppo
semplice, no?
-
Non starai mica tentando di farmi parlare male di Ivano?
Sia mai!
- Trovo che ogni
artista abbia il suo modo e la sua necessità di scrivere in un momento
piuttosto che in un altro. Va benissimo. Io attraverso un'altra fase,
probabilmente perché solo 11 mesi fa ho fatto un disco dove
indubbiamente c'era uno sguardo più attento alle cose del mondo.
Sarebbe stato inutile farne uscire un altro orientato allo stesso modo.
Ivano ha giustamente sentito la necessità di dire la sua. Tra l'altro
lui non è uno che normalmente fa canzoni schierate. Anzi… lui sì che
è stato tirato per la giacchetta!
Credi
che col passare del tempo la tua scrittura si sia semplificata?
- No, nient'affatto,
forse chi l'ascolta si è abituato a sentire testi meno elementari
rispetto a 20, 30 anni fa. La scrittura delle canzoni si è evoluta nel
tempo. Quando feci uscire un paio di dischi negli anni Settanta ci fu
una levata di scudi: per molti scrivevo cose incomprensibili. Se fossero
uscite oggi nessuno avrebbe detto niente.
C'è una malinconia di fondo in questo disco, anche quando si parla di
casa, una casa descritta come quella dei fratelli Grimm, che si può
buttare giù con un soffio…
-
La casa è una canzone sulla fragilità. Sul fatto che costruiamo sempre
qualcosa che è destinato a crollare. Non è pessimismo, è disincanto.
E, proprio a proposito di religione, qui dico che, anche se non possiamo
credere ad un paradiso, comunque non è sulla terra la vita vera
dell'uomo. Sulla terra però ci sono i sentimenti, le passioni. Il resto
è legno cartone, non c'è né ferro né cemento.
Dopo
la canzone di Celestino che se ne andava in Africa, qui c'è un altro
brano che parla di fuga, "MayDay"…
Sì,
come Ulisse che lascia Calypso sull'isola e se ne va. È una rottura
netta. A volte capita di sbattere una porta, o chiuderla dolcemente.
Capita di lasciare la barca. Non bisogna vergognarsi della propria
fragilità.
Dallo
scorso disco ti sei un po' riappacificato con il suolo patrio? Oggi
diresti ancora che sei pronto ad andartene dall'Italia?
- Beh, in 11 mesi non
posso aver cambiato idea. L'Italia non è un paese rasserenante e i
problemi non si risolvono certo nell'arco di un anno.
Che musica ascolta De Gregori ultimamente?
- Essenzialmente
musica classica, con grande attenzione. Mi sono appassionato dei timbri,
delle sonorità. Pensa che quando ho cominciato a fare questo lavoro me
ne fregavo totalmente. Per me una canzone era solo una serie di accordi,
una linea melodica e basta. Poi poteva suonarla un fagotto, una chitarra
o un qualsiasi altro strumento. Quando ho fatto Rimmel era così. Invece
ora voglio stare più attento ai timbri.
Ci dobbiamo aspettare un riarrangiamento del tuo vecchio repertorio?
- Mai dire mai. Il
problema è che quando riarrangio le vecchie canzoni mi fucilano. La
gente vuole sentirle così come le ha trovate trent'anni fa sul disco.
Invece le canzoni appartengono a tutti, anche a chi le ha scritte.
(Intervista di Silvia
Boschero - L'UNITA' - 16/02/2006)
Da
Fazio a CHE TEMPO FA
Pubblicato
da Furex on 12th Marzo 2006
Ho
visto per la seconda volta in pochi giorni De Gregori fare promozione
per il suo ultimo parto musicale, Calypsos. Da Fazio, De Gregori parla
del video di Cardiologia, che a suo dire non è un video, ma
un'installazione di arte moderna.
Realizzato
da De Gregori in collaborazione con il suo "tastierista",
secondo De Gregori stesso
questo video si distacca dal format del video "tradizionale"
nel quale esiste una "sceneggiatura basata sul testo della
canzone."
Sorvolando
sul concetto squisitamente paleomusicale del "tastierista", mi
sono chiesto con perplessità a quale epoca risale il concetto di video
tradizionale secondo De Gregori; la mia perplessità aumenta mentre
penso che il video musicale come genere ha una storia non più lunga di
un ventennio.
Poi
mi ricordo dell'ironica protesta della Littizzetto, che qualche tempo fa
denunciava la divergenza crescente tra video e canzone. E osservo uno
spezzone del video, che ricorda tanto i visualizzatori di Winamp.
Infine
Fazio chiede: qual è la canzone perfetta per te, fammi un esempio. De
Gregori con la massima pace mentale risponde che forse la sua ultima,
ecco quella è perfetta.
Devo
essere proprio fuori target.
(F.
De Gregori – Calypsos)
Vado
in onda Silenziosamente La mia mente sogna
E sono fermo ai bordi della strada E stranamente io Non ho vergogna
Sto aspettando e sto chiamando Che qualcuno mi risponda
Sono
a casa La mia porta è aperta E la mia luce è accesa
Come un ladro nella notte puoi venire Io non ho difesa
Mentre dormo mentre sogno puoi colpire Di sorpresa
Soffia
il vento Sulla punta del molo con un piede batto il tempo
Spreco il tempo Sta piovendo La tempesta sul mio viso sta passando
Si sta sciogliendo
E
sono in onda Chiudo gli occhi e ti vedo forte e chiaro E sono in onda
Il mio nemico è in piedi ed io lo vedo ride Fermo sulla sponda
Ed io lo guardo e gli sorrido Mentre la mia nave affonda
Soffia
il vento Sulla punta del molo con un piede batto il tempo Passo il tempo
_________________________________________________
Alessandro
Svampa: cajon, bonghetti
Guido
Guglielminetti: contrabbasso elettrico NS
Alessandro
Arianti: piano Fender Rodhes, Oberheim, Nordlead
Paolo
Giovenchi: chitarre Gretsh 6120, Gaglio, Gibson J45, Martin D42
Lucio
Bardi: chitarra Martin D42
Al
Buddha Café come al pub per cantare tutti insieme
aprile
2006
DI
MARINELLA VENEGONI
BRESCIA. Il tour, in Italia, adesso si porta un po' così. Si fa e non
si fa, si comincia e poi si smette e si riprende più avanti. Mentre
le star internazionali si massacrano di bagni di folla, alcuni dei
nostri Vati scelgono più spesso il profilo basso, con un contatto con
la gente magari più raccolto e diretto, in un piccolo club.
Succederà da domani a Ivano Fossati, che debutta appunto in un locale
di Senigallia, succede da ieri a Francesco De Gregori: a poche
settimane dall'uscita dell'ultimo album «Calypso», dove prende di
sghembo la questione amorosa con l'originalità di accenti che gli è
propria, il cantautore romano ha iniziato una manciatina di date dal
Buddha Café di Orzinuovi, nella profonda provincia di Brescia. Un
solo bagno di folla è previsto, il 25 aprile in piazza a Parma, per
la Festa della Liberazione. Ma guai parlargli di politica. E di tour.
Gentile
De Gregori, allora lei tiene concerti ma non vuol sentire la parola
«tournée».
«Ma sì, basta con queste vecchie e provinciali terminologie. Basta
anche con le scalette: canterò canzoni che di volta in volta mi va di
fare. Saranno rappresentati alcuni pezzi del nuovo disco, 5 o 4,
oppure 6 o 7. Non è un concerto celebrativo. Sono poche date davvero,
il Buddha Café poi è un club fra i più popolari in Italia,
apparentemente non bello, con strutture calde anche se apparentemente
povero. Si suda tutti di più, si crea un'atmosfera da pub, l'ascolto
è più partecipato e caotico».
Ritorna
ai suoni duri degli ultimi tempi?
«No, sono suoni misti. Anzi, ritorno a sonorità più acustiche».
E'
noto che lei non è un estimatore di Springsteen, e tuttavia anche The
Boss, come lei con Giovanna Marini nel «Fischio del vapore» ha
appena inciso in «We Shall Overcome» canzoni popolari del passato
del suo Paese.
«Non mi crocifiggete, non mi straccio le vesti per lui ma finisce
lì. Mi sembra che, riprendendo Pete Seeger, abbia fatto quel che
abbiam fatto noi con Giovanna Marini, con una bella dose di
sincerità. Devo dire che, con quella foto di copertina di tutti i
musicisti insieme, la campagna di comunicazione di Springsteen ricorda
molto "The Basement Tapes" di Dylan. Mi fa piacere che lei
abbia colto questa assonanza con il nostro lavoro, nessuno l'ha
ricordato nelle recensioni».
Le
nostre vecchie canzoni popolari erano praticamente scomparse
dall'immaginario collettivo. Le verrà voglia di cantarne qualcuna,
almeno a Parma il 25 aprile.
«Lo potrei fare. La band è rodatissima, se attacco "L'attentato
a Togliatti", mi viene dietro».
Perché
solo lei, in Italia, ha avuto l'idea di riprendere questo repertorio
del passato?
«Perché ho avuto più occasioni di altri di sentire questa musica da
vicino. Ho conosciuto le persone che la facevano, le ho amate, ci sono
andato a cena insieme. E ho un rapporto di lunga data con Giovanna
Marini. Ma ci sono ancora circoli, ancorché un po' selezionati, dove
questa musica viene riproposta, e ci sono studiosi che se ne occupano.
Ma si sa come vanno le cose, avendo avuto uno questa idea, gli altri
non lo fanno più. Eppure, quello della musica popolare italiana è un
filone carsico».
Non
le verrebbe di incidere un secondo volume?
«Se lo rifacciamo Giovanna ed io, sembra di tornare sul luogo del
delitto. Non lo escludo ma nemmeno lo programmo. Il progetto è stato
perfetto proprio per la scelta di quelle canzoni, rappresentative del
mondo del lavoro, non schierate né antagoniste, e questo ha
costituito la loro leggibilità. Potremmo incidere i canti anarchici,
rivoluzionari, ma sarebbe una cifra differente».
Le
è piaciuto «Il Caimano» di Moretti?
«Quando ai registi verrà chiesto se gli è piaciuto un mio disco, io
dirò se mi è piaciuto "Il Caimano"».
Fino
a quando non parlerà di politica?
«Sono estenuato dal fatto che se ne sente parlare troppo, e con
accenti privi di fantasia. Non ne parlo perché non voglio aggiungermi
al coro di voci, per la maggior parte belanti».
La
sorpresa De Gregori: nuovo cd e svolta acustica
Paolo
Giordano
Colpo
secco, nuovo ciddì. Sarà che uno non se l'aspettava così presto. O
che lui, il Principe, di solito se le coccola le sue nuove canzoni, le
lascia crescere e respirare sui fogli d'appunti, in sala d'incisione,
sui tavolacci delle osterie. Comunque rieccolo ed è una sorpresa:
appena undici mesi dopo il ciddì Pezzi, il dieci febbraio Francesco De
Gregori ne pubblica un altro che nel titolo richiama una ninfa greca ma
pure un ballo giamaicano, un titolo di bellezza e movimento e anche di
svolta, massì. Calypso.
De Gregori lo ha registrato di getto tra la seconda metà di novembre e
dicembre, trascorrendo ore chiuso con la sua band nel piccolo studio di
registrazione della casa di Spello, il borgo silenzioso nell'Umbria ai
confini con le Marche. Settimane di lavoro al riparo dalle pressioni e
dalle ansie, a pochi metri dagli uliveti che inseguivano le ombre lunghe
del sole d'autunno. Lì De Gregori produce un extravergine da primato,
con i riflessi verdi e asprigni dell'olio umbro, il Moraiolo o il
Leccino, che già nel
Trecento i contadini benedicevano col pane e il sollievo di un anno
buono. E lì sono nate queste nove canzoni a bruciapelo, inattese e
impegnative perché dovranno sovrastare l'eco delle altre appena uscite
e anche loro subito benedette dagli osanna dei critici. Pezzi è stato
un ciddì trasversale per Francesco De Gregori. Salutato come uno
scampolo di poesia rock, gallonato da riferimenti simbolici a Celestino
V (Vai in Africa, Celestino!) o alla Atene dei peripatetici (Gambadilegno
a Parigi).
(Il
Giornale - 16.1.2006)
Il
soffio dell'ispirazione solleva il velo sull'amore di Giorgio
Maimone
"Calypsos"
è un disco ispirato, anacronistico, fuori dal tempo: un concept album
sull'amore. Una riflessione, alta, ponderata, profonda, impregnata da
tutti i fumi della poesia, bagnata da tutte le sottili maree
dell'emozione su quella sottile vena di follia che tutti ci tiene e che,
come panni stesi a sciorinare all'aria, ci fa oscillare appesi al filo
degli improvvisi sussulti del cuore. Dimentichiamoci la copertina. E'
l'unica cosa brutta di uno splendido disco. Ma è una citazione
anch'essa: si capisce dai caratteri incerti tracciati a mano. Siamo
dalle parti dei dischi bianchi di Battisti/Panella. Dimentichiamo e poi
partiamo a sognare. Dice: ma come si fa a fare un disco nuovo undici
mesi dopo il precedente? Risponde: fa tutto l'ispirazione. Innegabile.
Dice
che l'ispirazione è stata la ninfa che trattenne Ulisse, di lei
comunque innamorato, per sette anni, prima di lasciarlo tornare a casa.
Ma quando ascolterete "L'angelo" inizierete a sorridere: il
tempo sottostante è un calypso che neanche Harry Belafonte! De Gregori
gioca su due tavoli e vince sempre, perché in mano tiene carte segnate
per "giocare a carte col suo destino". Il suo personale
destino gli ha evidentemente consegnato una "mano" doppia che
lo costringe a produrre alternativamente un disco "bianco" e
un disco "nero", un disco "lento" e uno
"rock", un disco "dolce" ed uno "amaro". E
"Calypsos" è, prima di tutto un grande disco, uno dei più
grandi della sua discografia (che poi vuol dire almeno della discografia
nazionale) e poi un disco di "sole", pulito, fresco, agile e
svelto. Anche troppo svelto: scorre via in appena 9 canzoni e
39'45". Ma forse 40 minuti è il tempo medio dell'amore.
E'
quindi quasi un concept album questo a cui ci troviamo di fronte, anche
se il concetto non è esattamente degregoriano, che finora, il massimo
di concettualità l'aveva dispiegato su Titanic. Però già in
"Pezzi" si percepiva un'aria unitaria di fondo che qui si fa
più precisa e calzante. Preso il mito di Calypso come parametro di
riferimento o punto di partenza per indagare sulle segrete trame
dell'amore, Francesco De Gregori approfonda il bisturi della sua poesia
pulita e chirurgica e in questo caso per niente visionaria e passa in
rassegna situazioni amorose.
Si
inizia con "Cardiologia", pianoforte e voce, con la tenue
aggiunta del basso di Guglielminetti. E' la prima canzone nella quale
Francesco dice esplicitamente "Ti amo" parlando in prima
persona, ma non è questo il motivo di interesse ("quando dice:
"è quattro giorni che ti amo/ ti prego non andare via" è una
citazione in terza persona. Cfr "Pezzi di vetro"). Le note del
piano di Alessandro Arianti possono ricordare un po' l'atmosfera de
"La donna cannone", ma la canzone prende subito altre vie.
Sono immagini degli amori: "l'amore indecente / che non si può
guardare", quello "che si veste di bianco / per
scandalizzare" o "che raccoglie conchiglie / dopo la
mareggiata", ma soprattutto "gli amori mai passati e ancora
vivi nella mente / che dell'amore non si butta niente". Questa è
la frase finale del brano, segue una lunga coda pianistica, e sfido
chiunque ad ascoltarla senza farsi prendere da un brivido. D'altra parte
Francesco ce lo ricorda anche prima: "l'amore ha sempre fame, non
l'avevi notato?" Dice: "l'ho fatta in presa diretta, una sola
volta e buona la prima. Altrimenti non ce l'avrei fatta a rifarla".
Emozione a cuore aperto: ecco la "cardiologia" del titolo.
Piccola
citazione: "l'amore dice "sempre" con disinvoltura /senza
paura dice "mai" / senza paura mai" da un lato riecheggia
"dopo l'amore così sicure a rifugiarsi nei "sempre" /
nell'ipocrisia dei "mai" di De André e dall'altro riprende i
temi di "Sempre e per sempre".
"La
linea della vita" è la seconda canzone. Si cambia completamente
atmosfera: quasi un blues. Cori gospel femminili (Elisa Baldini, Claudia
Berté, Moira De Santi) di grande efficacia accompagnano la formazione
al completo che suona nel disco (da dieci e lode sia strumentisti che
arrangiamenti): sotto la direzione di Guido Guglielminetti che produce,
come al solito e suona il basso, si allineano Alessandro Svampa alla
batteria o percussioni, Alessandro Valle alla pedal steel, Paolo
Giovenchi alle chitarre elettriche o acustiche, Lucio Bardi alla
chitarra acustica, Alessandro Arianti al pianoforte e tastiere. De
Gregori in questo disco non suona quasi mai: una sola volta, in
"Per le strade di Roma" imbraccia la fida Martin D28. Tono
scanzonato e ritmo sicuro, la "Linea della vita" parla degli
"amori che non si ricordano / e baci che si dimenticano / Persone
che passano e non si salutano e sputano /e cani bianchi che a volte
ritornano".
"La
casa" è un'altro dei vertici del disco (direte: quanti vertici ha
questo disco? E' un icosaedro!) . "E ci metto la scommessa che ti
voglio amare sempre / e ci metto quattro vigne per il vino di
settembre" In una casa per l'amore ci stanno tante cose, sempre
sotto il numero sciamanico di quattro ("quattro porte per i punti
cardinali ... quattro rose per i quattro Evangelisti ... quattro spine
dolorose ... quattro spine e quattro rose"). Viola, violino e
violoncello danno ulteriore intimità a un brano da cantare sul calar
della sera, tenendo vicino la persona amata ed osservando dall'uscio di
casa il tramonto. "Costruisco questa casa / senza inizio e senza
fine / come il sole a mezzogiorno / quando incendia le colline" ...
"che ci possa entrare il cane / quando sente il temporale". E'
una canzone semplice, tutta in rima, ma non c'è una sola rima fuori
posto, forzata o abusata. E' grande dolcezza che si spande tutto
intorno.
Ancora
con l'anima turbata e con la sensibilità esacerbata dalla canzone
precedente non ho tempo di riprendermi prima di accorgermi di
"riuscire a volare" assieme a "L'angelo" che arriva
direttamente dai Caraibi e passa a volo rasente. Un angelo dolcissimo
che "è venuto a sciogliere / non a legare". "Passa
l'angelo e ti offre da bere" e in sottofondo un dolcissimo suono di
flauto (forse il Lahore flute, come dice la nota sul libretto) ti prende
per mano e ti porta esattamente dove sei disposto ad andare tu. Potrebbe
essere l'angelo di un amore estemporaneo, che si ferma esattamente il
tempo necessario per darti un sorriso ... e per offrirti da bere.
Imprescindibile.
"In
onda" è forse il brano che ha più a che fare con il mito di
Calypso, almeno direttamente, ma Francesco non ha voglia di essere
esplicito e gioca col doppio senso di essere in onda da marinaio o di
"andare in onda" in un mezzo di comunicazione di massa. E'
Ulisse che parte e che dice che "sta piovendo / la tempesta sul mio
viso sta passando / si sta sciogliendo". "Il mio nemico è in
piedi ed io lo vedo, ride / fermo sulla sponda / e io lo guardo e gli
sorrido / mentre la mia nave affonda". Una delle canzoni più
lunghe (5'24") e di grande intensità. Commuovente.
Dopo
una parte centrale così densa e ripiena di sentimento c'è bisogno di
tirare il fiato e cosa c'è di meglio di un sano e deciso rock? "Mayday"
adempie perfettamente allo scopo: camera di decompressione musicale e
testuale. Le liriche insegnano come si può fare per salvarsi la vita:
"devi comprarti un vestito nuovo / e decidere come ti sta".
Dopo di che "guarda dritto negli occhi / l'amore che stai per
lasciare / e abbandona la scena / abbandona la nave". Ulisse che
lascia Calypso? "Vattene vattene adesso / ed io farò lo
stesso". Amori che si lasciano, che finiscono, che abbandonano la
scena. L'altra faccia dell'amore. L'altra faccia della musica.
"Per
le strade di Roma" sono 5'43" di scorribande per gli ambienti
della Capitale, dalla Magliana alla Tiburtina, dalla Salaria a via
Frattina. Quasi come Nanni Moretti in vespa in "Caro Diario".
Un modo in immagini e un modo in musica per esprimere l'amore per la
propria città. "C'e adrenalina nell'aria / carne fresca che gira
/... / e tutto si arroventa e tutto fumo / per le strade di Roma".
In Roma ci sono facce nuove, ma anche donne da guardare e "ragazzi
che escono da scuola / e sognano di fare il politico o l'attore / e
guardano il presente senza stupore / e il futuro intanto passa e non
perdona / si aggira come un ladro / per le strade di Roma". Una
panoramica con sguardo innamorato, dove "tutto si consuma e tutto
si combina", ossia "per le strade di Roma". Magica. E
innamorata. Una canzone d'amore per la città.
"L'amore
comunque". Dopo 7 canzoni che non fanno altro che parlare d'amore,
non avevamo più dubbi sul fatto che l'amore fosse comunque. E anche lo
stesso e persino eventualmente! "Che tu ne faccia meraviglia / o
spettacolo banale / lacrime a rendere / o scherzo di Carnevale ... / è
così che ti piace / è così che ti fa immaginare". L'amore è
comunque, non è dovunque, non è qualunque, ma è senz'altro
"comunque". Imprescindibile, imperdibile, pervasivo, ma mai
invasivo. L'amore è così che ti piace, è così che ti fa immaginare.
Altro lento d'atmosfera.
In
chiusura un altro piccolo spazio di relax. L'amore che si può fare
anche in "un tre stelle, un gran bel tre stelle /a due passi dalla
statale". Amore furtivo o fuggitivo, Clandestino o provvisorio.
Dice: l'amore tra Minnie e Topolino. Un amore rilassato. Un incontro
fugace. Con la delicatezza di un morbido country come se ne trovano
altri nel canzoniere degregoriano da "Buonanotte fiorellino"
in giù. "Tre stelle" è la canzone ma sono senza dubbio
cinque le stelle che destiniamo all'album. "Calypsos", mi
ripeto, entra nelle sfere alte della discografia di De Gregori, senza
pentimenti e senza esitazioni. Ci sono dischi in cui tutto piace e
magicamente trova il posto logico nella tua vita, nei tuoi ascolti, nei
tuoi pensieri. "Calypsos" è così: il disco giusto al posto
giusto. D'altra parte, potevamo arrivarci anche prima: lo sanno tutti
che Calypsos è un mito!
(F. De Gregori – Calypsos)
Per
salvarti la vita devi uscire da qua devi lasciare la vecchia strada e
fare un passo più in là
la direzione nuova la devi scegliere tu per salvarti la vita devi
rischiare di più
Per
salvarti la vita non avere paura, localizza un'uscita, fai le cose con
cura
lascia correre l'acqua, lascia spegnere il fuoco, è questione di
niente, è questione di poco.
Devi
comprarti un vestito nuovo e decidere come ti sta e non aver paura di
dimenticare
vattene adesso, non ti voltare non c'è nessuno da salutare…
Devi
cambiare indirizzo e telefono, devi cambiare città e non aver paura di
non farti più trovare
vattene, vattene adesso ed io farò lo stesso non ti voltare, non c'è
nessuno da ringraziare.
Per
salvarti la vita non ci stare a pensare chiuditi bene la porta alle
spalle e butta la chiave
guarda dritto negli occhi l'amore che stai per lasciare e abbandona la
scena, abbandona la nave.
Alessandro
Svampa: batteria
Guido
Guglielminetti: contrabbasso elettrico Fender special
Alessandro
Arianti: Fender Rodhes piano
Alessandro
Valle: pedal steel guitar
Paolo
Giovenchi: chitarre Gibson J45, Fender Telecaster55
Lucio
Bardi: chitarra Fender Stratocaster
Elsa
Baldini, Claudia Bertè, Moira De Santi: coro
Qualcuno,
per farsi notare e non sparire nell’indifferenza generale, s’è
inventato i dischi e i concerti “evento”, effetti speciali, parate
di ospiti e sparate mediatiche utili, quando tutto va bene, a strappare
titoli ai giornali e a scuotere il pubblico dalla sua, spesso
giustificata, apatia. De Gregori, da buon bastian contrario, fa
esattamente l’opposto e si è rimesso ostinatamente a concepire il suo
mestiere come si faceva una volta. Va a suonare con la sua band (sempre
la stessa) dove lo chiamano, butta fuori un disco ogni volta che ha in
mano abbastanza materiale da giustificare l’affitto di una sala di
registrazione. Profilo basso, insomma, come antidoto alla schizofrenia
dello show business, “progettualità” e strategia al grado zero:
posso confessare che basta questo a rendermelo simpatico, a farmi
schierare immediatamente dalla sua parte? Detto ciò, bisogna sapere a
cosa si va incontro. “Calypsos” sono semplicemente le sue “9
canzoni nuove”, come sottolinea onestamente il sottotitolo di un disco
che arriva a meno di un anno da “Pezzi” nella veste più dimessa che
sia possibile immaginare: copertina “povera” e iper minimale con
nome dell’artista e titolo dell’album riprodotti su sfondo bianco (l’unico
vezzo è quel lettering che, come qualcun altro ha già acutamente
sottolineato, rimanda al tardo Battisti), suono essenzialmente
analogico, durata inferiore ai 40 minuti come ai bei tempi del vinile
nostalgicamente rievocato dall’etichetta stampata sul cd.
Circola
aria antica e familiare, insomma. Con la cover di “A chi”, incisa
per la raccolta “Mix” di fine 2003, Francesco aveva confessato un
debole insospettato per gli anni e le musiche della sua giovinezza. E
anche stavolta, tenendo a freno la lingua rock e spigolosa che
caratterizzava tanta parte di “Pezzi”, torna in un paio d’occasioni
a rivisitare l’ingenua freschezza dei Sessanta: succede nella
deliziosa “La linea della vita”, musica leggera ma pensante con
tanto di coretti e vellutata pedal steel che farebbe la sua figura anche
in un juke box, ce ne fossero ancora; e in “L’amore comunque”, una
specie di lento da mattonella non fosse per il testo che Rita Pavone o
Nico Fidenco non avrebbero mai potuto cantare. Sono canzoni d’amore,
per la maggior parte, come suggeriscono i richiami nei titoli alle
malattie del cuore e alla figura classica della ninfa Calypso, mentre la
“politica” amara e disorientata del disco precedente se ne va lei
pure in soffitta. La band che lo accompagna è quella solita, con
Arianti, Svampa, Bardi, Giovenchi, Valle e Guido Guglielminetti (anche
produttore) a ricamare con perizia e misura, mentre il titolare suona
pochissimo e pensa a scrivere e a cantare: ci sono ancora tante e belle
chitarre, scrupolosamente annotate per marca e per modello nei crediti
brano per brano, e un assolo alla Mark Knopfler (in un pezzo, “Mayday”,
che vive soprattutto di quello). Ma ci sono anche ballate classiche alla
De Gregori per voce e pianoforte come “Cardiologia”, e calypso
leggeri (rieccolo il titolo…) come “L’angelo” in duetto con Lucy
Campeti, una di quelle parentesi spensierate a cui il cantautore ci ha
abituati almeno dai tempi preistorici di “Banana republic”. E’ un
album, questo, che preferisce le rotondità agli spigoli, una certa
malinconia composta allo sdegno civile, l’universalità dei sentimenti
all’attualità dello scontro ideologico. E non è che siano tutte dei
capolavori, le 9 canzoni nuove: la struttura rock della citata “Mayday”
è didascalica, e non lascia traccia la conclusiva “Tre stelle”, un
evanescente pop soul e un clarinetto swing a far da sfondo a metafore
fin troppo prevedibili. Però è anche il disco di un Autore, e ogni
volta salta fuori una linea vincente (“Che dell’amore non si butta
niente”, canta Francesco con la sua bella voce piana in “Cardiologia”),
uno squarcio poetico, un lampo da brivido. Per esempio quella fotografia
cruda, soleggiata e sonnacchiosa che è “Per le strade di Roma”, un
omaggio lucido, agre e affettuoso a una città dove “sono arrivati i
Turchi all’Argentina” e i ragazzi “sognano di fare il politico o l’attore/E
guardano il presente senza stupore”. O quel piccolo incanto per gruppo
rock e quartetto d’archi che è “La casa”, istruzioni di bricolage
domestico e semplici proponimenti che valgono anche per la musica pop:
che può diventare un rifugio accogliente per chi ascolta, con quattro
porte ai punti cardinali “che ci possa entrare il cane/quando sente i
temporali”. Anche a questo servono le canzoni, e il De Gregori “estroverso”
e generoso degli ultimi anni sembra esserne diventato sempre più
consapevole.
(Alfredo
Marziano – Rockoil.it)
De
Gregori, il poeta ritrova la sua musa
Meno
rock e politica ma più melodia nel nuovo album del cantautore romano,
Calypso, in uscita a metà febbraio
(di
Enrico Deregibus su Kataweb)
Calypso.
Si chiamerà così il nuovo album di Francesco De Gregori, in uscita a
metà febbraio (il 17 anche se non ci sono ancora notizie ufficiali). Un
titolo dele genere, in grado di far pensare ai tropici come alla
mitologia greca, lascia un grande margine di spazio per immaginare cosa
possa contenere. A ogni buon conto gli elementi di sorpresa dovrebbero
essere molti.
Il
primo è certamente la pubblicazione in sè, visto che l'ultimo disco di
De Gregori, Pezzi, è uscito solo alla fine di marzo dell'anno scorso e
ormai da tempo, si sa, i lavori in studio degli artisti più importanti
sono centellinati. Avvengono a piccoli sorsi, a volte perché son di
pregio, a volte perché le botti sono vuote. Lo stesso cantautore romano
dagli anni Novanta ha tenuto una media di quattro anni fra un'uscita e
l'altra.
Calypso
oltre a essere il titolo del disco è anche una delle canzoni, che in
tutto saranno nove, prodotte come ormai d'abitudine da Guido
Guglielminetti. Il quale ha solo anticipato che: "Di questo disco
ci sarà da discutere per tutto l'anno. Credo che rimarrete
scioccati".
Le
voci sull'album sono molte, circolano anticipazioni plausibili e altre
molto meno. Su un 'blog' sono comparsi addirittura i titoli e i versi di
alcune canzoni ma era una notizia totalemente priva di fondamento (i
titoli erano del tutto inventati e i versi appartenevano a canzoni di
altri, più o meno note) anche se il quotidiano 'L'Unione sarda' ha
ripreso le indiscrezioni dandole per sicure.
Quel
che è certo è che Calypso (già titolo di un vecchio album di Ron) sarà
meno rockettaro di Pezzi, più melodico, e tendenzialmente meno incline
a tematiche politiche e sociali. Una sorta di altra faccia della
medaglia rispetto al precedente. Come mai questa uscita a ridosso? La
spiegazione si trova in una parola: ispirazione. Che, come disse De
Gregori una volta, "effettivamente esiste, anche se scevra da
qualunque romanticismo".
Prima
di Pezzi il cantautore aveva infatti confessato di non avere grandi
stimoli di scrittura, da una parte gli sembrava di aver già detto molto
e dall'altra non aveva intenzione di ripetere cose già dette. Ma il
vento è cambiato. In occasione delle interviste per Pezzi, De Gregori
aveva rivelato di aver composto molti altri brani oltre quelli e aveva
anche anticipato l'intenzione di non aspettare quattro o cinque anni per
un nuovo disco. Addirittura alla pubblicazione dell'album di Jovanotti
Buon sangue se n'era uscito con una battuta: "Con un titolo così
avrei già un disco di canzoni pronte".
A
novembre, prendendo tutti in contropiede e non seguendo i consigli dei
discografici lo invitavano ad aspettare (da Pezzi è stato da poco
estratto il terzo singolo, Passato remoto), è entrato in studio e c'è
rimasto fino alla fine di dicembre. Controcorrente per l'ennesima volta,
come quando nel 1990 pubblicò tre dischi dal vivo in contemporanea e
come quando nel 2003 uscì con il disco di brani della tradizione
italiana Il fischio del vapore insieme a Giovanna Marini.
Calypso
sarà nei negozi a meno di un anno da Pezzi (25 marzo 2005) gratificato
da parecchi riconoscimenti anche recenti. Quelli della critica, che l'ha
premiato come miglior disco dell'anno con la Targa Tenco 2005 e nel
consueto referendum della rivista di settore 'Musica e dischi'. Ma non
solo. Il brano Gambadilengo a Parigi ha vinto un gioco sulla canzone più
emozionante dell'anno fra i lettori della 'Stampa' di Torino, mentre
l'intero album è in testa al referendum fra quelli del 'Corriere della
sera' sul più bel disco del 2005. De Gregori ha sbancato anche con
lettori di 'Repubblica': proprio in questi giorni il suo Titanic è
stato scelto come miglior album degli ultimi trent'anni, davanti a
dischi di Pink Floyd, De André, U2, Guccini, Springsteen, Clash e altri
mostri sacri. (18 gennaio
2006)
De
Gregori: ‘Ecco come sarà il mio nuovo album’
Fresco
di incoronazione per il suo album del 1982, “Titanic”, il più bel
disco degli ultimi 30 anni secondo un sondaggio di Repubblica, Francesco
De Gregori ha rilasciato una lunga intervista a Michele Serra nella
quale, a sorpresa, annuncia l’imminente pubblicazione di un nuovo
lavoro discografico. L’album, in vendita da metà febbraio, arriva a
meno di un anno da “Pezzi” e s’intitola “Calypso”. “L’ho
scritto in un mese”, racconta il 54enne cantautore romano. “E’
stato registrato e mixato in venti giorni, per giunta mentre avevo
ancora nelle orecchie il disco precedente. Sono meravigliato io stesso,
ma si vede che ne avevo bisogno, l’arte è una medicina contro i mali
della vita. Mi sto scoprendo una tenerezza tardiva per i ferri del
mestiere, addirittura un amore senile per la sala di registrazione, uno
studio come quello di una volta, sala grande, ampio spazio per l’ingombro
fisico degli strumenti, nessuna fredda miniaturizzazione tecnologica. Mi
hanno chiesto com’è il disco? Ho risposto: intimo. Parla dei conti
non risolti con l’amore, che rimane un momento di grande
indecifrabilità. Si Chiama ‘Calypso’, parla dei rapimenti d’amore:
Il riferimento è più alla ninfa che fece innamorare Ulisse che al
ballo, anche se una canzone è dedicata proprio al ballo. E un’altra,
‘Cardiologia’, alla scienza del cuore, ammesso che sia una scienza,
quella…”.
da www.rockol.it
Il
pubblico È conservatore. Sente una canzone in un certo momento della
sua vita e quella resta sempre la stessa
Intervista
alla vigilia del tour
"Con il cuore piantato nel
mondo". "Viva l'italia",
ho lasciato per la prima volta che fosse utilizzata nella campagna
referendaria sulla Costituzione di PAOLO D'AGOSTINI
ROMA
- Questa conversazione con Francesco De Gregori avviene alla vigilia
del Calypsos Tour che dall'11 luglio lo porterà in giro per l'Italia
con il disco (Calypsos, appunto) uscito lo scorso inverno. È il caso
di avvertirlo che chi gli fa le domande stavolta non è un giornalista
musicale, che non saranno domande musicali. Non si preoccupa, unico
sbarramento la vita privata. La politica sì, con l'avvertenza:
"sono solo un cantante".
È
giusta l'impressione che ogni disco, forse ogni singolo concerto,
siano segnati da un sentimento?
"Forse
è così, ma a me risulta chiaro solo a posteriori. Se mi guardo
indietro m'accorgo che qualche volta il mio lavoro è stato
contrassegnato da un maggior interesse verso il mondo, la politica, la
storia: Titanic per esempio. Mentre al contrario Rimmel parla del
cuore. In realtà le cose s'intrecciano ed è difficile districarle,
anche il cuore non sta sulla luna ma sta piantato nel mondo. Poi c'è
un mio normalissimo processo di crescita e anche di decadenza. Di
sostituzione di alcuni sentimenti con altri. Non un'accresciuta
capacità di maneggiare i ferri del mestiere, non sono diventato più
bravo a scrivere canzoni di quanto fossi trent'anni fa".
In
tanti restano male quando lei canta una sua canzone famosa cambiandola
(ride e dice "non mi offendo"). Vuol dire che il pubblico è
conservatore e che limita la libertà artistica? E che lei si difende
e si ribella? Con un po' di malignità, perché così impedisce al
pubblico di cantare con lei nei concerti.
"Il
pubblico è conservatore, e forse ha ragione di esserlo. Va a sbattere
addosso a una canzone in un certo momento della sua vita e quella
canzone resta esattamente come l'ha sentita quel giorno. Ma per me è
un giorno di vent'anni, di trent'anni prima. Per me che l'ho scritta
quella canzone non resta cristallizzata, per me che ci lavoro con le
canzoni è fatale che cambino e si rinnovino. Sarei truffaldino se
rimanessi fermo a quello che è stato vero nel '75 o nell'80 e non può
essere rimasto tale e quale. Il pubblico può cantare le mie canzoni,
ci mancherebbe, basta che non pretenda che io le canti come le canta
lui.
Naturalmente
nessuno può impedire di pensare che, rifacendola, quella canzone l'ho
rovinata".
Una
delle sue canzoni in particolare è stata più volte piegata a un uso
politico, da destra e da sinistra. È Viva l'Italia. Quest'anno per la
prima volta, per la campagna sul referendum costituzionale, lei ha
acconsentito.
"Ho
detto di sì per la prima volta perché mi sembrava importante
contribuire alla vittoria del No. In generale non mi piace ma questa
volta negarla sarebbe stato solo spocchioso. La prima volta fu usata
dal Movimento sociale, che non mi ricordo se già si chiamava Alleanza
Nazionale. La seconda volta dal Psi di Craxi. In entrambi i casi
espressi malumore e disappunto. Più di questo è difficile fare
specialmente se, come nel primo caso, la canzone non viene usata per
una campagna - che implica la richiesta del permesso a editore e
autore - ma eseguita in una festa di partito dove basta che paghi la
Siae senza bisogno di alcun consenso. Più che dire: ma l'avete
sentita bene? "l'Italia liberata", "l'Italia che
resiste": voi che c'entrate? Non vi riguarda, o casomai vi
riguarda al contrario. Non è che siano stati grandi drammi della mia
vita comunque. Woody Guthrie si ritrovò la sua "This land is
your land" come colonna sonora pubblicitaria di una marca di
latte".
Esce
in questi giorni un'antologia intitolata "L'Italia del Novecento
nella poesia del Novecento" (Ediesse editore) che include molti
testi di canzoni e tra queste Viva l'Italia.
"Questione
molto dibattuta e, per me, pessima cosa. Mi sembra talmente semplice:
la poesia trova la sua musicalità e il suo ritmo nelle parole mentre
il testo di una canzone viene scritto in funzione della musica, quindi
la parola non è autonoma. La canzone senza musica è mutilata. Io non
voglio figurare così accanto a Zanzotto, anche se penso che Viva
l'Italia sia una bella canzone: ma con la sua musica. Come se
togliessimo la punteggiatura a una poesia. Trovo che sia un omaggio
non richiesto, non mi sento più elevato se paragonato a un poeta, non
l'ho mai preteso".
Per
una lunga stagione - tra anni 80 e 90 - la sua figura associata ad
altre (due nomi per tutti: Nanni Moretti, Altan) è stata un simbolo
di resistenza morale. Una forzatura, un condizionamento, perfino un
equivoco?
"Io
personalmente come altri personalmente possiamo essere stati percepiti
come oppositori perché abbiamo espresso disagio e dato voce al
disagio nei confronti di un percorso contrario a tante speranze.
Naturalmente se gli artisti diventano surrogato della politica questo
indica un fallimento della politica. Oggi non mi tiro indietro, sono
sempre lo stesso e non ho cambiato le mie idee ma leggo i giornali in
modo più disattento, con più distacco dalla partecipazione sofferta.
Sono contento che Prodi sia al posto di Berlusconi, ma non mi sveglio
con la smania di sapere che cosa ha dichiarato Pecoraro Scanio.
Preferisco ammirare un bel quadro o dedicarmi a un bel libro di
filosofia".
C'è
la canzone d'amore per definizione senza tempo (Buonanotte
fiorellino), quella che invece trae ispirazione da un tempo e da un
luogo storicamente riconoscibili (Il cuoco di Salò o San Lorenzo), e
quella che difende un'idea, un principio, un valore (Generale). Che
differenza c'è, c'è una gerarchia artistica?
"La
prima differenza che mi viene in mente è che Il cuoco di Salò non la
canto mai dal vivo per paura che qualcuno si alzi in platea e gridi
"viva il duce" o anche "a morte i fascisti".
Vorrebbe dire comunque non essere riuscito a farla capire. Detto
questo per me non c'è molta differenza: anche la canzone
"storica" nasce nello stesso posto dove è nata Buonanotte
fiorellino, il cuore".
Lei
pratica un'arte popolare, che sta nel mercato e le fa guadagnare
denaro. C'è dentro di lei un'anima rigorista che le dice di dover
espiare la "colpa" della ricchezza?
"No.
Sono uno che guadagna bene ma ha anche e sempre pagato molto bene le
tasse. Non mi sento colpevole e non mi sforzo di sentirmi
colpevole".
Quanto
conta per lei il cinema?
"Bufalo
Bill non l'avrei potuta nemmeno pensare se non avessi visto il film La
ballata di Cable Hogue di Peckinpah. Le parole "Il mio amico culo
di gomma famoso meccanico" nascono da lì, da quel personaggio
del West al tramonto che viene schiacciato dalla prima automobile. Fa
parte della mia cultura "da liceale" che a volte mi è stata
rimproverata".
Sotto
elezioni lei è uscito con un disco dal profilo intimista, Calypsos.
Il contrario del Caimano di Moretti.
"Penso
che entrambi abbiamo agito liberamente, io parlando di sentimenti e
lui di Berlusconi. Elezioni o non elezioni".
(8
luglio 2006)
C'è
adrenalina nell'aria, carne fresca che gira. Polvere sulla strada e
gente che se la tira
E a tocchi a tocchi una campana suona per i gabbiani che calano sulla
Magliana
E spunta il sole sui terrazzi della Tiburtina e tutto si arroventa
e tutto fuma. Per le strade di Roma
Ci
sono facce nuove e lingue da imparare. Vino da bere subito e pane da non
buttare
E musica che arriva da chissà dove e donne da guardare
Posti dove nascondersi e case da occupare, che sono arrivati i Turchi
all'Argentina
e c'è chi arriva presto e chi è arrivato prima. Per le strade di Roma
E
c'è un tempo per vendere e un tempo per amare e
E
c'è uno stile di vita e un certo modo di non sembrare
Quando la notte scende e il buio diventa brina e uomini ed animali
cambiano zona
Lucciole sulla Salaria e zoccole in via Frattina e tutto si consuma e
tutto si combina.
Per
le strade di Roma
E
a tocchi a tocchi una campana suona per i ragazzi che escono dalla
scuola
E sognano di fare il politico o l'attore e guardano il presente senza
stupore
Ed il futuro intanto passa e non perdona. E gira come un ladro per le
strade di Roma
________________________________________
Alessandro
Svampa: batteria
Guido
Guglielminetti: basso elettrico 5 corde
Alessandro
Arianti: Oberheim, Nordlead, Minimoog
Alessandro
Valle: pedal steel guitar
Francesco
De Gregori: chitarra Martin D42
Paolo
Giovenchi: chitarre Fender Telecaster, Gaglio
Odisseo
a Roma
di Stefano Mannucci
«IO
RISPETTO tutti quelli che credono in un qualunque Dio, ma vorrei che
loro credessero più negli uomini. Se penso a queste forme di monoteismo
che oggi creano grande preoccupazione nel mondo, mi viene da rimpiangere
gli dei della classicità. Quel delizioso Olimpo pieno di personaggi un
po’ alla Disney, dove trovavi una Minerva dispettosa, un Nettuno
incazzoso, un Giove un po’ mollicone e tormentato dalla moglie. Dicono
che comandasse sugli altri, ma poi non si capisce quanto contasse
davvero. Quella era una forma di religione estremamente gradevole». È
di buon umore, De Gregori, malgrado una fastidiosa allergia. «Non alle
interviste», assicura lui ridendo, e questa è già una notizia.
Refrattario a infilarsi nelle sabbie mobili della politica - proprio lui
che l’impresario David Zard definisce come «l’unico sincero
cantautore di sinistra» - Francesco preferisce parlare di miti, per
commentare questo suo smagliante nuovo album, che non a caso si intitola
"Calypsos". «Con quella "s" da plurale
angloamericano, perché qui non parliamo solo di una ninfa, ma di tante
donne, e dell’indecifrabilità delle passioni. Ecco, questo è un
disco sui sentimenti, che sono pericolosi ma splendidamente necessari.
Perché la vita ha sapore quando l’anima si contorce per il
batticuore, quando l’uomo rischia di scoprire il dolore inseguendo la
felicità». De Gregori, Calypso non riesce a trattenere Ulisse sull’isola
Ogigia, malgrado le promesse di amplessi eterni in «grotte profonde».
Quello monta su un tronco, sfida il mare grosso e gli dei contrariati, e
tenta di fare rotta verso casa. È l’archetipo dell’uomo moderno,
no? «Attenzione. Calypso gli offre tutto, ma in cambio della libertà,
dopo sette anni di sequestro. Non voglio ci si vedano altre simbologie,
in filigrana, tranne l’imperscrutabilità dell’attrazione. Insomma,
Ulisse piange sulla spiaggia, ma la sera prima di partire fa sesso a
go-go con la ninfa. E lei, che lo tiene prigioniero, si comporta in modo
contraddittorio. Lo aiuta a prendere i tronchi, a caricare la zattera.
Non lo caccia via, ma quasi. Il suo è un atteggiamento incoerente. E
Calypso è una divinità. Non come Didone, che è pienamente donna, e
della quale comprendiamo la disperazione, una volta che si innamora di
Enea». Perché Ulisse deve andare: Omero pretende l’happy end a
Itaca. Poi, fatta strage di Proci, si stufa e riparte. Dante lo fa
naufragare oltre le colonne d’Ercole, altre leggende balcaniche lo
vedono come un esploratore di nuove terre, un re venuto dal mare con un
remo per scettro. «Già. È l’uomo condannato al viaggio. È il suo
tormento, il suo desiderio, il germe della conquista e della scienza.
Tutti subiamo la fascinazione di un percorso da intraprendere. Salgari o
Pessoa viaggiavano con la mente, senza muoversi da casa. E su Internet
ci illudiamo di navigare. Al contrario, gli animali non amano viaggiare:
si spostano per freddo, o per fame». Su questo nuovo disco c’è un
omaggio agli alberghi a «Tre stelle». Curioso, perché i musicisti
cantano spesso
l’alienazione della vita in tournée. «In questi hotel di medio
livello trovo spesso più umanità e pulizia di quelli di gran lusso,
dove magari il portiere ti parcheggia la macchina ma non c’è un clima
accogliente e familiare. Questi alberghetti "ai margini della
statale" li devi saper cercare. Sono un antidoto alla solitudine
tipica del nostro mestiere». Che la rivedrà presto sulla strada per
altri tour, immagino. «La parola tour mi fa venire l’orticaria, mi
ricorda i viaggi di formazione degli intellettuali del Settecento. Farò
una ventina di concerti in estate, sotto le stelle, come si conviene.
Per tenere sotto controllo la band». E per tenere sotto controllo anche
gli eventi, come in quella notte di tregenda a Villa Borghese, qualche
mese fa. «Una serata in qualche modo magica, malgrado la pioggia da
tropici e il guasto all’amplificazione. Una di quelle volte in cui il
pubblico di gratifica oltre ogni misura». Che ne è dell’ipotesi di
un concerto per Roma assieme a Zero, Venditti e Baglioni? «Francamente
non ne ho mai sentito parlare. Non vorrei sembrare scortese, ma facciamo
musiche così diverse che mi parrebbe complicato organizzare il tutto. E
poi non ho mai sentito l’appartenenza a una forma di
"scuola" musicale romana. È un’invenzione mediatica. Le mie
prime canzoni dovevano molto a milanesi come Jannacci o i Gufi, a un
genovese come De Andrè. Noi romani ci incontravamo talvolta al bar dell’Rca
o al Folkstudio, ma non avevamo una sensibilità comune, né uno stile
condiviso».
E questa nuova canzone, "Per le strade di Roma"?
Immagini pasoliniane e poi quei due versi che spuntano come una lama di
coltello: "uomini e animali cambiano zona/lucciole sulla Salaria e
zoccole in via Frattina". «Che non vorrei spiegare, perché quando
l’autore chiosa i suoi testi, in qualche modo li impoverisce. Quanto a
Roma, forse era destino che ne scrivessi ora. Ho un rapporto bellissimo
con la mia città, che si lascia scoprire ogni giorno, anche se ci abiti
da una vita. Magari ti inoltri in un vicolo e trovi un mondo nuovo.
Certo, questa che canto non è la Roma che "nun fa la stupida
stasera", ma quella che incarna tanti problemi del mondo di oggi;
un crocevia di problemi globali che qui prendono forma in modo evidente,
drammatico. Con questo finale in cui "il futuro si aggira come un
ladro". Non chiedetemi quale sia, il suo avvenire. Lo immagino come
Hermes, per tornare alla mitologia. Si nasconde nelle strade, non so
cosa voglia rubare. Su questo, non ho profezie da fare». Un altro brano
vede protagonista un angelo. Fa il paio con "L’arcangelo" di
Ivano Fossati. «Curioso no? Se ci fossimo telefonati...Il ritmo è,
quello sì, l’unico vero calypso dell’album. Quanto all’angelo,
lui passa e con dolcezza ci dice di non aver paura. Ci annuncia la
nostra incessante trasformazione, i nostri passaggi. È un pezzo sulla
vita e sulla morte». Un anno fa mi disse che non avrebbe più suonato
dal vivo una cosa politica come "La storia", perché si diceva
disilluso sulla possibilità che le genti determinino il proprio destino
collettivo. Poi cambiò idea. «È bello che un musicista si
contraddica, no? Non c’è bisogno di fare dietrologia. Uno dei miei
musicisti avrà accennato il riff di quella canzone, avremo trovato un
nuovo arrangiamento intrigante, e sarà tornata in repertorio». Ma la
poesia civile ha davvero un senso, oggi? O è piuttosto un passaggio
obbligato per un certo coté artistico? «Può avere una sua funzione, a
patto di non prenderla come un obbligo o una missione, né a leggerla
né a scriverla. È una delle tante possibilità, ma l’impegno fine a
se stesso non ce lo ordina il dottore. E neppure il commentario
politico. Mi astengo, lo lascio volentieri a tanti colleghi». Beh, in
un mondo di cattivi maestri ci indichi almeno un esempio da seguire.
«Il Dalai Lama. E non se ne parli più».
(Il tempo - giovedì 16 febbraio 2006)
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