L'AMICO MANDOLINISTA "SOPRAFFINO"
Un ricordo di Marco Rosini,
scomparso dopo le session dell'album "Pezzi"
Aveva salutato la band il 23 dicembre, ultimo giorno di registrazione di
"Pezzi", con l'idea che si sarebbero rivisti dopo le festività per le
prove del nuovo tour. Ma il destino aveva in serbo qualcosa di diverso per Marco
Rosini, mandolinista di De Gregori da quattro anni, colpito da infarto il 30
dicembre, mentre era in casa con la moglie Anna.
Quarant'anni compiuti da poco (era nato a Roma il 2 maggio 1964), Marco aveva
imparato a suonare il mandolino a 12 anni, formando varie band il cui nucleo si
sarebbe poi evoluto nei New Country Chicken, formidabile combo bluegrass che,
dopo anni di gavetta, esordirà nel 1997 con l'album "Jamgrass",
macinando concerti su concerti e partecipazioni a festival bluegrass negli Stati
Uniti nel 2000 e nel 2003.
Marco incontrò Francesco nel 2000. Il Principe, che era alla ricerca di un
suono nuovo per il suo album "Amore nel pomeriggio", lo arruolò in un
gruppo che, al fianco del veterano bassista Guido Guglielminetti, si apprestava
a cambiare completamente faccia. Una band che, da allora, è rimasta pressoché
invariata fino ad oggi: Paolo Giovenchi alle chitarre, Alessandro Svampa alla
batteria, Alessandro Arianti alle tastiere.
E Marco
Rosini, che col suo mandolino ha arricchito la musica di De Gregori
di una nuova componente country e bluegrass. Marco ha partecipato a tutti i tour
del cantautore a partire da quello di "Amore nel pomeriggio", che
hanno fruttato un paio di dischi dal vivo ("Fuoco amico" e
"Mix", quest'ultimo pure in dvd), offrendo i suoi servigi anche ai
progetti di Francesco a quattro e otto mani (rispettivamente, "Il fischio
del vapore" con Giovanna Marini e il tour, con tanto di live album, con
Pino Daniele, Fiorella Mannoia e Ron). Era un musicista di notevole tecnica e
dall'energia e l'entusiasmo contagiosi, che amava prendersi in giro per le dita
tutt'altro che affusolate (le chiamava i wurstel…) capaci però di esplorare
la tastiera del mandolino con una grazia miracolosa.
De
Gregori, che lo definiva "mandolinista sopraffino", non ha
indicato in alcun modo la tragedia nel booklet di "Pezzi".
Una dedica, forse, sarebbe stata troppo banale per uno come il Principe. Ma
ha preteso che venisse rifatto l'artwork per inserire al centro del libretto una
bella foto di Marco, immancabile sigaretta in bocca, durante una pausa delle
registrazioni, felice in mezzo ai suoi compagni e agli strumenti musicali.
Sicuramente chi ha avuto la fortuna di conoscerlo preferisce ricordarlo così.
Mario Giammetti
Ho
messo la testa nel secchio e
nel secchio c'è acqua e sale. Ho
messo la testa nel secchio e
devo bere per non affogare
Ho
messo la testa nel secchio dentro
al secchio per guardare cosa
c'era dentro al secchio e
dentro al secchio c'era il mare
E
chissà quanto ho viaggiato quante
volte sono stato quanti
ponti ho attraversato quante
scale che ho salito
Quando
tu indicavi il cielo mentre
io guardavo il dito e chissà quanto ho viaggiato quante
pagine ho strappato
Quanto
amore ho visto in giro quanto
ne ho dimenticato ma
ho del sangue nei capelli e
non so chi mi ha ferito
E
il treno sta partendo e non
è ancora partito
Ho
messo la testa nel secchio come
in un pozzo per afferrare un
coltello dalla parte sbagliata o
un riflesso lunare
Una
stella camaleonte o una corrente tropicale o
la voce di una donna in fondo al secchio che
ti chiede "Sai nuotare?"
E
chissà quanto ho viaggiato quante
facce sono stato Quante
volte ho chiuso gli occhi quanta
polvere ho mangiato
Quante
volte ho chiesto scusa quante
volte ho perdonato e chissà quanto ho viaggiato quanta
gente ho conosciuto
e
se mi riconosceresti dopo il
tempo che è passato, come
sabbia dentro al vetro come
vento sul vestito
E
il treno sta partendo e non
è ancora partito
Ho
messo la testa nel secchio come
in un sogno da attraversare come
chilometri di luce nera come
un bagaglio da recuperare
nelle
stazioni di mezzanotte senza
volermi svegliare per
qualcosa che non ha orario. Ma
non può aspettare
E
chissà quanto ho viaggiato Quante
carte ho rivoltato. Quante
volte ho preso l'asso Quante
volte l'ho buttato
Quante
volte l'ho visto il sole Quante
volte l'ho guardato e chissà quanto ho viaggiato e
se sono mai arrivato
Se
ho scommesso, se ho pagato Se
ho promesso ed ho tradito. Quante
volte ho confessato senza
essermi pentito
E
il treno sta partendo e non
è ancora partito
Qui
invece c'è molto più sapore di Leonard Cohen. Un testo quasi
apocalittico, direi, dove si concentrano le buone intenzioni della
propria esistenza, le sofferenze accumulate ("ho del sangue nei
capelli / e non so chi mi ha ferito") e tutti i dubbi che, in un
modo o nell'altro, restano decisi a restare ("e il treno sta
partendo / e non è ancora partito"). Le metafore dell'ultima
strofa sono sorprendenti, ispiratissime. La musica ricorda addiriturra
The future del Cohen, ma l'atmosfera è diversa, più angosciante e
meno rabbiosa - sempre volutamente (Antonio Piccolo).
Primo
appuntamento a Cesena - De Gregori apre il tour con un rock essenziale
DAL
NOSTRO INVIATO
CESENA
– Poi arriva il confronto col pubblico, e Francesco De Gregori deve
ricomporre il puzzle che campeggia sulla copertina del suo nuovo cd,
Pezzi . L’altro ieri a Cesena, all’anteprima del suo tour, De
Gregori ha inserito soltanto tre nuove canzoni, non fa parte del suo
Dna l’idea del giro promozionale. Ma il 19 a Roma e il 21 al Forum
di Assago prenderà più confidenza col repertorio più fresco.
L’impronta del concerto, però, è la stessa: apertura al rock nudo
e un’inedita gran voglia di divertirsi.De Gregori esce come un lampo
nell’ombra, con fare sbrigativo. Si avverte subito una forte
tensione, sonorità scintillanti, chi cerca il menestrello folk è
fuori strada. De Gregori si presenta con il gruppo di sempre, ed ecco
una serie di sciabolate delle chitarre elettriche che affondano sul
petto di un mondo aspro, crudo, amaro. Non uccide certo il
"padre", Bob Dylan, che è invece sempre più un
riferimento, e non solo stilistico. La società scheggiata e in
frantumi, il puzzle insomma, è un cielo di nuvole inquiete e basse,
"senza riparo", in un vortice di ritmi serrati e rabbiosi
che prendono corpo da un palco disadorno. In De Gregori, Dylan c’è
nel non assurgere a "maestro", in una certa imprevedibilità,
nella voce irregolare che s’impenna e a tratti è sbieca, anche se
non è lavorata dal tempo come quella di Bob. Ma anche questa è una
lama ghiacciata che frena e accelera dove gli pare, mentre disegna
percorsi sonori di vetro, di cemento e di fumo. Il mosaico si compone
via via e nei tasselli si può scorgere la banalità del male e uno
smarrimento consapevole, mentre la politica ora è l’eco di una
campana rotta, non siede più in prima fila perché non può salvare
nulla, qui "ognuno è libero col suo destino", vittima e
assassino. Ma sì, brucia sulla pelle il sipario di fiamme di
Francesco De Gregori, che corre controvento senza sventolare bandiere,
senza ammainare l’integrità e la coerenza, il rigore e la purezza.Non
ci sono rimpianti, non è il concerto di un ricordo. C’è sempre un
personaggio di cartapesta, buffo e malinconico, che domina, può
essere "La donna cannone" data come secondo bis. Il nuovo
eroe, che farà capolino nei prossimi concerti, si chiama Gambadilegno
a Parigi , il reduce di guerra, mutilato, che si cambia la protesi e
inciampa per strada, goffo e ridicolo, vuole sfuggire al suo inverno e
sogna Atene, l’infanzia della democrazia, il laboratorio dove
nascevano le nuove idee; una storia avvitata su quattro note, con un
flusso melodico asciugato, dolce e spontaneo, la semplicità come
punto d’arrivo. Il puzzle deve fare i conti con l’ambiguità di un
sapore rock più vigoroso che però non rinnega la bellezza del
"canto", la matrice italiana. Ma non è questo il tour del
De Gregori cantautore.Valerio Cappelli (Corriere della Sera -
13.5.2005)
Sono nuovo e vorrei porvi una mia piccola
recensione di "Pezzi".Dico subito che ho aspettato quasi un
mese per assimilare l'album che non è per niente di facile ascolto (e
di facile lettura). All'inizio anche io come altri sottovalutavo la
potenza ispiratrice di questo album, poi, lentamente ho carpito nuovi
elementi e nuove chiavi di lettura e di interpretazione.
Questo
album è certamente uno dei migliori degli ultimi venti anni che ha
saputo concepire il principe. Senza se e senza ma. Inizio a cimentarmi
con il singolo, poi quando avrò tempo ,cercherò di analizzare gli
altri pezzi della tracklist.
Vai
in Africa Celestino!
Una
canzone diretta che è un lucidissimo affresco (o meglio un vero e
proprio "puzzle" di pezzi) della nostra società. Il
riferimento a Celestino V il Papa "disobbediente" che
rifiuta il pontificato è un riferimento paradigmatico. La via di
uscita di fronte alla confusione indecifrabile della post-modernità
fatta a "pezzi" è appunto il "rifiuto"
dell’esistente o meglio, l’esodo dal potere."Io, Celestino V,
spinto da legittime ragioni, per umilta' e per desiderio di miglior
vita, abbandono liberamente e spontaneamente il pontificato e rinuncio
espressamente al seggio, alla dignita', al peso e all’onore che esso
comporta".La figura di Celestino V, condannato da Dante come
"vigliacco" e storicamente considerato tale, viene invece
riscattata da De Gregori che ne evidenzia la valenza positiva e
lungimirante, la forse unica soluzione di fronte ai problemi del
presente.
"Fuga,
esodo, diserzione, non hanno mai goduto di buona fama, invise, come
sono, tanto all'ordine dello sfruttamento capitalistico quanto agli
edificatori del "mondo nuovo". Non a caso il socialismo di
stato e l'ideologia tradizionale del movimento operaio le hanno
combattute con ogni mezzo, traducendone il significato in
"rinuncia", "disfattismo", "tradimento"
dell'interesse generale."
Marco
Bascetta, La mobilità ribelle, Il Manifesto
"L’esodo
è un percorso sempre doloroso, per definizione. Ma nell’esodo vi è
anche un principio di coraggio e scoperta, l’esodo segna un punto di
rottura che non è mai solamente una fine. È per lo più un inizio.
Ci si può dunque allontanare dalla propria radice, dal proprio mondo
di appartenenza, perché li si tradisce o perché ci si sente da essi
traditi."Andrea Boraschi, Per chi viene da sinistra quale esodo?,
Diorama Letterario
L’esodo,
il distacco, che De Gregori filtra nella canzone si riflette nelle sue
scelte personali nel guardare sempre piu’ in modo scostante
l’evolversi della realtà. Nella canzone si toglie il lusso di
mettere il teatrino della politica tutto sullo stesso
piano:"Pezzi di maggioranza \ pezzi d’opposizione"E
ancora, in un’intervista:"La politica di oggi mi ha un po'
annoiato e disilluso. Sono sempre stato di sinistra ed anche alle
prossime elezioni voterò a sinistra ma più per dovere che per
passione anche perché non credo che la politica, così come fatta
oggi, possa risolvere i problemi del mondo, tant'è che siamo sempre
in guerra e la guerra altro non è che il fallimento della
politica".
"Uno
degli approdi possibili all’esodo è accorgersi che la distinzione
tra destra e sinistra non ricalca più alcuna opzione di scelta chiara
sulle questioni fondanti del nostro tempo."Andrea Boraschi , Per
chi viene da sinistra quale esodo?, Diorama Letterario
Così
dal tentativo di ricomporre i pezzi di un mondo allo sfacelo, dove
regna il dawinismo sociale del consumismo e del mercato (Ognuno è
fabbro della sua sconfitta \E ognuno merita il suo destino) nasce
l’unico consiglio che De gregori si sente di dare: "gira i
tacchi e Vai in Africa Celestino!". Un invito a un esodo nello
spazio, come in "Tempo reale" ne sancisce nel tempo:
"se potessi rinascere ancora \ Preferirei non rinascere qua".Il
riferimento all’Africa non è affatto casuale. L’ispirazione viene
direttamente da Pier Paolo Pasolini. Per Pasolini infatti l’Africa
andava sempre più profilandosi come mondo vergine ed incontaminato
rispetto alla disumanizzazione alienante e ai miti del falso progresso
occidentale. Già a partire dalla fine degli anni Cinquanta "Pà"
guardava all’Africa come "unica alternativa" all’impasse
della scelta tra razionalismo e irrazionalismo espressa nei seguenti
versi conclusivi della poesia dal titolo Frammento alla morte,
presente nella raccolta La religione del mio tempo (1961):"Ho
avuto tutto quello che volevo, ormai: sono anzi andato anche più in làdi
certe speranze del mondo: svuotato, eccoti lì, dentro di me, che empi
il mio tempo e i tempi.Sono stato razionale e sono stato irrazionale:
fino in fondo.E ora... ah, lo stupendo e immondo sole dell’Africa
che illumina il mondo. Africa! Unica mia alternativa..."In
un’intervista a Oriana Fallaci in occasione del suo primo viaggio
negli Stati Uniti Pasolini evidenzia di nuovo la contrapposizione fra
New York (città-simbolo del progresso consumistico) e
l’Africa:"Non mi era mai successo di innamorarmi così di un
paese. Fuorché in Africa, forse. Ma in Africa vorrei andare e
restare, per non ammazzarmi. Sì, l'Africa è come una droga che
prendi per non ammazzarti. New York invece è una guerra che affronti
per ammazzarti".
Da
tutto questo ne nasce la canzone piu’ "pasoliniana"
dell’album. E volendo, possiamo ricavare un parallelismo proprio fra
Celestino V e Pasolini, entrambi dei cattolici eretici che criticano
il potere subdolo e alienante della società in cui vivevano.La
struttura rockeggiante ne costruisce infine un’atmosfera di "j’accuse"
e nel contempo la velocità della canzone mette in risalto la
dinamicità dei "pezzi" da ricomporre e la conseguenza
difficoltà nel farlo, e di leggere e assimilare il presente, sempre
piu’ confuso e straziante. (Pillolarossa – Rimmelclub – 10.5.05)
De
Gregori: i miei suoni maleducati
Si
potrà incappare in canzoni da tempo dimenticate come «Atlantide» o in
classici assenti da anni dalle esibizioni come «La leva calcistica della
classe 1968», in un «Buonanotte fiorellino» che anziché suonare come
una ninna nanna sembra piuttosto una sveglia a tempo di rock, o ancora in
qualcuna delle canzoni nuove come «Numeri da scaricare». Certo è che il
De Gregori in scena domani al Forum di Assago nel nuovo show prodotto da
Friends & Partners manterrà la promessa che aveva fatto all' indomani
dell'uscita dell'album «Pezzi»: ovvero un'ampia cavalcata nella sua
produzione, ma «con suoni maleducati».
Una
violenza al repertorio?
«Non
è nelle mie intenzioni. Se avviene io certo non me ne rendo conto.
D'altra parte io non posso essere fedele a qualcosa che è stato creato e
inciso venti trent'anni fa. Può sembrare presuntuoso e categorico, ma un
artista deve essere innanzitutto in sintonia con se stesso, questa è la
moralità di chi fa il mio mestiere».
Ma
chi paga il biglietto ha i suoi diritti…
«Certo.
Ma chi pretende da uno come me di essere il juke box di se stesso vuol
dire che non mi ama. Se rimanessi fermo e immutabile significherebbe che
io non sono più vivo».
Eppure
su Internet qualcuno critica questa svolta stilistica.
«Internet
assomiglia a un angiporto di Marsiglia. È una minoranza rumorosa,
viscerale e priva di autorevolezza critica».
Dunque
esclude che i fan possano rimanere scioccati dalla rilettura rock sporca
delle sue canzoni…
«Il
pubblico mi ha sempre seguito con intelligenza e affetto in questi
percorsi. Poi ci sono quelli che mi hanno accusato, di volta in volta, di
essere ermetico, didascalico eccetera. A questi consiglio di restare a
casa e farsi scioccare dalla televisione e dai reality show».
Una
scelta di canzoni molto elastica che cambia a ogni appuntamento.
«Sì.
Ne ho provate quaranta. Io e la mia band siamo in sintonia totale.
Venticinque anni fa, quando avevo minor padronanza della musica e degli
strumenti, mi attenevo al disco. Andando avanti ho seguito i cicli
naturali del mio rinnovamento. È sbagliato, come fanno certi fans club,
ergersi a custodi di un purismo stilistico che si pretende di imporre
perfino all'artista».
E
allora come definirebbe questa nuova tornata di concerti…
«Due
ore di gioia e vitalità in cui cerco di non far mancare quel che la gente
ama come "Generale" o "La donna cannone". Cerco di
avere sotto il palco facce divertite. Certo i contenuti del nuovo album
"Pezzi" influiscono sul clima dello show, che certamente fa
riferimento allo stato attuale del mondo e della società che nessuna
politica sembra più poter salvare: a pezzi per l'appunto. Ma a pezzi
anche nella sua rappresentazione fatta di canzoni, canzoni, pezzi
giornalistici, servizi televisivi, luoghi comuni, intuizioni».
Con
sincerità, tensione emotiva e aspro realismo De Gregori canta e suona la
chitarra e l'armonica accompagnandosi a Guido Guglielminetti, al basso
elettrico a cinque corde, Alessandro Arianti, al pianoforte, hammond,
fender rhodes e tastiere, Paolo Giovenchi alle chitarre acustiche ed
elettriche, Alessandro Svampa alla batteria e percussioni, Alessandro
Valle al pedal steel guitar e alla chitarra e Lucio Bardi alle chitarre.
Il menestrello di tanti anni fa è lontano. DE GREGORI, Forum di Assago,
Milano, ore 21, biglietti 30/ 22 e , più prevendita. Per info tel. 02.
48.05.73.29
Mario
Luzzatto Fegiz 20 maggio 2005
Il
più bel sogno fu il sogno
non sognato
E
il miglior bacio quello non
restituito
Ed
il più lungo viaggio fu quel
viaggio che non fu iniziato
E
fu senza saluto il più
compiuto addio
Consegna
il mio stipendio al Dio dei
ladri
raccogli
le mie vesti e spargi il sale
Se
vuoi ti puoi tenere i libri e i quadri oppure
puoi buttarli tu
Il
più bel giorno fu il giorno
consumato
ed
il più dolce fiato quello
trattenuto
Durò
una vita intera l'ultimo
minuto
E
non fu mai passato il tempo che passò
Quel
pomeriggio che ti ho detto
"Scusami
ma qualche volta chiamami anche tu"
E
ancora adesso non ci posso credere che
non ti avrei rivisto più.
"Passato
remoto" parte da una semplice e solo apparentemente strana constatazione: a
me dà gioia il sogno non sognato. Se ripenso alla mia vita, scopro che quello
che mi ha dato gioia è ciò che non sono riuscito a fare. Una bella donna che
ho visto passare per un attimo e che non ho fermato, ad esempio. Il miglior
bacio è quello non restituito. Il brano si è messo in moto da qua. Fino al
verso chiave per scardinare la canzone: "E fu senza saluto il più compiuto
addio"».
Inizialmente
ho trovato fastidioso il cantato. Poi è diventata la canzone a cui mi
sono più affezionato. Ritorna la canzone d'amore tenue e malinconica
come l'amore finito che vi è raccontato in questa. Breve e azzeccata,
arrangiamento che lascia da parte il rock se non per qualche lieve
eco, e la scelta è più che giusta. Il mandolino di Rosini è
perfettamente esaltato - a differenza che nelle altre canzoni, e
scusate l'impopolarità di queste parole. Gli ultimi versi arrivano
inaspettati per soprendere l'ascoltatore, che percepisce totalmente il
rimpianto di questo rapporto perduto. E questa traccia si aggiudica il
verso, secondo me, più bello dell'album: "e fu senza saluto / il
più compiuto addio" (Antonio Piccolo).
De
Gregori "Ufficiale della Repubblica"
Benigni
"cavaliere", De Gregori "Ufficiale", tra le
onorificenze vip anche gente comune: una badante ed un'anziana maestra
elementare foggiana
ROMA
- Onorificenze al Merito della Repubblica per Roberto Benigni, Fred
Bongusto, Peppino Di Capri, per gli scenografi premi Oscar 2005, Dante
Ferretti e Francesca Loschiavo Di Pontalto, per il compositore Giorgio
Moroder, e per Francesco De Gregori, Angelo Branduardi e Fiorella
Mannoia. Ci sono molti personaggi dello spettacolo tra i 58 nomi
insigniti con le onorificenze dell’Ordine al Merito della Repubblica
dal capo dello Stato Carlo Azeglio Campi, in occasione della festa
della Repubblica. Onorificenze concesse "motu proprio" dal
presidente della Repubblica ad "alcuni cittadini per il lavoro
svolto nella società a favore della solidarietà sociale,
dell’impegno civile, dell’arte, della difesa del patrimonio
artistico, della letteratura, della musica, del cinema, della ricerca,
dell’università e della formazione".
In
principio fu il verbo. Solo parole, perché quelle contavano. Il resto era
chitarre da Folkstudio e pianoforti che sottolineavano bene metafore e
visioni. Poi, cominciò a crescere anche musicalmente, lavorando sui
suoni, cambiando compagni di viaggio per trovare nuove bussole.
Bambini
Venite parvulos fu la molla del materasso che si ruppe e fece saltare il
rock fuori dal letto del cantautore. Era il 1989. Oggi, 16 anni dopo,
Francesco De Gregori è un artista sempre integro che racconta un mondo a
pezzi. E a colpi di rock. Pezzi nel senso di canzoni, ma anche, credo, di
pezzi di vita e soprattutto di vite a pezzi. Tutti i personaggi delle
canzoni hanno brandelli di vita da rammendare, per colpa o per sfortuna.
«La
copertina parla chiaro. Sono pezzi di un puzzle di un'umanità che dev'essere
ricomposta perché fatta a pezzi ogni giorno, un mondo in frantumi dal
quale si vuole fuggire un po' per paura e dolore, un po' per incapacità
di occuparsi della ricostruzione. La realtà è un blob che si può
descrivere solo accettandone la frantumazione. Descrivere i detriti del
nostro tempo in un'unica visione è un impegno terribile. Mi devo
accontentare di qualche pezzo alla volta, senza abbandonare la speranza
che esista davvero un modo per ordinare tutti i frammenti. Io, però, non
lo conosco. Sono pezzi di un naufragio, di qualcosa che è andato alla
deriva». Un disco neorealista, diviso fra incubo e realtà, elementi che
però si mescolano, perché le visioni apocalittiche appartengono al
reale. «Un'allucinazione del reale. Una realtà che sembra fantascienza.
Neorealista nel senso di Rossellini e De Sica, che descrivevano la realtà
con toni forti. Ma non ho inventato niente, purtroppo. Vorrei avesse
l'impronta di Pasolini. Aprirò tutte le date del tour con "A Pa'",
in onore suo. Questo non è un disco consolatorio, quindi potrà deludere
qualcuno. Da una canzone si attende sempre il vento della speranza, mentre
il cinema può essere drammatico e amaro, corroso e devastante. Stavolta,
il corroso sono io». Un filo rosso sembra essere il falso movimento:
"Il treno sta partendo ma non è ancora partito", "il più
lungo viaggio fu quel viaggio che non fu iniziato". È come se tutti
volessero partire, ma non partono mai. Non voglio scomodare la paralisi
joyciana in Gente di Dublino, però qui la gente è ferma al palo del
proprio dolore. «Ora che mi fai pensare, non sarà sicuramente un caso se
ricorrono certe immagini. È nella natura umana convincersi di essere in
movimento e poi scoprire che hai fatto appena qualche centimetro.
"Passato
remoto" parte da una semplice e solo apparentemente strana
constatazione: a me dà gioia il sogno non sognato. Se ripenso alla mia
vita, scopro che quello che mi ha dato gioia è ciò che non sono riuscito
a fare. Una bella donna che ho visto passare per un attimo e che non ho
fermato, ad esempio. Il miglior bacio è quello non restituito. Il brano
si è messo in moto da qua. Fino al verso chiave per scardinare la
canzone: "E fu senza saluto il più compiuto addio"».
Hai
sempre descritto la guerra prima che arrivasse (come in "1940")
o quando era finita ("Generale"). Qui la guerra, mi sembra per
la prima volta, è durante. «Siamo un paese in guerra e la guerra è per
la prima volta tra noi. Quando ho scritto "1940", la guerra la
vedevo dai libri di storia; poi abbiamo vissuto il Vietnam, ma attraverso
la televisione. Da qualche anno siamo in guerra continua e non solo al
fronte. Siamo in guerra con la P38, con il terrorismo, con l'ltalicus, con
Ustica. Siamo in guerra con la verità».
"Gambadilegno
a Parigi" è la ballata più degregoriana del disco. Un reduce che va
a Parigi per sognare Atene. «Strano, eh? Gambadilegno è un soldato
ferito, reduce della guerra di Corea -potrebbe anche essere del Vietnam,
ma quando l'ho scritta pensavo alla Corea -che decide di partire per la
Francia perché Parigi val bene una gamba. E vaga per una città che tutti
amiamo, ma che è bolgia di odori, luci e suoni, in un delirio della
memoria. E lui è sopraffatto dalla carnalità di quel posto che per lui
è più inferno di New York. Va a cambiarsi la protesi, perché non è
più tempo di gambe di legno, la tecnologia ha fatto passi da gigante e
ora lui ha più soldi da spendere. Va nella città dove fanno le migliori
gambe del mondo e incontra una dottoressa che conosce l'inferno e che
potrebbe portarlo via da quell'inverno. E la notte prima di cambiarsi la
gamba, nell'umidità di un albergo da poco e senza ascensore, quel soldato
sogna Atene, l'ospedale militare e i soldati carichi di pioggia. E sogna
di poter fermare il tempo e vincere, per una volta. E sogna Atene, città
di pace e di democrazia, città del sogno e di un'altra vita, delle idee e
della filosofia, in antitesi a Sparta... E per una volta sta dritto nella
tempesta». Atene è epitome di democrazia, ma era la democrazia migliore
che potesse esserci, non certo perfetta, perché aveva gli schiavi.
Dunque: la democrazia vera esiste o è utopia?
E
perché, in "Tempo reale", "la libertà, con un chiodo
tortura la democrazia"? «La democrazia assoluta è un concetto
assurdo e non sempre positivo, Pensa a Hitler. Non è salito al potere con
un colpo di stato, ma regolarmente eletto. In quel caso, la maggioranza ha
partorito un mostro. Democraticamente. Fermiamoci qui, anche se potremmo
parlare dell'Italia, dove Silvio Berlusconi è stato regolarmente e
democraticamente eletto. Se è presidente del Consiglio è perché
qualcuno l'ha votato. Non io, non tu, ma in tanti l'hanno fatto. In buona
fede, alcuni. Convinti che fosse l'uomo giusto per la rinascita. Confido
in chi l'ha votato, spero che, una volta capito chi è Berlusconi, una
volta accertata la delusione, voti in modo diverso. Questa è la mia
speranza di uomo di sinistra, anche se sono stufo di veder la sinistra
unita solo quando si tratta di usare toni antiberlusconiani. Un altro
passo falso della democrazia è la ricerca del consenso, che può spingere
un politico a una politica lassista, di banale compiacimento, solo per
essere rieletto. Panem et circenses, pane e giochi del circo erano i due
elementi indispensabili che tenevano quieta la plebe romana. Oppure, per
essere rieletto, va contro ai reali interessi del Paese, non applica il
rigore necessario perché la gente non apprezzerebbe. Può essere, ad
esempio, che il suo piano di risanamento del Paese preveda un termine di
otto anni, ma sa bene che non potrebbe essere rieletto se facesse scelte
impopolari. Allora, annuncia al Paese che riduce le tasse. La democrazia
è come l'immagine della giustizia che bilancia le parti e che vedi sui
libri: è un termine mitico, che forse esiste ma che nessuno ha mai
conosciuto. Nella moderna architettura istituzionale dei Paesi è un mero
concetto tecnico e non assoluto».
"Tempo
Reale" è il capovolgimento di "Viva l'Italia"?
«Sicuramente. È cambiata la mia percezione dell'Italia, dal 1979 a oggi.
E si che erano anni terribili, avevano ucciso Pasolini, rapito e ammazzato
Moro. C'era nell'aria il dubbio per il futuro, ma la speranza era più
forte. E c'era partecipazione. L'avevamo vista per la strage a piazza
Fontana, nelle manifestazioni e nei cortei. Era un'Italia che rivendicava
il diritto a esprimere il proprio dissenso, che reagiva, che guardava con
cieca fiducia alla possibilità di cambiare. Per questo cantavo .'Viva
l'Italia che resiste". Oggi, cos'abbiamo? Ci indigniamo nelle scuole,
quando studiamo l'Olocausto, ma abbiamo smesso di stupirci per i piccoli
olocausti di tutti i giorni. Ci stiamo abituando a tutto. Da quanto tempo
non ci scandalizziamo per un tempo superiore a cinque minuti? Io ho
smarrito la voglia di essere ottimista, forse ho perso anche un po' di
entusiasmo per la politica. Ricordo la mia partecipazione, la gioia quasi
fisica con cui andavo a votare, nel referendum per il divorzio nel '75 o
nelle elezioni del '76, vinte dalla sinistra. Oggi voto perché è giusto
esserci, ma l'entusiasmo è ferito, se non morto. Dov'è finita l'Italia
delle belle bandiere descritta da Pasolini? Certo, era un'Italia che
viveva di contraddizioni e di paradossi, metà giardino e metà galera. Ma
era un'Italia viva. Oggi, dovessi rinascere, vorrei accadesse lontano da
qua, in una terra più giusta e attenta. “Tempo reale" è
un'elencazione di tristezze dell'Italia di oggi. Esiste ancora un'Italia
che mi piace, ma sopravvive ai margini: l'Italia di don Ciotti e del
volontariato, ad esempio. L'Italia che si rimbocca le maniche, compressa,
sottomessa, isolata. Come può sopravvivere in un Paese dove il presidente
del Consiglio, quando gli si fanno notare le cifre della disoccupazione,
reagisce dicendo: “Vabbè, accettate anche il lavoro nero"? L'ha
detto davvero. E noi non ci stupiamo più, perché esistono persone
convinte che le leggi siano trappole che impediscono di rubare. E allora
aboliamo le leggi, inventiamone di nuove. Oppure aggiriamole. È stato
ancora Berlusconi a dire: "Le tasse sono troppo alte. Anch'io, se
potessi, evaderei". E tu pensi di essere su Scherzi a Parte. Ma poi
ti riprendi e capisci che non è uno scherzo, che ci sono governanti che
non hanno il senso dello Stato o del governo. E noi pattiniamo sul
ghiaccio, balliamo sul ponte del Titanic. Abbiamo paura di affondare, ma
non facciamo niente per riprenderci. Aspetto ancora che la Sinistra
presenti un progetto strategico, un piano serio».
In
"Tutto più chiaro che qui", invocavi un Grande vecchio che...
«Non era un Grande Vecchio. Era mio padre, Era lui che faceva il bagno
nel Tevere. Canottiere negli anni Venti; grande uomo. Aveva visto tutto».
A lui chiedevi una risposta, che ti spiegasse il senso delle cose. Del
resto, in tutta la tua produzione, tu hai arredato quella che Dylan chiama
"la stanza delle domande". Hai sempre chiesto il senso delle
cose, a te stesso o agli altri. Per la prima volta, in Pezzi, mi sembra
che tu abbia smesso di domandarti. Mi pare il disco di uno che ha visto
troppo, che ha visto tutto, che ha smesso di chiedersi il senso delle cose
perché ha capito che un senso non c'è. «Assolutamente si.
Sul
treno che arriva da lontano, in "Numeri da Scaricare", non c'è
niente da vedere, niente da guardare dal finestrino. Solo madri senza
latte e cenere nel camino. E odore di bruciato. E bambini sepolti in
piedi. Non c'è altro da aggiungere. Che senso vuoi trovare a Beslan,
nelle guerre di religione, nei soldati che cadono a Betlemme, nei segni di
gesso che rimangono per terra ma nessuno ha visto niente? "Ho visto
il futuro e il suo nome è omicidio", cosi diceva Leonard Cohen. Il
futuro è già qui, il futuro è presente. È orribile, ma è così. È
l'inferno che avanza. Se guardi distrattamente, puoi pensare che si viva
tutti in un grigio e brutto purgatorio. In realtà, sono i privilegiati ad
abitarlo. Il paradiso non esiste più. Il purgatorio è per noi povera
gente che ha un pizzico di fortuna in più. L'inferno è per gli altri. Se
esci di qui, dalla porta di quest'hotel, troverai mendicanti e
disoccupati, dolore e disperazione. Vent'anni fa non era così e nemmeno
dieci. Oggi, quando sali su un aereo provi emozioni e paure che non avevi
prima delle Due Torri. Qui fuori è inferno, non purgatorio. E il paradiso
è un'invenzione. Oggi a Betlemme cadono i soldati, si trascinano sulla
sabbia, feriti. Non nasce un Salvatore».
Ci
sono riferimenti a Cohen dal punto di vista armonico, oltre a una
citazione dylaniana di "Knockin' On Heaven's Door". «Cohen è
in "La Testa Nel Secchio" e anche in "Parole a
Memoria", una canzone sul distacco, sulla perdita.
E
si, in "Parole a Memoria" c'è il rimando chiaro e non
mascherato a "Knockìn' On Heaven's Door". Dylan rimane il
maestro, il mio faro. Mai compreso come essere umano, ma geniale quando è
al lavoro. Il suo stile sbilenco, irregolare, sghembo, il suo andare dove
non ti aspetteresti mai lo rende il più grande dì sempre. La sua
disarmonia mi colpisce giorno dopo giorno. Era il più grande a fare
musica acustica e diventa elettrico a Newport. Poi sì converte al
cristianesimo, va e viene. Sì sposta continuamente, andando anche nel
cinema, incurante del fatto che i suoi film funzionino. Dove lo trovi uno
così?». Neil Young? «Si, ma il talento è diverso. Young è stato
bravissimo nel fregarsene di tutto e di tutti, conquistando credibilità
facendosi gli affari suoi. Ma la grandezza di Dylan è inarrivabile. Chi
c'è più grande di lui? Springsteen, forse? Per favore. Springsteen è un
buon musicista, ma non puoi certo metterlo allo stesso livello di Woody
Guthtrie e Dylan. Un buon derivatore, questo si».
"Numeri
Da Scaricare" è un blues. che cosa ti affascina di questo stile?
«Il fatto che è incredibilmente semplice, che è una griglia
comprimibile ed estensibile all'infinito, dal punto di vista ritmico, con
armonie semplicissime e ripetitive che prendono vita perché
sanno
raccontare la vita in tutte le sue espressioni, nessuna esclusa: dalla
morte del tuo gatto al folle e mai corrisposto amore per una donna, dal
dolore alla passione. Il blues è come l'invenzione della ruota. Si va
più veloci, da allora. E non ci si ferma mai». Il disco si chiude con
una strofa bella e illiminante, coniugata al passato ma con uno squarcio
di futuro: "Così sentimmo nell'aria forte la ridondanza delle
campane / come un ricordo che faceva piangere / come l'odore del pane /
come vedere spuntare il sole dall'altra parte di un muro / e falegnami e
filosofi fabbricare il futuro". Come sarà possibile vedere insieme
falegnami e filosofi, se gli intellettuali di oggi non sono più a
contatto con le gente, come accadeva un tempo, ma li vedi in televisione a
Porta A Porta? «Dipende chi vogliamo mettere nella categoria dei
filosofi: Cacciari è una cosa, Buttiglione un'altra. Se consideriamo Alba
Parietti un'intellettuale, allora è un altro discorso ancora. O valeria
Marini. O Crepet. Per me l'intellettuale vero, la figura da seguire è
ancora e sempre Pasolini, che giocava a pallone e faceva film, scriveva
bellissime poesie e ascoltava le canzonette, scriveva articoli sul
giornale e lettere aperte. O Ungaretti, che leggeva le sue poesie a
"L'approdo" e incantava. Dopo il pensiero debole di Vattimo,
siamo tutti appiattiti. Resto in attesa di un gesto intellettuale forte,
spiazzante, diverso, coraggioso, smaccato, impudico come quelli di
Pasolini. E vorrei politici veri e grandi leader com'erano Berlinguer e
Moro. Vorrei una classe politica forte, indipendentemente dai colori e dai
partiti. Io non ho ricette ne risposte. Io so scrivere canzoni e questo
faccio». I versi più belli del disco sono: "Poi d'improvvisò tutti
gli anni per terra / come i capelli dal barbiere". Vent'anni sembran
pochi, poi ti volti a guardarli e non li trovi più. Ti sei mai sentito
vecchio? «Mai. Nonostante le disillusioni pubbliche e private che ho
conosciuto. Di recente ho letto L'Estro Quotidiano di Raffaele La Capria,
un libro bellissimo dove dice che, nonostante gli ottant'anni, vive e
affronta la vita con la disarmante freschezza e l'ingenuità di un
bambino. Io sono come lui. Qualcuno dice che ho appena compiuto 54 anni.
In realtà, ne ho 13». Perché fai così tanti dischi dal vivo? «Perché
è dal vivo che puoi fare ricerca, sviluppare un progetto e trovare te
stesso. È li che il tuo suono cresce di sera in sera, fino alla fine. In
studio, hai altre preoccupazioni: che il disco suoni in modo
"giusto",che arrivi alla gente, che si capiscano bene le parole.
Lavori come un falegname col legno, cesellatore che deve lucidare le
canzoni affinché brillino a lungo, se non per sempre. Un disco in studio
e un prodotto stabile, immutabile; il live è eterno movimento». Quanti
live farai prima del prossimo disco in studio? «Tre o quattro...».
Quante volte hai sbagliato strada? «Artisticamente, tante volte. È
normale. Scatti e imbizzarrimenti. Ho sbagliato alcuni concerti, cantati
male e suonati peggio.
Ho
sbagliato alcuni dischi». Tipo. «Prendere E Lasciare, prodotto da
Corrado Rustici, è venuto proprio male. Ho sbagliato a dargli carta
bianca. Anche Scacchi E Tarocchi, prodotto da Ivano Fossati. Gli avevo
detto: "Fammi un suono povero, scarno, essenziale, che suoni male,
che faccia venir voglia alla gente, quando lo ascolta, di alzare il
volume". Ha seguito le istruzioni alla lettera». Come ti vedi, oggi?
«Come il cantante di una band e non più solo un cantautore». Come
vorresti che le gente ti vedesse? «Non come un portavoce. Non come una
guida. Führer significa guida. Non scherziamo. Vorrei che la gente mi
riconoscesse non tanto di aver scritto qualche bella canzone, ma di aver
viaggiato sempre con rigore, anche a costo di essere scomodo. Con rigore.
E dalla stessa parte». Sempre e per sempre. «Mi ritroverai».
Un
uomo ferito alla schiena sulla
sabbia si trascina
E
sente la terra che chiama sente
la notte che sta per venire
E
dice Signore ti prego lasciami
respirare
lasciamo
un po' riposare prima che
devo morire
E
dice Signore lo vedi questa
mosca dispettosa
che
vola sulla mia schiena e
ancora non si posa
Un
uomo disteso per terra in una
terra di frontiera
Che
guarda la riva del fiume che
piano piano diventa nera
E
dice non era la mia intenzione rubare
l'albero del pane
Ma
non sono quel tipo di uomo che
si arrende senza sparare
E
adesso ridammi i miei gradi restituiscimi
il comando
Che
questa mosca continua a volare mentre
mi sto dissanguando
E
intanto le ombre si allungano e
nascondono la spianata
Gli
eserciti si riposano alla
fine della giornata
E
l'uomo che sta morendo prova
a togliersi gli stivali
E
dice Signore le mosche non
dovrebbero avere ali
E
dice Signore lo vedi il
panorama di Betlemme
Questo
cielo senza riparo questo
sipario di fiamme
Sul
treno che arriva da lontano, in "Numeri da Scaricare", non
c'è niente da vedere, niente da guardare dal finestrino. Solo madri
senza latte e cenere nel camino. E odore di bruciato. E bambini
sepolti in piedi. Non c'è altro da aggiungere. Che senso vuoi trovare
a Beslan, nelle guerre di religione, nei soldati che cadono a
Betlemme, nei segni di gesso che rimangono per terra ma nessuno ha
visto niente? "Ho visto il futuro e il suo nome è
omicidio", cosi diceva Leonard Cohen. Il futuro è già qui, il
futuro è presente. È orribile, ma è così. È l'inferno che avanza.
Se guardi distrattamente, puoi pensare che si viva tutti in un grigio
e brutto purgatorio. In realtà, sono i privilegiati ad abitarlo. Il
paradiso non esiste più. Il purgatorio è per noi povera gente che ha
un pizzico di fortuna in più. L'inferno è per gli altri. Se esci di
qui, dalla porta di quest'hotel, troverai mendicanti e disoccupati,
dolore e disperazione. Vent'anni fa non era così e nemmeno dieci.
Oggi, quando sali su un aereo provi emozioni e paure che non avevi
prima delle Due Torri. Qui fuori è inferno, non purgatorio. E il
paradiso è un'invenzione. Oggi a Betlemme cadono i soldati, si
trascinano sulla sabbia, feriti. Non nasce un Salvatore».
La
fotografia perfetta della condizione dell'uomo oppresso ingiustamente.
Che, difendendo la propria libertà e dignità umana, non può fare
altro che combattere e diventare ribelle: "non sono quel tipo di
uomo / che si arrende senza sparare". Il teatro che lo ispira è
la vicenda palestinese. Il testo è violento e disperato, come la
vittima di un'oppressione. Da applausi questo De Gregori che si
immedesima così nella condizione di solitudine di uno sconfitto che
sconfitto non è. Cosa sarà mai la mosca? Una pallottola, la morte,
l'idea di essa? Spazio alle interpretazioni. Musicalmente
entusiasmante, se non fosse per quei giri d'accordi senza assoli di
cui dicevamo (ma l'armonica, almeno, che ci sta a fare?)
(Antonio Piccolo)
"Il
mio disco su un mondo di orrori"
ROMA
- Altero, rigoroso, Francesco De Gregori detto il Principe, ci riceve
nella sua bella, bianchissima, casa romana per parlarci del suo nuovo
album, dal titolo Pezzi, in uscita venerdì prossimo. Il disco parte
con la canzone omonima ed è come una carrellata di immagini su un
mondo che va in frantumi. Ma allora, De Gregori, il mondo che lei vede
sta proprio cadendo in pezzi?
"La
canzone è nata in dieci minuti. Avevo in testa da tempo l'idea di
fare una canzone su un mondo in pezzi, con un vago riferimento a uno
spunto di Dylan, esattamente al pezzo Everything is broken, avevo un
taccuino dove annotavo pezzi di qua pezzi di là, poi mi sono messo al
pianoforte e ho trovato il giro armonico, anche l'idea di Celestino
l'avevo in testa, sì il riferimento è a Papa Celestino, rappresenta
il rifiuto della politica, che poi pervade un po' tutto il disco. Non
vuol dire che smetto di pensare o di votare, ma adesso è solo un
dovere a cui mi sottopongo con disciplina".
E'
un disco spietato, durissimo...
"Sì
lo so, alcune canzoni sono terribili, bambini soldato sepolti in
piedi, feriti fucilati, immagini terribili, ma è l'idea che dà la
televisione quando mostra la strage di Beslan. Più che spietato, è
il riflesso di come va il mondo. Certo, avrei potuto fare un disco
parlando della mia vita sentimentale, ma non era quello che volevo.
Non so se si possa definire un disco neorealista, forse sì, anche se
ci sono delle visioni, e anzi originariamente il titolo doveva essere
proprio 'Visioni'".
In
una canzone dice: "Se potessi rinascere ancora preferirei non
rinascere qua". E allora, se potesse, dove le piacerebbe
rinascere?
"Se
potessi rinascere nell'Italia in cui sono nato io, non cambierei: il
dopoguerra, la politica della riconciliazione ancora tutta da fare,
l'entusiasmo, verso il boom inteso non solo come consumo materiale ma
come una società in cui qualcuno avrebbe fatto un film come "Il
sorpasso", quell'Italia non la cambierei. Oggi non so, forse in
Africa, meglio ancora in Grecia, ad Atene".
Un
po' come il reduce Gambadilegno della canzone omonima, che dice,
"sogna Atene"...
"Si
ricorre in questa canzone perché ricorre in me: Atene come culla
della democrazia della civiltà, della pace, in contrapposizione con
Sparta che significava la guerra. Atene era l'invenzione di nuove
idee, immaginiamoci i vecchi che passeggiano a discutere di filosofia,
beh non sarebbe bello rinascere lì?".
In
questa dura osservazione del mondo arriva anche Betlemme. Cos'è la
culla di Gesù o l'ennesimo luogo dell'umana tragedia?
"L'idea
di una canzone su Betlemme, ce l'avevo da un sacco di tempo. Ogni anno
facciamo il nostro presepe e citiamo un luogo di cui oggi non abbiamo
più cognizione, la Betlemme di oggi quando la sentiamo nominare non
ha più riferimenti con la Betlemme mitologica che ogni anno evochiamo
come luogo di nascita del cristianesimo, della pace. Nella canzone
invece c'è questo soldato che si trascina sulla sabbia, ferito. In
realtà questo disco è pieno di parole, mi rendo conto, ma se sta in
piedi, secondo me, è per il suono. È un capitolo diverso, ci sono
arrivato per gradi attraverso dischi dal vivo, alcuni criticati, altri
criticabili, ma che a me sono serviti ad arrivare a una sonorità che
dieci anni fa me la sarei sognata. Molti di questi pezzi saranno
esattamente così anche dal vivo".
Che
è successo, si diverte di più a suonare oggi?
"Sì,
da alcuni anni. Lavorando da cinque o sei anni con gli stessi
musicisti succede che non pensi più che stai suonando. Io del resto
venivo dal Folkstudio dove suonavo da solo con la chitarra ed ero
completamente responsabile di quello che accadeva, un atteggiamento
prediscografico, e me lo sono portato appresso per dieci, quindici
anni. La Rca mi consigliava dei turnisti, io cercavo di spiegare più
o meno quello che volevo, e mi accontentavo subito. Quando la canzone
era finita e c'era un vago suono dietro la mia voce, per me andava già
bene. M'importava solo che arrivasse il messaggio che 'Niente c'era da
capire'".
Però,
riascoltando Rimmel non è così vago, anzi...
"Sì,
Rimmel fu un disco anomalo, c'era un suono, però poi sono tornato
indietro. Mi concentravo troppo sulle parole, cantavo male".
Beh,
De Gregori, adesso non esageri, non si butti troppo giù...
"Credo
di sì, o comunque so che me ne fregavo. Vivevo con una certa angoscia
il fatto di non controllare le tecnologie. Oggi è tutto diverso.
Dagli e dagli ho imparato".
Però
rimane un'ispirazione dylaniana, almeno in alcuni pezzi?
"Sì,
certo, ma se proprio dovessi dire, credo che dovrei pagare in un paio
di pezzi un debito a Leonard Cohen".
Pensando
alla recente autobiografia di Dylan, non le è mai venuto in mente di
scrivere altro dalle canzoni?
"Poesie
proprio no, perché mi viene naturale scrivere versi in forma di
canzone, e neanche un romanzo. Mi piacerebbe pensare tra dieci anni o
più, quando andrò in pensione e non riuscirò più a salire e
scendere le scale che qualcuno mi dica: senti, scrivi un romanzo su,
che so, Alassio, e io che non so niente di Alassio vado lì per un
anno, in una bella casa sul mare, e solo in cambio del fatto che per
un anno sto ad Alassio, scrivo un bellissimo romanzo, oppure un
bruttissimo romanzo su Alassio che nessuno comprerà".
E
neanche un'autobiografia alla Dylan?
"No,
lui ha molto da raccontare, non s'è perso niente, e poi il ruolo dei
musicisti in America è centrale, molto più importante che da noi, e
non per colpa degli artisti italiani. Da noi c'è una specie di
embargo da parte della cultura ufficiale, ed è una cosa che col
passare del tempo trovo sempre più insopportabile. Il primo
comicaccio che fa un libro diventa un intellettuale, molto più di
quelli come me che fanno canzoni".
(Gino
Castaldo – La Repubblica - 23 marzo 2005)
UN
CAPOLAVORO D'AUTORE (di Daniele Di
Grazia)
Francesco De Gregori è tornato e lo ha fatto nel
migliore dei modi, con un album bello dalla prima all’ultima
canzone, dove il problema sta nel trovare una canzone che non meriti
almeno un dieci, dove a volere trovare il pelo nell’uovo, la peggior
critica che puoi fare, è che se la sua vena creativa è a questo
livelli, avremmo preferito avere un disco con almeno altre dieci venti
o trenta canzoni.Si apre con “Vai in Africa, Celestino”, un bel
rock, apparentemente leggero, ma che dopo il primo ascolto affascina e
rimane in testa a risuonare.Davvero una bella canzone, che forse manca
di qualche assolo che il bravo Paolo Giovenchi avrebbe potuto inserire
tra un verso e l’altro.“Gambadilegno a Parigi” è un capolavoro,
dove il personaggio non ha nulla di disneyano, è una di quelle
canzoni che ti lasciano a bocca aperta e se non fosse per le chitarre
sferzanti di “Tempo reale” che ti riportano sulla terra,
rimarresti li a riascoltarla per ore.Già “Tempo reale”, una
canzone che dipinge un quadro tragico e spietatamente reale del nostro
bel paese, dove se rubi non muore nessuno, dove ci si nasconde dietro
ai luoghi comuni, dove schierarsi da una parte o dall’altra dipende
solo da quanto ti pagano.“Parole a memoria”, fortemente ispirata
dal faro “Dylan” è un classico del repertorio di Francesco, che
introduce la bellissima “La testa nel secchio”, che tra echi di
Mark Knopfler e preziosismi tipicamente “degregoriani” ci porta
tra le mani i ricordi personali del cantautore e per un attimo ci
induce a pensare che il disco possa ritornare sui binari classici del
cantautore romano, ma nulla di più sbagliato, “Il panorama di
Betlemme” ci consegna un De Gregori rock come non mai. La sua voce
è spettacolare, coinvolgente, viene voglia di battere i piedi e di
cantare a squarciagola.Francesco prima della pubblicazione del disco
aveva detto che “Pezzi” avrebbe suonato proprio come se fosse un
disco dal vivo, nulla di più vero. Il penultimo pezzo “Le lacrime
di Nemo”, invece non può non farci pensare a Giovanna Marini. La
canzone sembra infatti essere uscita dal “Il fischio del vapore” e
sarebbe interessante poterla sentire cantare proprio dalla voce della
Marini.Il disco si chiude con un titolo “Il vestito del
violinista”, che a molti potrebbe far pensare alla classica canzone
di chiusura degli album di Francesco, un po’ come successe con
“Rumore di niente” o “Sempre e per sempre” ed invece di
violini non c’è neanche l’ombra. Si tratta di un pezzo duro,
spietato che ti lascia con l’amaro in bocca e che non può non farti
pensare alle immagini tanto orrende quanto reale degli ultimi anni. I
bambini citati nel testo sono quelli della strage di Beslan, ma
potrebbero anche essere i bambini che ogni giorno muoiono in Africa,
ma che non fanno audience in televisione e che per questo motivo sono
meno tragici degli altri. La canzone ti lascia l’amaro in bocca e le
chitarre che suonano con durezza non fanno altro che accentuare questo
sentimento.Di dischi come questi ce ne vorrebbero ogni giorno,
Francesco ha la stessa vena creativa che avevamo lasciato in
“Canzoni d’amore”. Chi credeva che De Gregori non avesse più
nulla di dire dovrà ricredersi, magari non lo ammetterà mai, ma non
potrà non chiedersi come fa quest’uomo di quasi 54 anni a scrivere
ancora canzoni memorabili, come fa quest’uomo a tenere il palco con
una forma straordinaria, meglio di come faceva nei primi anni della
sua carriera.Francesco si diverte a suonare e noi ci divertiamo ad
ascoltarlo.
Speriamo
che non si stanchi mai, perché quel giorno la musica italiana avrà
perso il suo migliore “pezzo”
Chiaro
di luna scendi in fondo al mare e
arriva dove il vento non può arrivare.
E
trova le parole per calmare quest'acqua
che si mescola col mare quest'onda
sulla riva della ciglia che
un po' t'incanta e un po' ti meraviglia
Che
un po' t'incanta e un po' ti meraviglia
Fiore
di scienza e libero pensiero, ancora
senza nave e vela senza veliero,
bottiglia
mezza vuota e mezza piena e pesci e luci e canto di balena.
Chiaro
di luna segnami il futuro e
mescola l'idrogeno e il carburo e
mescola l'idrogeno e il carburo
E
passo dopo passo piano piano, illumina i miei passi con i tuoi che
ogni passo avanti
è un passo in meno e
meno ossigeno nei serbatoi
Illumina
le torri medievali e i falchi e il tempo e i sogni e gli ideali e
le città sconfitte
in fondo al fumo e
il sangue e l'innocenza di nessuno
Il
sangue e l'innocenza di nessuno
Su Nemo ci ho lavorato parecchio, non tanto sull’impianto
ma sulle armonie, accordi di cui ignoro il nome ma che di volta in volta
cambiavo. Ho poi dovuto lavorare parecchio con il pianista per spiegargli
come doveva suonarla. Io suono il piano non da pianista, premo molto poco
i tasti mentre chi studia il pianoforte deve fare il contrario. Quel
particolare titolo è chiaramente influenzato dal modo in cui Salgari o
Verne in apertura dei capitoli dei loro romanzi facevano la scansione dei
momenti importanti".
A
Piazza di Siena in centomila sotto la pioggia per Francesco De Gregori
(Il
Messaggero - 5.9.2005 - di Marco Molendini)
ROMA
- Un tuono e poi giù l’acqua. Giusto al via, alla prima nota. Una
cascata senza pietà su centomila: ombrelli aperti, fuga, la musica
che va. A Pa’ , omaggio a Pasolini, poi il rock di Tempo reale . La
festa di De Gregori a piazza di Siena diventa una lotta contro la
jella. La pioggia smette, poi riprende, alla fine gli strumenti
elettrici si mettono a fare le bizze. Si spengono le luci, tacciono le
voci, piccolo black out, poi si ricomincia, alla faccia dell’acqua e
della sfiga. Un concerto così non si può rovinare. È un’altra di
quelle serate romane gratuite che hanno animato l’Estate romana (ravvicinatissima
quella al Colosseo di uno stanco e routinier Elton John), per di più
si svolge nel cuore della città che è la città di Francesco. Villa
Borghese come un trentennio fa quando, tempi lontani, tempi eroici,
primi successi, lui e Venditti si ritrovarono insieme sullo stesso
prato. Insomma, c’è di tutto (aggiungiamo: ci sono anche i trent’anni
di Rimmel ) per farne un’occasione speciale, un ripasso della storia
di questo cantautore di talento così schivo e poco disponibile agli
abbracci indiscriminati.
E
De Gregori si presenta con l’aria di chi è venuto ”a vedere lo
strano effetto che fa la mia faccia nei vostri occhi e quanta gente ci
sta”. Ce ne è tanta di gente, nemmeno i tuoni, i fulmini e la
pioggia riescono a fare sconti. E ne vale la pena. Il concerto è
magnifico, lunghissimo, speciale, suonato con grande cura, è
elegante, generoso, esaustivo e misurato, le canzoni sono offerte in
una versione ampia, di largo respiro. La voce morbida, duttile,
naturale, antiretorica, dal forte senso melodico di Francesco fa il
resto. E’ uno straordinario interprete di se stesso, un vero grande
crooner: basta ascoltare come vivono le sue canzoni più belle, La
donna cannone o Titanic o La valigia dell’attore , così legate al
timbro speciale della sua vocalità, alla forza evocativa che riesce a
suggerire quando racconta Viva l’Italia o La storia.
E’
qui il cuore della sua musica, che si fa vanto di restare spoglia,
essenziale, simile (ma non uguale) a se stessa. La band (ottima) da
cui si fa accompagnare ha il compito di suonare e basta. C’è spazio
anche per un ospite (un musicista con cui c’è affinità e lunga
frequentazione) Ambrogio Sparagna con il suo organetto, che condisce
la parte centrale del concerto, ma in punta di piedi. Non ci sono
trucchi, non ci sono inganni. Perfino nel modo di presentarsi in
scena: il look è quello di uno che è uscito da casa così come si
trovava, senza bisogno di camerino, costumisti, truccatrici e tutto
l’armamentario variopinto di chi fa scena. Qui contano musica e
parole. De Gregori è un compositore di parole, che dà sostanza a
quello che dice, alle storie comuni (”la storia siamo noi,
attenzione, nessuno si senta escluso”) che racconta nella tradizione
di quello che una volta era il cantastorie.
Ma
c’è anche un gusto sofisticato, il piacere di non limitarsi alla
pura e semplice declamazione del rosario. Così la rivisitazione del
suo prestigioso songbook cerca di evitare le banalità del
compiacimento della conquistata popolarità. I pezzi vengono riletti,
lavorati cercando di smuovere la pigrizia dell’ascolto (il pubblico
tende a fissare nella memoria il ricordo dei brani preferiti sia La
storia, La leva calcistica della classe ’68, Alice, Titanic,
Generale, Agnello di Dio o Buonanotte fiorellino conservandoli uguali
a se stessi). E, alla fine, resta il sapore gradevole di una serata
speciale di musica, per nulla annacquata dalla tanta acqua caduta.
Incontro a Catania col Rimmel Club
L'incontro a Catania col Rimmel Club e gli
studenti della Facoltà di Lingue dell'Università di CataniaRiporto
l'intervista realizzata da Pamela Belletti, Mirella Icaro, Oriana
Mazzola, Mara Roccaforte e Tiziana Vaccaro giovedì 21 aprile
all'Hotel Excelsior di Catania, occasione nella quale -come già detto
nel blog- Francesco De Gregori ha incontrato giornalisti, fan del
Rimmelclub, e alcuni studenti del corso di Storia e tecnica del
giornalismo tenuto della
professoressa Maria Lombardo, docente della
Facoltà di Lingue dell’Università di Catania.Cappello, camicia
lilla e scarpe da ginnastica. Così si presenta a sorpresa l'artista,
mostrando disponibilità e sorrisi. Stringe a sé la chitarra quasi
come fosse una strategia per vincere l'iniziale emozione,
strimpellando qualche nota tra una domanda e l'altra.
Che
effetto le fa sapere che un quindicenne conosca i suoi testi?
"Non
ci trovo niente di male - spiega De Gregori - niente di strano, il mio
primo maestro di musica, colui che mi ha fatto conoscere cantautori
che non appartenevano alla mia generazione è stato mio fratello
maggiore".
Qual
è il veicolo attraverso il quale, lei preferisce che i giovani
ascoltino la sua musica?
"Preferisco
il concerto, momento di contatto vivo con il pubblico, ma è anche
vero che non ci sarebbe concerto senza disco e non si venderebbe disco
senza radio. Il mezzo radiofonico è meno invasivo della tv che tra
uno spot pubblicitario e una canzone di Gigi D'Alessio potrebbe
passare un mio nuovissimo brano. Vorrei essere una mosca sul muro per
vedere l'espressione stupita di chi sta ascoltando".
Gino
Paoli, ha scritto che, fino a qualche anno fa, per i giovani
cantautori era più facile farsi conoscere. Crede che questo sia
dovuto alle case discografiche o a mancanza di creatività?
"Oggi
è più facile, soprattutto per i giovani, incidere dischi, ma è
anche vero che se il primo album non avrà successo non ce ne sarà un
secondo. In passato, invece il primo disco era la base per
crescere".
Nel
suo ultimo album "Pezzi" c'è il riferimento a un mondo che,
per certi versi, sta andando a rotoli. Pensa che tutto ciò possa
influenzare il modo di emozionarsi dei giovani?
"Fortunatamente
il mondo non è così male come lo descrivo io nelle mie canzoni,
questo è solo il mio modo di vederlo. Penso che i giovani possano
ancora trovare qualcosa di positivo e continuare ad emozionarsi. Ne
hanno tutto il diritto".
Lei
ha spesso definito la Costituzione Italiana come un testo poetico.
Cosa possiamo fare noi giovani per difenderla?
"Per
difenderla i giovani devono semplicemente conoscerla - continua
scherzando - dovrebbero girare per un paio di mesi con il libretto
della Costituzione in tasca. E' poetica già dal primo articolo:
L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, se ci fosse scritto
fondata sul denaro non sarebbe più poesia".
Cosa
prova nei confronti di noi giovani?
"Non
vi invidio, provo amore e rispetto per voi giovani, non vi considero
una categoria omologata".
____________
Ieri,
all’ Hotel Excelsior di catania, Francesco De Gregori ha incontrato
i ragazzi del Rimmel Club… e, tra loro, c’eravamo anche noi
studenti di Tecnica del giornalismo del corso della professoressa
Lombardo.Occhiali da vista, bombette nera, barbetta incolta, camicia
lilla: ecco come si presenta Francesco De Gregori seduto sul divano,
con un bicchiere di vino in mano.
Grande
è la nostra emozione quando ci invita ad avvicinarci: molti di noi
sono cresciuti con le sue canzoni. "Sei cresciuta bene!",
risponde baciando la mano ad una di noi, che glielo confessa
timidamente. La sua grandezza artistica, quindi, c’era già nota, ma
il nostro stupore esplode quando ci troviamo di fronte un uomo che
sfiora il metro e novanta, disponibile, sorridente: in poche parole
non "orso", come lui stesso si definisce. Dall’ angolo
privato, nascosto da un separè, ci trasferiamo nella sala dove ad
attenderlo, ci sono i ragazzi del Rimmel Club, il primo "club di
amici" interattivo che, per sua stessa ammissione, ha avuto il
merito di riportarlo alla normalità. La sua espressione sembra quella
di un bambino alle prese col suo giocattolo preferito, non appena
afferra la chitarra e intona una delle canzoni del suo ultimo album
"Pezzi".C’è fermento tra i presenti: tutti hanno una
domanda da porgli. Come da copione, si inizia con i ringraziamenti di
un ragazzo per quest’ora concessa, ma De Gregori che è un poeta,
replica: "Sono venuto a prendere, non a dare…".Grazie
all’ambiente riservato, si mette a nudo parlando di sé, del suo
passato, della musica, del suo rapporto con i giovani, di quello con i
"grandi", suoi contemporanei (De Andrè, Martini, Dalla,
Daniele, Battiato), deliziandoci con aneddoti divertenti, talvolta esilaranti.Leggendo fra le righe, il cantautore fa fatica a parlare di
emozioni, una parola che a suo avviso si usa un po’ troppo:
"Bisognerebbe lasciarla lì, altrimenti si rovina".E’
contento di essere un artista, ha il privilegio, in quanto tale –
dice - di essere libero, di vedere oltre, proprio perché staccato
dalla realtà. Ed in questo si percepisce l’ insegnamento di
Pasolini, " un artista che amava così tanto l’Italia da
criticarla in maniera feroce, al punto da essere definito
anti-italiano". E proprio in suo onore, De Gregori aprirà i
concerti del suo prossimo tour, che partirà da Palermo il 17 maggio,
con "A Pa’".Con l’appuntamento al concerto nel capoluogo
siciliano, si conclude un incontro in cui De Gregori ci ha regalato
"pezzi" di sé…Erminio Avanzato, Fabio Galluzzo, Orazio
Giuntini, Loredana Gravina (Blog del Barbagianni)
____________
Catania,
ore 12,00 – 21.4.2005 - Francesco De Gregori in conferenza stampa
per promuovere il suo nuovo CD. Le radio, le TV ed i giornali
siciliani (ma anche le testate nazionali) non si lasciano sfuggire
l'occasione per partecipare all'incontro presso l'hotel Excelsior di
Catania. La sala accanto ospitava un incontro di esponenti politici in
corsa per le imminenti elezioni ma quei giovani all'ingresso erano lì
per lui, per il "Ciccio" nazionale. Giacca scura, cappello
sulla testa, De Gregori ha risposto alle domande dei giornalisti, poi
si è riposato in un angolo della hall con davanti un bicchiere di
vino. Ha posato per
alcune foto, tanti telefonini alzati per
immortalare quel momento, ha interrotto tutto per dedicarsi ai ragazzi
del RIMMELCLUB.Entrato nella stanza, trova una cinquantina di persone,
tra l'ultima fila ed il tavolo sul quale si sarebbe seduto c'erano 10
metri al massimo, definire l'atmosfera "intima" è poco,
sembrava, anzi, è stato, un incontro tra amici. Francesco entra,
caracollante come sempre, sorridente, dice: "siete tutti del
Rimmelclub? E siete qui per me? Per il cinquantaquattrenne De Gregori?
Non vi siete ancora stufati?" il pubblico lo guarda a bocca
aperta. Non càpita tutti i giorni di poter parlare a quattr'occhi con
uno come Francesco. In fondo alla sala un "manageriale"
Daniele Di Grazia e qualcuno dello staff, lampeggiano i flash. Appena
voltato Francesco nota una chitarra appoggiata sul tavolo: "...e
questa chitarra che ci fa qui?", qualcuno, previdente, l'aveva
portata da casa sperando in un accordo, in due note e Francesco ne
approfitta subito: "cosa volete sentire? Che suono?".
Nessuna risposta. Ma come, aspetti da anni quel momento, Francesco ti
chiede cosa vuoi sentire e non sai rispondere? Misteri della mente di
un fan. "Vi suonerò quella canzone che non piace a nessuno,
quella che volevo intitolare Blues e che invece si chiama Numeri da
Scaricare" ed inizia....davanti alle bocche aperte.
Pochi
minuti ed eccolo dietro al tavolo, lui, Daniele e due
dell'organizzazione del tour siciliano.
"bene,
eccomi qua, avanti con qualche domanda, voi del Rimmelclub mi siete
sempre piaciuti per la vostra discrezione, non siete dei fans, siete
degli appassionati, all'inizio l'idea di un fan club mi faceva paura,
ora ne sono felice..." non arrivano domande "...siete
timidi?..." neanche a dirlo...subito si scatenano decine di
domande sul tutto e sul niente: cosa rappresenta la mosca, qual'è la
tua canzone più bella, un aneddoto su De Andrè, un altro su Dalla ed
il suo Stronzetto (fatevi spiegare da chi c'era, cos'è), poi le
domande su Pasolini, su Dylan, su internet, sulla costituzione...sul
ruolo delle radio e sulla musica contemporanea...poi accenna
Gambadilegno, non ricorda le parole, le chiede a chi ha il booklet con
i testi, continua a cantare per spiegare un passo della canzone,
quello senza testo, per sottolineare lo zoppicare del protagonista,
trucchi del mestiere li definisce lui e continua con la chitarra in
braccio a rispondere alle domande. Non c'è più tempo, un'ora è
passata...naturalmente in un'ora...ma veloce, sembrava un'ora veloce.
Francesco
si alza in piedi e tutti scattano a farsi firmare il CD, il foglietto
per l'amico, a farsi fare una foto, c'è chi resta incredulo davanti a
lui, chi, fuori di senno, gli chiede perchè abbia abbandonato gli
studi, senza laurearsi...non gli dispiace?...è un peccato...perchè
anche suo zio..., c'è anche quella ragazza che chiede a Francesco se
si ricorda di quel concerto quando lui guardandola le sorrise...forse
perchè lei era incinta...ora suo figlio ha 1 anno...comincia a
camminare...anche suo marito si ricorda...Francesco la guarda e
spalanca gli occhi...chi si accontenta e chi vuole troppo. Quella
ragazza che aveva portato la chitarra si merita un autografo sulla
chitarra stessa e già immagina quando dirà ai suoi amici che quella
chitarra è stata suonata da De Gregori...ma va lààà...
Andiamo
via, è tardi.
De
Gregori esce dalla stanza, saluta e ringrazia, con i suoi dello staff
va a prendere una granita con brioche al bar Europa, sul lungomare
catanese.
RAITRE
intervista De Gregori e Daniele Di Grazia, i ragazzi del Rimmelclub
vanno a pranzare da Pagano, un'altra mattinata è passata, assieme a
Francesco. (Salvo Di Grazia - Rimmel Club)
Da
"Rimmel" alla rete.
«Definirlo un fan club mi dà un po' di
angoscia, perché non voglio avere nessun fan club e credo che neanche
loro poi siano un fan club, si chiamano Rimmelclub (dal titolo del
famoso successo del ’75), che è una cosa diversa». Dalle parole
dello stesso De Gregori, che lo ha di fatto “riconosciuto”, si
capisce lo spirito che anima questo gruppo di “degregoriani”. Nato
nel settembre del 2001, www.rimmelclub.it è soprattutto un punto di
incontro per gli appassionati del Principe. Si è caratterizzato come
comunità virtuale senza età, negli anni rafforzata dalla sempre più
diffusa accessibilità alla rete: «E’ un divertimento - spiega
Daniele Di Grazia, trentenne di Catania, di professione avvocato,
ideatore del sito - e tale rimarrà. Non abbiamo ambizioni di ascese,
Francesco per primo apprezza la nostra discrezione». «Tutto ruota
intorno al forum e all’inserimento di materiale fornito con
collaborazioni volontarie. Fondamentale l’apporto di Mimmo Rapisarda,
che è più anziano di me - scherza Di Grazia - ed è dunque la
memoria storica del sito». Insomma, dalle “poste” sotto gli
alberghi di qualche anno fa ad un possibile raduno ufficiale (si
lavora per l’occasione del tour di maggio, ndr) se n’è fatta di
strada: «Direi di sì - conclude - Francesco in un incontro mi disse:
“Vedi che nella vita insistere serve a qualcosa...”».
Gabriele
Fasan (La Rinascita - 1.4.2005)
Quello
che ha fatto Francesco (anzi, uno come Francesco) è ancora di più,
molto di più. Forse questa cosa non l'ha mai fatta né Baglioni, né
Ligabue, né Vasco. Ma Francesco è così, o tutto niente. Quanto
accaduto ha dell'eccezionale, dello straordinario, dell'impensabile
per gente come noi.
Qualcuno disse che i nuovi impresari, in questo incontro, ci
marciarono non poco per lanciare la promozione del tour, però…
però… se questo fosse stato vero, un incontro col RC si sarebbe
potuto fare lo stesso. Che c'entrava Catania? Abituati come siamo a
viaggiare per incontrarci, non ce lo saremmo fatti ripetere due volte
un incontro al Nord. Anche a San Candido saremmo stati presenti!
Quindi non ha importanza la data dell'incontro, ma il luogo. Quale
luogo preferì, Francesco, per la conferenza stampa del tour 2005 di
"Pezzi"? Come detto prima, poteva benissimo farla a Roma o
Milano. Ma scelse stranamente Catania. Catania, 21 aprile 2005.
Perchè? Perché a Catania ha sede il Rimmel Club.
E facendo questa scelta ci lanciò un messaggio invisibile che forse
in pochi hanno capito: "questi qui mi hanno quasi imposto di fare
promozione sul disco e il tour. Siccome io odio la promozione, se
proprio devo farla la faccio a modo mio facendovi anche un regalo:
quindi, vi stimo così tanto che per dire a tutta l'Italia quando
comincerò il mio tour lo voglio annunciare proprio da casa vostra
(anzi, da casa nostra), perché questa casa è un po' anche mia e qui
con voi io mi sento al sicuro."
Quella mattina l'incontro con noi fu anticipato da una conferenza
stampa a livello nazionale. Seduti fra i giornalisti delle maggiori
testate italiane, del RC c'eravamo io e Daniele. E, come al solito (ma
ormai ci siamo abituati), non ci pareva vero! C'era pure Giommaria
Monti, col quale siamo poi andati a pranzo. Risparmio le domande
(abbastanza cretine) e le risposte coi giornalisti!
Dopo ci fu l'incontro col Rimmel. Eravamo in tutto una trentina. Con
me avevo portato mio nipote, che mi ringrazia ancora e che ha marcato
quel ricordo nella sua mente in modo indelebile. Della vecchia guardia
c'erano Marcello, Salvo, Ale Noto, Crazy Horse, Mauro Arena e altri
che adesso non ricordo.
Appena entrato nella sala Talia dell'Hotel Excelsior, Francesco si
avviò al tavolo della "presidenza" con la sua
inconfondibile camminata e ci disse "Oh!… ma non siete ancora
stanchi di De Gregori? Guardate che ho 54 anni!". Io, fra di me,
pensavo "Ciccio, io ne ho 47 e come un ragazzino ho preso un
giorno per stare qui". Per la cronaca: l'indomani ero
fotografato assieme a De Gregori sul quotidiano locale! Mi hanno preso
in giro per una settimana!
Prima di sedersi al tavolo col Presidente Di Grazia, con l'impresario
Giuseppe Rapisarda e con il manager della Friends & Partners, ci
saluta e ci dice "Oggi sono venuto per prendere e non per dare.
All'inizio ero un po' titubante col Rimmel Club, non mi andava la
concezione che io potessi avere un fan club, mi faceva star male. Poi
ho dovuto ricredermi, ho capito di che pasta siete fatti, leggendovi
ho capito che siete degli amici che si divertono a una gita
scolastica. Vi ringrazio per il bene e l'affetto che mi
dimostrate".
Dopo i saluti, prende la chitarra da due soldi (adesso non più, se la
vende su E-bay ne ricava una piccola vacanza) di Cavallo Pazzo, gliela
autografa, la accorda in dieci secondi netti e fra allegre battute e
risate si mette a cantare "Numeri da scaricare". Ed è
proprio questa la canzone che sta cantando mentre viene immortalato in
parecchie foto di quell'evento.
Marcello gli chiede come mai la prima strofa di Gambadilegno a Parigi
si interrompe. Lui gli risponde: "proprio perché al protagonista
manca una gamba, e quindi è monca anche la frase…". Il suo
ragionamento non fa una grinza! Geniale!
Fra una canzone e l'altra ci racconta qualche ricordo della sua
carriera che non è il caso di riportare qui dentro. I flash scattano
in continuazione, alcune studentesse catanesi della Facoltà di Lettere, accompagnate dalla giornalista
catanese Maria Lombardo (autrice di Scele) , gli rivolgono
alcune domande.
Poi, su richiesta di qualcuno, ci ha spiegato Chiamatemi Mimì. Ci ha
detto che tutti pensavano che la canzone fosse dedicata a Mia Martini.
E invece non è così.
Ci ha raccontato che una mattina mentre camminava a piedi per Roma
vide passare, sopra uno dei tanti ponti della capitale, una signora
con gli occhiali neri che somigliava moltissimo alla compianta artista
e che teneva per mano sua figlia. Appena la vide, per la straordinaria
somiglianza, Francesco si avvicinò sicuro che fosse la sua collega e
pensò "Sarà Mimì". Appena era vicino alla coppia si
accorse che non era Mia Martini, ma la visione di quella donna con la figlia
sul ponte, quello strano quadro fece scattare in lui qualcosa che
conosciamo bene: la genialità. "Allucinazioni" che gli sono
sempre accadute mentre guarda un'opera d'arte, legge un libro o un
giornale che parla dei troppi topi che ci sono a Roma. Su una piccola
supposizione riesce a scriverci sempre un capolavoro, una diadema,
compresi tutti i diamanti che ci sono dentro. Questo significa essere
"geni".
Gli chiedo se conosce il Titanic, appena varato (anch'esso di
Catania!). "Francesco, sai che io sono il nostromo e tu il
comandante del mio Titanic?"; "Eh, Mimmo, ma essere il
comandante di una nave che è affondata....."; . "Sì, ma mi
hanno detto che stavolta è inaffondabile!" ….; "Anche
allora lo dicevano!" E ride, ride.
Poi, avendogli detto che d'estate spesso sono a Milo a casa di amici,
a cinquanta metri da quella di Lucio Dalla e a dieci da quella di
Battiato, e che ho sempre sperato di vederlo passare da lì, mi rivela
che una visitina in quel di Milo una volta l'ha fatta, dove ha
assaggiato il vino che produce Lucio: lo Stronzetto dell'Etna!
L'atmosfera è proprio quella: da gita scolastica, le risate fioccano,
lui sta bene, è rilassato e si vede. Ci incita a cantare con lui,
chiede a Daniele di andargli dietro ma Di Grazia per l'emozione si
dimentica le parole! Mauro gli chiede delle cose su un disco di Dylan, della passione di
suo padre (Mr. Zimmy, come lo chiama il sottoscritto) per il cantante
americano, poi parliamo della pirateria su internet, di quanto era
bello attendete un nuovo Lp dei Beatles, acquistarlo, aprirlo a poco a
poco, togliere il cellophane, ascoltare le canzoni ad una ad una,
…….. perché passare subito all'altra non era molto comodo come lo
è oggi. La testina, la puntina sulla linea esatta del vinile…
Ma ve lo immaginate Francesco De Gregori che ti canta davanti come ad
una scampagnata? Ancora adesso, a pensarci, mi riviene la pelle d'oca.
Ma ve lo immaginate che gli chiedo di cantarmi la mia preferita, Deriva, e
lui me la canta seduto a due metri, ma ve lo immaginate che sbaglia
l'accordo ed io che gli dico "Francesco, La maggiore!" fra
una risata generale?
E' stato un'ora con noi, un ragazzo come lo eravamo noi in quel
momento che sembrava non finisse mai. Era felice di farci felici. Per
questo non mi stancherò mai di ripetere che De Gregori ha dato
tantissimo al Rimmel Club, forse più del dovuto. L'affetto che ha avuto per il RC rimarrà immutato
perché questo sito fa parte della sua carriera, della
sua storia, della sua vita.
La festa finisce con Francesco che si concede a noi, si fa fotografare
con tutti, si fa abbracciare da tutti, tutti ma proprio tutti.
Autografa tutto quello che gli passano sotto le sue enormi mani, dalle
chitarre alle borsette, dai testi universitari ai cellulari. E'
contento, sembra dirci "Adesso sono tutto vostro,
prendetemi!".
Alla fine ci saluta, ci dà appuntamento a Palermo e se ne va. Ma dove va? In un noto Caffè di Catania,
a consumare "un'autentica" granita di mandorla (non come quelle di
"mia matre!" in uno spudorato spot!) con calda brioche all'uovo.
E dire che con Marcello, in quel momento, stavamo prendendo un caffè proprio al bar di
fronte. Non ci saremmo mai andati. Eravamo troppo sazi, già troppo
appagati!
(Mimmo
Rapisarda)
Era
il vestito del violinista che
vedevamo sventolare
il
giorno che passò la guerra sulle
rovine della Cattedrale
Dietro
le ombre e la polvere fino
al sonno e alla fame
fino
all'Albergo dei Poveri sull'asfalto
e il catrame
Così
che il vento lo muoveva come
si muove una bandiera
come
un angelo in mezzo al cielo come
una fiaccola nella sera
E
vedevamo con i nostri occhi alla
fine della preghiera
fucilare
i feriti sul portone della galera
Ed
era quello l'unico suono ed
a quel suono marciavamo
nell'acqua
nera delle risaie ed
in mezzo ai campi senza più grano
Dove
il vestito del violinista stava
seduto ad aspettare
che
ritornassero i prigionieri come
onde dal mare
Ma
poi l'esercito si fece avanti e
gridavamo "Assassini!
Fermatevi!
Non vedete! Noi siamo i bambini!"
|
Fino
a che tutto diventa rosso e
non si può più guardare
tutto
diventa rosso e non
si deve guardare
Non
c'era strada per andare avanti, non
c'era strada per ritornare
Non
c'era rotta ne direzione da recuperare
Solo
il vestito del violinista come
una macchia più scura
come
un fantasma nella foresta dentro
la nostra paura
E
d'improvviso fu tutto fermo nell'immanenza
del temporale
quando
l'effimero divenne eterno come
una statua di sale
Quando
il vestito del violinista fu
seppellito nel cielo
come
un'immagine una pittura, come
qualcosa che non era vero
Così
sentimmo nell'aria forte la
ridondanza delle campane
come
un ricordo che faceva piangere, come
l'odore del pane
Come
vedere spuntare il sole dall'altra
parte del muro
e
falegnami e filosofi fabbricare
il futuro
|
Melodia
quasi popolare, arrangiamento da rock acerbo. Anche se meno poetico,
è forse il testo più bello di tutto l'album. Il tono con cui De
Gregori canta - e le sue voci sembrano venire da lontano - è neutro
proprio com'è la sofferenza delle vittime di violenza. Compare in
questo racconto tutta l'angoscia dell'era contemporanea; l'immagine di
un vestito che vola senza il suo padrone mi ricorda il vestito rosso
della bambina di "Shinderl's list" di Spielberg, visto prima
indosso a lei e poi da solo sopra un carro: sola cosa colorata in
mezzo alla pellicola in bianco e nero. Ritorna "la ridondanza
delle campane" come "il suono dell campane"
dell'omonima canzone, visto come ricordo di tempi migliori e atteso
come speranza di tempi migliori (in cui ci saranno "falegnami e
filosofi / a fabbricare il futuro"). (Antonio Piccolo)
QUEL
GIORNO CHE DISSI A DE GREGORI “NON ME LO TOLGO PIU!’”
(TO: RMS Titanic - FROM:
Forum Rimmelclub - dicembre 2005)
Mano, manina, gelida manina, smanetta, un po’
di manetta, dai più aria……. dai alzati, vola, vola vola.
….. rieccomi. Finalmente posso scrivere
qualcosa per giustificare la mia assenza da voi, senza stancarmi, e salutarvi
dopo tanto tempo.
Come state? Volevo raccontarvi
dell’infortunio che mi ha bloccato per quasi tre mesi. A questo punto potete
anche chiudermi, se non vi interessa una cosa estranea alla carriera del
Principe. Altrimenti scendete più in basso.
Siete ancora qui? Sì? Dunque, il motivo della
mia frattura al polso mi sono vergognato a postarlo perché è accaduto nel modo
più stupido e incauto: stavo per appendere qualcosa al muro (non è difficile
intuire cosa) mettendo i piedi su una poltrona con le ruote che è schizzata via
come una Ferrari a Maranello e, volando in aria, mi sono ritrovato a terra con
la mano a forma di elle. Risultato: frattura scomposta del polso destro con
interessamento dell’ulna.
Questa mi mancava. Per il calcio, in vita mia
mi sono rotto caviglia, tibia, costole e clavicola tutti a destra. Avrei voluto
una frattura bolscevica proprio mentre cadevo per appendere una cosa di
sinistra, ma non c’è stato niente da fare. In quegli attimi non ci sono
riuscito. A destra anche questa volta!
Dopo essere stato steccato in posizione
inversa da poco raccomandabili “luminari” del pronto soccorso e a seguito di un
week-end pieno di allucinanti dolori dovuti a quell’errore da denuncia ai
Carabinieri, il lunedì mattina sono stato ricoverato in Ortopedia fra lo stupore
degli specialisti quando sfasciarono quella specie di ”obrobrio sanitario”.
In tutto 3 giorni. Il giorno della riduzione
(che non si può fare da svegli) della frattura e poco prima di addormentarmi, in
sala operatoria ricordo solo il primario che chiese “e questo chi è, come si
chiama?” e l’aiuto: “il polso", "ah! Ecco". Dopo non ricordo più niente. Mi sono
risvegliato su un letto che mi scarrozzava nei corridoi del reparto come al Luna
Park.
Lì nessuno viene chiamato col proprio
cognome, c’è chi si chiama Scapola, chi Clavicola, chi Acromion, chi Processo
zigomatico. Io ero il polso, il signor Polso. Una notte, il Polso non aveva
sonno e dopo aver passeggiato per tutto l’ospedale, per far passare il tempo
interminabile è uscito fuori per fumare una sigaretta. Al rientro ha suonato al
citofono: “Sì?....”, “Rapisarda sono!” (Frank starà ridendo, pensando a
Montalbano!) e loro: “Rapisarda chi?”. “Il Polso!” Cazzo, mi avevano
riconosciuto, la porta si è aperta come quella di Fort Knox al solo sentire
quella parola d’ordine radiografica!
L’indomani, già ingessato, cominciavo ad
annoiarmi e qualcuno mi portava qualcosa per far passare il tempo: La settimana
enigmistica! Ne potevo leggere solo le definizioni non potendo scrivere, ma
alcune erano sottolineate e …. già mi veniva voglia di cliccarci sopra!
Proprio l’indomani dalle dimissioni mi sono
ritrovato con Daniele Di Grazia per dare un saluto a Francesco De Gregori in
occasione del suo concerto a Priolo. Arriviamo in albergo poco prima
dell’appuntamento e intorno alle 18 il Principe entra nella hall per salutarci
prima di andare alle prove. Viene verso di noi sorridendo. Stivali da texano,
giacca di pelle, lo zainetto alle spalle, il cappello in testa che sembrava
prestato da Clint Eastwood dopo le riprese di Qualche dollaro in più, gli
occhiali alla Geppetto e la barba lunghissima da cercatore d’oro del Klondike.
Per istinto mi viene di dirgli “ciao cowboy!”. Ride, mi saluta, saluta Daniele,
ci offre il caffè e mi dice “Che ti è successo? Scommetto che te sei rotto la
mano appendendo un disco mio!” ed io “no Francesco, un’altra cosa: il poster
delle tue chitarre!” Poi mi venne di dirgli una cosa a cui non avevo minimamente
pensato: “Mi hanno pure detto che, sapendo che eri nei paraggi, mi sono rotto il
polso apposta per farti firmare l’ingessatura…. e a questo punto ……una firma ad
un povero ingessato non si rifiuta mai!”.
Mi prende il braccio destro come se fosse uno
scrittoio e con le sue enormi mani comincia a scriverci sopra col pennarello
blu. “Mo’ te lo faccio come si deve … nome e cognome” e ridacchiava. Firmare un
gesso è sempre una bella cosa e lui si divertiva come un discolo ragazzino di
fronte a un muro completamente rimasto bianco apposta per lui. Quel suo enorme
autografo campeggiava da destra a sinistra sul mio braccio, come la scritta
Hollywood sulla collina di Los Angeles.
Come sempre, è stato cordiale. Ci ha
confessato che il tour estivo lo ha sfiancato. Poi abbiamo parlato del mio
cognome, Rapisarda. Mi disse che lo riteneva “sonoro” mentre aspettavamo un
impresario che si chiamava Giuseppe Rapisarda di fronte alla gioielleria
Sebastiano Rapisarda.
Gli spiegai che Rapisarda sta a Catania come
Brambilla a Milano, mentre mi accorgevo che proprio l’insegna luminosa di quel
negozio era sottolineata …. e un impulso partiva dalla mia mano destra, mi
veniva voglia di cliccare per vedere quali orologi c’erano in catalogo …… ma non
accadeva nulla, non si apriva nessuna finestra. Mi mancava qualcosa.
Quel giorno era assente tutto il circo che
ruota attorno a Francesco; lo accompagniamo fino all’autista che lo avrebbe
portato al concerto e ci saluta con un “ci vediamo più tardi a Priolo…. ma com’è
sto Priolo?”. Glissiamo per non scoraggiarlo. Ci avviamo anche noi in auto con
un peso in più, quel gesso pesava più di prima. Era da collezione, un gesso da
E-Bay.
Ma chi lo doveva dire! Straordinaria sta
cosa…. prima di incontrarlo non ci avevo nemmeno pensato, l’idea mi era venuta
al bar mentre prendevamo il caffè, ma …forse non c’è niente di straordinario,
perchè …. secondo voi, Mimmo Rapisarda poteva mai avere un’ingessatura normale?
No! Secondo voi, chi poteva apporre la prima firma? Lui, no? E poi, sarà stata
una mia impressione ma….. da quando è stato autografato dal Nostro ho cominciato
a sentire un po’ di sollievo. Anche fisioterapeuta l’ho scoperto!
Dopo avergli detto, fra le sue risate,
“Francesco, questo non me lo tolgo più”, io e Daniele lo salutiamo e usciamo
fuori dall’albergo accorgendoci che la Renault 5 di Di Grazia era diventata una
zucca come nella canzone! Una zucca pronta per essere trainata da 300 milioni di
topolini che dovevano correre non in via Frattina, ma in direzione di Siracusa
per fare tappa in quell’allucinante cittadina che si chiama Priolo Gargallo. Per
chi non la conosce, appena vicini a Priolo si ha l’impressione di essere
contenti di arrivare. Illuminata di notte sembra Las Vegas: un’enorme città
piena di luci sfavillanti. Verrebbe da dire “cos’ha di brutto questa località?
Da quello che si vede sembra che sia pure un luogo allegro!”. Avvicinandosi,
poi, ci si accorge che tutte quelle luci non sono altro che le segnalazioni
luminose delle raffinerie petrolifere, ed entrando al paese si avverte
immediatamente la puzza dei gas, delle sostanze nocive e di tutti quei veleni
che hanno provocato quell’alta incidenza di tumori fra i suoi abitanti che, per
lavorare, sono rimasti in questa pattumiera voluta dalle multinazionali.
Quando arriviamo a Priolo incontriamo Salvo
Cascone e Alessandro Noto. Sul concerto niente da dire: bellissimo come tutti
quelli estivi del 2005.
Il giorno in cui mi rimossero il gesso
dovetti affrontare un’animata discussione col medico e l’infermiere. La mia
strana richiesta era quella di fare piano con il seghetto elettrico, non per la
mia salute ma per la conservazione del gesso stesso, ancora ricoperto col
lenzuolo. Quei due si guardarono come dire “ma questo è pazzo, dai, chiedi
assistenza alla Psichiatria!” Quando sollevai il lenzuolo, il medico sorrise e
disse “ah, va bè, adesso ho capito! però ce lo poteva dire prima!”. Ridendo,
l’infermiere utilizzò le forbici e con un lavoro certosino ritagliò qualcosa che
in quel momento sembrava un pezzo di stoffa rimosso dalla Sacra Sindone.
In questo momento la “reliquia” è qui con me,
ripulita e in bella vista nel mio studio, in mezzo ad altre mie diavolerie..
Dopo la riabilitazione, gli esercizi, una
palla in gomma che odiai profondamente, ecc.. ora va molto meglio ma due mesi
fa, con la destra, non potevo nemmeno prepararmi un caffè, scrivere, guidare o
usare il mouse. Se mi fossi rotto la sinistra, almeno con la destra avrei potuto
suonare, cucinare, dipingere, insomma fare tante altre cose che in passato avevo
rimandato di fare, visto che ero costretto a stare a casa. Ma con la sinistra
no, con la sinistra ti stanchi anche a leggere un libro. Insomma, ero un mancino
al cento per cento senza saper usare la sua mano preferita ed ho capito che
senza la destra (nel senso più anatomico del termine) sarei fottuto!
Quindi, in tante cose sono stato costretto ad
usare l’altra mano, anzi l’ho rivalutata. Quella che consideravo soltanto un
ausilio, devo dire che invece si è rivelata una valida alternativa. Forse la
sinistra è fatta per fare anche lei le cose che fa la destra, ma chissà cosa
succede nel nostro organismo quando cresciamo, chissà perché facciamo tutto a
destra. L’ho dovuta riabilitare, farle fare tante cose che prima non faceva e
così le ho insegnato come usare il rasoio, la forchetta e tante altre cose. Il
mio capolavoro con lei è stato quello di aprire una bottiglia di vino. Tenendo
con la destra il cavatappi già infilato nel tappo, con la sinistra ho fatto
girare la bottiglia, poi l’ho messa in mezzo alle gambe e sempre con la sinistra
ho stappato. Naturalmente, durante queste monellerie sono sempre da solo!
Cari amici, siamo quasi a dicembre e vi
faccio i migliori auguri di buon Natale raccomandandovi di non bivaccare sui
divani dopo i lauti pasti e di non guardare troppa TV.
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Anche se rock, Eric Clapton era detto “mano
lenta”. La mia mano era rotta, ma non era lenta. Era rock, ricoperta di tanto
rock, anzi hard rock! Era autografata da un Principe!
Mimmo Rapisarda, dic 2005.
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