De Gregori (LP, Album) RCA Italiana PL 31366
Italy 1978
De Gregori (Cass, Album) RCA Italiana PK
31366 Italy 1978
De Gregori (LP, Album, Promo) RCA
Victor PL-31366 Spain 1978
De Gregori (CD, Album, RE, RM, Cas) Corriere
Della Sera, Sorrisi E Canzoni TV
9 771825 788145 90004, 9 771825 788145
90004 Italy 2009
De
Gregori (CD, Album, RE, Dig) Sony Music,
RCA 88843067562 Italy 2014
Dall'esterno dell'edificio che
ospitava gli studi di registrazione e il bar c'erano un parcheggio con
delle aiuole molto curate e un campetto di pallone dove Luciano Costarelli, uno dei fotografi che lavoravano abitualmente per la RCA,
scatta la foto di Francesco che compare sulla copertina dell'album.
"Fu un'idea che ci venne lì per lì,
trovammo da una parte questo vecchio pallone un po' sgonfio, io mi misi
a prenderlo a calci mentre il fotografo scattava e alla fine mi piacque
questa foto così curiosa, così poco 'cantautorale'... quando la vidi mi
venne in mente che avrei potuto intitolare il disco 'De Gregori libero',
avrebbe sintetizzato bene tante cose che erano successe e anche il mio
stato d'animo del momento, ma poi pensai che poteva sembrare una
provocazione e non ne feci nulla. Così rimase solo De Gregori. per
quanto mi sforzassi non riuscii a trovare niente di meglio".
Nei
due anni che passano fra Bufalo Bill e questo disco c’è il Palalido.
Ma è una vicenda così squallida che non merita nemmeno due righe,
anche se quel movimento era una moda del tempo e quindi fa parte della
storia italiana.
Nonostante
quel processo-farsa Francesco continua a cantare ancora un po’ in tour
e poi si ferma, per quasi due anni. “Non feci niente di speciale o, a
seconda dei punti di vista, feci un sacco di cose; per un certo periodo
mi misi anche a lavorare nella libreria di una mia amica a S. Maria in
Trastevere, ma dopo un po’ mi stufai. Mentre
la gente seduta al tavolino conta il tempo con gli aperitivi, lui, con
un fascio di giornali in mano si pettina i pensieri con la mano e pensa
…..che tutto questo doveva pur finire, o ricominciare. Daccapo.
Quando
scrissi “Generale”, pensai che era il momento di fare un altro
disco: volevo chiamarlo “De Gregori libero”, che sarebbe andato bene
anche scritto su un muro, poi lasciai perdere. Tutto qui.” Tutto
qui? Ritorna alla grande con un lavoro che è, come tutti i suoi lavori,
felliniano. Una volta ha detto che Fellini, in fondo, ha fatto sempre lo
stesso film e che lui ha sempre fatto la stessa canzone. Come il grande
Federico, prende i protagonisti delle sue storie e li trasforma da
personaggi reali a personaggi irreali (perché non possono esistere
storie del genere), ma al contempo riesce a far credere che sia tutto
vero. E’ questo il segreto di De Gregori: trascinare nel suo mondo la
realtà, risputandola fuori sotto forma di fiaba contemporanea.
________________________
L’anno
inizia con una scia di sangue causata da attentati: il magistrato Palma,
il maresciallo Berardi e l’agente di custodia Antonio Santoro;
Giovanni Leone si dimette a seguito di scandali e l’8 luglio Sandro
Pertini viene eletto Presidente della Republica; ci governa Andreotti
con una coalizione politica DC, PRI, PSDI; viene eletto papa il
cardinale Albino Luciani, morirà 33 giorni; il 16 ottobre fumata bianca
per Papa Wojtyla; Paul Berg realizza il primo trapianto di geni tra
mammiferi; la legge Basaglia fa chiudere i manicomi; è l'anno dei
grandi stilisti, del pret a porter e delle sfilate uomo donna; in via
Fani alle 9 del mattino un commando delle Br rapisce il presidente della
Dc Aldo Moro e massacra gli agenti della scorta Oreste Leonardi,
Raffaele Jozzino, Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Domenico Ricci. Le Br
rivendicano il rapimento Moro e l’uccisione della scorta. Viene
annunciato l'inizio del "processo" al presidente della Dc. Al
contrario del Psi, Pci e Dc si dichiarano contrari a trattare con le BR
che chiedono la scarcerazione di prigionieri politici. Andreotti
ribadisce che "non si tratta con chi ha le mani sporche di
sangue"; 9 maggio: Moro viene ucciso, il corpo dello statista si
trova in via Caetani, tra Piazza del Gesù (sede della DC) e via delle
Botteghe Oscure (sede del PCI); Reinhold Messner e Peter Habeler sono i
primi uomini a giungere sulla cima del monte Everest senza l’ausilio
delle bombole d’ossigeno; nasce la prima bambina concepita in
provetta: Luise; viene ucciso il giovane Peppino Impastato, creatore
della libera radio siciliana "radio Aut", dalla quale denuncia
con feroce satira le attività di Tano Badalamenti, che abita a
"cento passi" dalla sua casa; il Parlamento approva l'adesione
della lira allo SME; a Roma Renato Zero inaugura il teatro tenda "Zerolandia"
e Mina si esibisce nel suo ultimo concerto alla Bussola; Muore Giorgio
de Chirico.
Agli
Europei Sara Simeoni diventa primatista mondiale di salto in alto e
Pietro Mennea vince i 100 e i 200 metri; Kevin Keegan vince il Pallone d’Oro
e la domenica sera Adriano De Zan ci racconta che la Juve vince lo
scudetto con Zoff, Tardelli, Cabrini, Furino, Gentile, Scirea, Fanna,
Causio, Virdis, Cuccureddu, Bettega. (All.Trapattoni). Ai Mondiali di
calcio in Argentina l’Italia di Pablito Rossi è quarta con Zoff,
Gentile, Cabrini, Benetti, Bellugi, Scirea, Causio, Tardelli, Rossi,
Antognoni, Bettega. (All. Bearzot). Vinceranno il titolo i padroni di
casa.
Al
cinema vediamo La febbre del sabato sera, Grease, New
York New York, Il cacciatore, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Il
paradiso può attendere, Fuga di mezzanotte, Superman, Tornando a casa,
Ecce Bombo, L'albero degli zoccoli, Ciao maschio, Travolti da un
insolito destino nell'azzurro mare d'agosto, Dove vai in vacanza, In
nome del Papa re.
Il
Premio Strega va a Ferdinando Camon con Un altare per la madre e il
Campiello va a Gianni Granzotto con Carlo Magno.
Di
moda vanno i viaggi in Grecia e la crociera sul Nilo, il camper, lo
giogging, la corsa in tuta per le strade della città, le palestre
affollate, la cura del corpo, il boom dei prodotti di bellezza per
uomini, l’autoradio Voxon Tanga, andare a ballare in discoteca, il
pechinese e il pastore tedesco (compresi tutti i cuccioli venduti quali
presunti figli di campioni e poi cresciuti con le orecchie da cocker e
coda sulle ventitrè, ma pur sempre bellissimi).
Indossiamo
abiti un po’ alla Tony Manero, chiari con ampi colletti e camicie
scure aperte davanti, gli immortali jeans. Riscopriamo le magliette
LaCoste, i tacchi tornano “normali”, cioè di media altezza, la
scarpetta torna leggermente triangolare a punta. I colori ritornano a
morbide tonalità di marrone, dallo scuro al beige.
Ci
intossichiamo con Kit Kat, Fagottino Motta, Ergo cappuccino, Nembogel,
Paperon Dollars, i formaggini Grunland, Mio, Bebé, Susanna, Ramek,
Milkana, Prealpi, Tigre, Cremli, Dofocrem, i wafer Maggiora, l'Hurrà
Saiwa Ma anche con le sigarette Amadis, Astor, Cortina, Lido, Mercedes.
Spot
da ricordare sono: "Già fatto ?"; Nino Castelnuovo che salta
la staccionata per l'olio Cuore (cosa che Francesco fa tranquillamente
ancora adesso); Pippo l'ippopotamo; “Fatti non parole” col braccio
ustionato nell’acqua a 90 gradi; 'Chi vespa mangia le mele',
Giochiamo
con Goldrake, il Pon Pon e soprattutto al flipper, uno dei principali
svaghi degli anni Settanta. Viaggiamo
con la Ritmo, la Lancia Beta, l’Opel Ascona.
In
televisione c’è Haidi, Ufo Robot, La donna bionica, Dolce Remi,
Piccolo slam con Stefania Rotolo e Sammy Barbot, Pronto dimmi da dove
chiami, non ho capito la località, chi cambia canale è un furfantino,
esse come Savona e ..Che tempo fa.
Leggiamo
La vita interiore, La chiave a stella, L'affare Moro, Il galateo e il
bosco, Il cappotto d'astrakan, Il Sabato.
A
Sanremo i Matia Bazar vincono con “E dirsi ciao”, allo Zecchino d’oro
vince "Cecki! Cecki!...Aih!" e al Festivalbar gli Alunni del
Sole con “Liù”.
E’
l’anno di John Travolta, che con un film scatena la passione per il
ballo. Migliaia di giovanissimi si ritrovano in quel nuovo luogo di
aggregazione che è la discoteca, ma alla base c'è solo una grande
operazione commerciale che trascina contestatori e conservatori,
democristiani e comunisti, terroristi e chierichetti, tutti a ballare!
Mentre la Siae registra in Italia cinquemila locali da ballo, le notti
dei giovani sono dominate dai Bee Gees, un gruppo che, da ballate
melodiche quali Run to me e My world, cambia registro dedicandosi alla
disco music e diventando leggendario per questo genere.
Il
costume musicale italiano è molto deludente. Sulla costa romagnola
rispunta il liscio, mentre per chi non apprezza questo genere musicale,
non rimane che la discoteca. Nonostante sfornino autentici capolavori,
scompaiono i grandi autori della musica d’autore italiana che sono
contestati, fischiati, boicottati. Nella musica internazionale il
singolo "The Model" dei Kraftwerk, contenuto nell'album
"The Man Machine", segna l'avvento del techno-pop.
Ascoltiamo:
Stayin' alive, Una Donna per amico, Sotto il segno dei pesci, Tu, Grease,
Figli delle stelle, Pensiero stupendo, Triangolo, You're the one that I
want, Gianna, Un'emozione da poco, Summer nights, Tarzan lo fa, Cercami,
A mano a mano, Liù, Dedicato, Night fever, Love me baby, No, Rivers of
Babylon, Ancora ancora ancora, Perdendo Anna, Furia soldato, I love
America, Miss you, Stranamore, Domani domani, Sono un pirata sono un
signore, I'm gonna dance, Sole rosso, Cantare gridare sentirsi tutti
uguali.
Gli
album più venduti in Italia sono Saturday night fever, Grease, Sotto il
segno dei pesci, Una donna per amico, La pulce d'acqua, DE GREGORI,
Zerolandia, Figli delle stelle, Boomerang, Riccardo Cocciante, Tu,
Rimini, Ti avro', Calabuig Stranamore e altri incidenti, L'oro, Com'e'
profondo il mare, Cosmic curves, F.lli La Bionda, Nightflight to Venus,
Cerrone supernature, Rimini, Amerigo, Sotto il segno dei pesci, Agnese
dolce agnese, CSN, And Then There Were Three. Tormentone
dell’estate: Wuthering Heigths, di Kate Bush
Ma
la puntina la poggiamo anche su dischi come Pat Metheny Group, Outlandos
d'Amour, We are Devo!, Blue Valentine, Waiting for Columbus, Dire
Straits, Street Legal, Some Girls, More Songs about Buildings and Food,
Of Queues and Cures, This year’s model.
http://www.rimmelclub.it/storia/storia.htm
|
Primavera 1978: nei negozi di dischi
di tutta italia arriva il nuovo album di Francesco De Gregori. In
mezzo, due anni quasi esatti di silenzio e amarezza per l'artista che
era diventato uno dei cantautori più amati d'italia. Il nuovo disco si
intitola semplicemente DE GREGORI, come di solito si fa con i lavori di
un esordiente, indicando semplicemente il cognome. Dai tempi del vero
disco d'esordio, Alice, torna la sua immagine in copertina, sacrificata
negli ultimi tre album a favore di dipinti o illustrazioni di vario
tipo. anche se lui, Francesco, lo si vede un po' a fatica, perso in un
grande prato mentre tira, con un impeccabile e inaspettato gesto
atletico, un calcio a un pallone.
Questo disco sembra proprio indicare
un inizio, un nuovo inizio magari una seconda fase, forse un confine o
uno spartiacque.
Vedo la cosa da fuori e vedo che hai
ragione. può essere che questo disco segni l'inizio di una nuova fase
espressiva. spesso l'itinerario di un artista è segnato da scansioni
brusche, da interruzioni, da nuovi inizi. Pensa anche ai grandi, a
Picasso, ai Beatles... per quanto mi riguarda sicuramente in quei due
anni e passa mi era cambiata anche la voce... e del resto forse tutto
quel periodo è durato per me molto di più di quantd non dica il
calendario, nel bene e nel male".
Due anni speciali, due anni che
potrebbero anche non avere niente di straordinario, ma che per Francesco
De Gregori significano invece moltissimo considerando quel particolare
momento storico, la seconda metà degli anni "70".
avevo preso in considerazione l'idea
di fare altro, di smettere con la musica. le vendite di Bufalo Bill non
erano andate benissimo. Dopo Rimmel inevitabilmente fare dischi era
diventato non più solo un divertimento, ma un vero e proprio impegno,
diciamo pure un mestiere... in qualche modo la pressione che sentivo sul
mio lavoro era cambiata. e poi c'era stata questa brutta storia del
Palalido che mi aveva comprensibilmente traumatizzato.
Il 2 aprile 1976 un gruppo di
appartenenti ad autonomia operaia dopo aver contestato violentemente e
rumorosamente il concerto di Francesco De Gregori al Palalido di Milano
e aver tentato più volte di interromperne l'esibizione senza peraltro
riuscirci, irruppero a fine concerto nei camerini e obbligarono De
Gregori a tornare sul palco con loro. In un Palalido semivuoto dove
ormai erano rimasti soltanto un paio di centinaia di fiancheggiatori, il
cantautore venne costretto a fronteggiare una serie di accuse che
andavano dai contenuti delle sue canzoni al costo eccessivo dei
biglietti d'ingresso e al suoi guadagni, in quello che fu poi definito
dai giornali un "processo popolare". L'episodio si inseriva in tutta una
serie di avvenimenti analoghi che vedevano nei concerti e nel pubblico
giovanile un'occasione di propaganda e una possibilità di una storia
che, si capisce dallo sguardo di Francesco, forse non è mai stata
assorbita del tutto, su cui forse non si è mai detto tutto quanto.
ma che oggi, probabilmente anche per il tempo che è passato, sembra
che il musicista sia capace di filtrare attraverso una certa ironia.
Oggi c'è tanta polvere su questa
storia e credo che se ne sia parlato ormai abbastanza... d'altra parte
allora era talmente normale che fosse accaduto un episodio del genere.
se guardi i giornali di allora nessuno prese le mie parti, nessuno
condannò l'accaduto. quelli erano i tempi. quello era il mondo.
Ma a parte la comprensibile amarezza
provata sul piano personale quanto costò a De Gregori interrompere la
tournée dal punto di vista squisitamente professionale?
Mi costò moltissimo, ma fu una
decisione che presi immediatamente, la sera stessa, tornato in albergo,
chiamai il mio impresario e gli dissi che era impossibile andare avanti.
avevo la sensazione precisa che le violenze avrebbero accompagnato tutto
il resto del tour, che la cosa non sarebbe finita li e a parte il fatto
che non mi piaceva l'idea di essere messo in croce ogni sera mi rendevo
conto che sarebbe stata compromessa anche l'incolumità del pubblico,
ogni volta preso in ostaggio, espropriato del diritto di godersi una
serata di musica. Così la mattina dopo mi feci prestare la grossa
Citroen dal mio impresario, Venturi, e me ne andai in montagna da certi
amici, a Courmayeur". Tutti a casa, quindi, e mi dispiacque anche perché
quella sarebbe stata la mia prima tournée con una band, con basso e
batteria, una novità assoluta per me che avevo fatto i miei concerti
fino ad allora solo con la chitarra... i musicisti erano gli
stessi con cui avevo fatto Bufalo Bill, a parte Toto Torquati. A
ripensarci non credo che suonassimo tanto bene dal vivo, ma certo
avremmo potuto migliorare se ne avessimo avuto la possibilità. Insomma,
per me era importante avere per la prima volta dal vivo lo stesso
apparato che avevo messo nei dischi, e suonare con una band davanti alla
gente voleva dire finalmente saltare a pie pari tutti quegli artifici da
studio di registrazione che non avevo mai sopportato e in definitiva
crescere come musicista. Comunque andò come andò, staccai la spina e per
un po' smisi di pensare alla musica".
Passano così due anni. due anni in
cui Francesco giracchia per le strade intorno a casa sua, tra Trastevere
e campo de' fiori, e si mette anche a lavorare in una libreria per un
breve periodo, ma si stufa dopo poco. Due anni, in cui si sposa. due
anni, in cui a casa sua c'è comunque un pianoforte. Dapprima cerca di
ignorarlo, poi quel pianoforte, giorno dopo giorno lo attira sempre di
più, fino all'inevitabile resa.
DE
GREGORI
Materializzatosi
dal nulla, quasi con un blitz discografico appare, nel '78, questo
33 giri che pochi si aspettavano e che «il cantautore offeso» usa
come proclama del ritorno. Un biglietto da visita dove (se mi si
permette una immagine da critico ispirato) si leggono tra le righe:
dolcezza e umiltà.
Una umiltà che
fece bene a De Gregori perché smussò un poco l'immagine da bambino
capriccioso e un po' nevrotico che le vicende precedenti gli avevano
incollato addosso.
Non tutte le
critiche furono però positive e concordi, non tutti apprezzarono
questo disco del ritorno. Non tutti raccolsero questo patto di non
belligeranza che il cantautore romano lanciò con le immagini naif di
questo lavoro.
«A me De Gregori
fa venire i vermi» sottolinea con enfasi, per esempio, Lidia Ravera
(ex giornalista di «Muzak», madre di “Porci con le ali” e di altri
meno gettonati successi editoriali). Ne parla sulla rivista «Linus»,
in una specie di tavola rotonda tra vecchi amici con Castaldo e
Pintor, altri ex colleghi di «Muzak», che danno invece, chi per una
ragione chi per un'altra, un giudizio più mediato sul lavoro di De
Gregori. Poco importa però l'opinione che i tre hanno della
faccenda. E’ più importante il fatto che per recensire questo
ritorno si siano scomodati in tre; poco importa che abbiano dato
giudizi buoni o cattivi, il fatto, il sintomo sta nel risultato:
volenti o nolenti, anche nella versione più matura e spelacchiata,
il papà di Alice mantiene un certo carisma, un prestigio che torna a
creare, attorno a sé, un livello di interesse molto alto.
«Se dovessi
cantare una canzone di De Gregori, canterei forse Generale»,
rispondono ad una mia domanda quasi in coro Paolo Pietrangeli e
Giovanna Marini, interpellati, una sera, quasi per caso proprio al
Folkstudio. Quando gli ho chiesto il perché sono stati invece più
evasivi. Comunque anche questo è un piccolo sintomo, è la
dimostrazione della effettiva «facilità» ed immediatezza di questo
lavoro, che lo accomunano a generi vicini ad una tradizione più
popolare della nostra canzone. Un passo indietro rispetto alle
piccole sperimentazioni di «Bufalo Bill» ma un lavoro con una certa
musicalità «italiana», un taglio più folk.
Anche i testi li
abbiamo definiti «naif», sostanzialmente più semplici, lontani
dall'intellettualità ostentata dal precedente ermetismo liceale che,
un po' tutti hanno criticato nella precedente produzione.
Senza osannare
né tirare in ballo genialità o grande poesia, bisogna però notare
l'abilità di confezionatore, il gusto e la dimestichezza da
enigmista, nello sposare le frasi fra loro, nell'esprimere concetti
con buona capacità di sintesi, e ancora il pregio di saper legare la
metrica con immagini e linguaggi di tutti i giorni: “E avevo nella
testa una fontana una pioggia sottile di pensieri dattivi mentre la
gente, seduta al tavolino contava il tempo con gli aperitivi”.
Questo è un esempio rubato dalla Campana: il brano dove più di ogni
altro l'autore tira in ballo chiaramente (per quanto il suo stile lo
permette) i giorni della sua volontaria emarginazione.
Anche nella
canzone Renoir ci sono episodi molto gradevoli, come la divertente
soluzione matematica dell'inizio: “Gli aerei stanno al cielo come le
navi al mare come il sole all'orizzonte, la sera come è vero che non
voglio tornare ad una stanza vuota e tranquilla dove aspetto un
amore lontano e mi pettino i pensieri col bicchiere nella mano”.
Questo lavoro
discografico (che ha, come nelle opere prime, un titolo che
corrisponde al nome dell'autore) ha complessivamente anche un altro
pregio: quello di non aver subìto grossi condizionamenti di tempi e
di mercato, proprio perché il suo autore ha avuto il tempo di
decidere quando e come farlo.
Per questo da un
certo punto di vista si può criticare, nel senso che, da un periodo
di silenzio così protratto nel tempo, dalla possibilità di poter
riordinare idee ed esperienze, poteva nascere qualcosa di più
originale o convincente; ma De Gregori aveva, come vedremo poi,
altri progetti.
Gliene erano venute fuori in
realtà, di canzoni, durante quell'anno silenzioso e zoppo, canzoni
come sempre con varie tonalità di pubblico e di privato, di astratto
e di concreto, di detto e non detto. Ma non era ancora arrivata "la"
canzone, quella che spazza via le nuvole. E un giorno eccola,
imprevista. Una canzone che parla di ritorno: "Generale dietro la
collina / ci sta la notte crucca ed assassina".
Ed è un colpo d'ala del De
Gregori più ispirato, uno di quei pezzi che hanno una strada lunga
davanti, nati per andare liberi in giro, e poi magari fermati nelle
antologie scolastiche.
"Ci sono delle scadenze
discografiche. Per un anno io non mi sono sentito di rispettarle.
Avrei dovuto fare uscire un disco esattamente un anno fa, però non
avevo le canzoni belle abbastanza da farlo uscire. Ne avevo due-tre,
che poi sono uscite adesso. Le altre le ho scritte nell'anno che è
venuto dopo. Sono stato molto a casa, a Roma. Mi sono messo a
leggere libri, sono andato al cinema, ho visto degli amici, ho fatto
delle cose estremamente normali. Cioè, pensavo che fra tre-quattro
anni avrei fatto un altro disco, però non pensavo che ne avrei fatto
uno subito. Poi ho scritto questa canzone, Generale, non so bene
perché... e questa cosa m'ha dato una verifica. L'ho fatta sentire a
un amico che stava per caso qui, dentro casa. Ha detto 'è bella' ma
tanto io lo sapevo che era bella e che mi piaceva, e allora da quel
momento mi sono detto: facciamo un disco. E ho rimesso insieme un
po' tutto quello che avevo, tutto quello che non avevo scritto ma
che avevo in testa, varie idee e in tre-quattro mesi ho scritto un
sacco di roba, addirittura ho dovuto tagliare due-tre pezzi da
questo disco, registrati e poi levati".
Insomma, "io ho sempre scritto
canzoni, solo che lo facevo con grande distacco. Le scrivevo e poi
dicevo: sì, ma non me ne frega niente. Sì, però va bene per farla
sentire agli amici ma non mi va di farla pubblica. E poi, non so,
dipende dalla canzone in generale o in particolare, oppure dipende
da un mio cambiamento di mentalità nei confronti di questo pubblico
fantomatico, ma alla fine ho deciso che invece no, questa è una
canzone che voglio far sentire anche a quelli che non conosco di
persona, e allora facciamo un disco.
La RCA era contentissima, e anche
questo conta. È il mio mestiere fare un disco, in definitiva".
Generale parla del ritorno da una guerra, sì, ma che può anche
essere un ritorno umano, quotidiano, artistico, sociale.
Discografico?
La lavorazione, anche stavolta
alla RCA, comincia macinando provini dei nuovi pezzi con
un'impostazione piuttosto jazz e una formazione che allinea alla
chitarra e alla batteria i fratelli Ascolese e al basso (il suo vero
strumento) Caporello. Ma non viene fuori granché di buono. Si torna
con i Cyan, cioè Alberto Visentin, Franco Di Stefano, George Sims e
Mario Scotti.
Però anche con loro all'inizio il
Generale è perplesso: "Ebbi dei momenti difficili, dei dubbi, dei
problemi con le basi che non venivano come avrei voluto. Allora
chiamai Lilli Greco in maniera informale e lui venne in studio a
darmi una mano". Ma così, ufficiosamente, senza potere di vita e di
morte, "senza pretendere di impostare più la rotta ma limitandosi a
correggerla quando serve", come diceva Greco. Gli screzi passati son
durati poco: "In realtà - spiega il cantautore - sono stati
antagonismi quasi fisiologici fra uno come lui e uno come me: un
adolescente, una persona piena di spine e a volte di atteggiamenti
del cazzo. Non credo di essere stato molto simpatico neanch'io, in
quel periodo". E con Greco, che Dio lo benedica, le canzoni vengono.
Se ne scarta qualcuna (come Eugenio, che andrà sull'album
successivo) e si procede spediti. E poi c'è il fondamentale Ubaldo
Consoli, che stavolta sul disco è ufficialmente accreditato, oltre
che come fonico, anche come produttore insieme a De Gregori. E come
sempre ci mettono del loro i musicisti, da cui passano gli
arrangiamenti pensati dal Nostro. Anzi, "Francesco ha fatto una cosa
- ci dice George Sims - che all'epoca aveva fatto incazzare la RCA:
per quel disco ha dato a noi musicisti delle royalties come
arrangiatori. Nessuno lo fa! Ancora adesso mi arrivano i rendiconti:
sono cifre piccole ma è il pensiero che conta".
Poco prima che esca l'album, il
10 marzo, De Gregori si sposa con Alessandra Gobbi (la Chicca del
liceo). E il 4 settembre nascono due gemelli, Federico e Marco.
Dentro al disco nuovo c'è un autore rasserenato, dal matrimonio, dai
figli in arrivo e chissà da che altro ancora. Forse solo e
genericamente da quella che chiaman la maturità.
DE GREGORI è il disco di un uomo,
non più di un ragazzo, anche se è pieno di bambini, di infanzia,
come a voler ripartire da lì. È un disco di convalescenza che non
sa, o sa poco, di convalescenza. Rispetto a BUFALO BILL ha meno idee
ma più chiare, le canzoni hanno tendenzialmente una cifra stilistica
unitaria, che da qui saranno un
ulteriore segno distintivo della scrittura degregoriana. Sono
canzoni piuttosto cristalline, però questa pare essere una
conseguenza indiretta, non diretta, delle critiche ricevute per
abuso d'ermetismo. Ma, niente paura, arrivano invece le accuse
d'intimismo: "Allora è la solita pappa: per la stampa ho sempre
fatto dei testi intimisti. Che vuol dire intimisti? Tutto è
intimista. Otto e mezzo di Fellini, Joyce, Dante. Giusto la cronaca
sportiva di Italia-Olanda non è intimista. Forse le mie ultime
canzoni rispecchiano in modo meno immediato la realtà. Devi sempre
leggere fra le righe, la canzone è una operazione di sintesi,
richiede delle parabole".
"Se rivedo com'ero, mi rivedo più
agitato, più insicuro, più ansioso; adesso ho rinunciato a molte
cose e ne ho acquisite altre, soprattutto ho acquisito una serenità
mia, mi sento abbastanza autosufficiente e questo è bello.
Autosufficienza in senso emotivo. Sto bene da solo e sto bene con
gli altri e vedo molta più gente che non due anni fa. Due anni fa
vedevo solo gente per lavoro, tutta gente che mi ricordava quello
che io cantavo, quello che io scrivevo; adesso, ad esempio, è
un'eccezione passare una sera a parlare del mio lavoro. Adesso io
sono uno che fa questo strano lavoro di scrivere le canzoni e che
poi, a parte questo, so qual è il mio lavoro e qual è la mia vita
normale; due anni fa forse non lo sapevo, pensavo che il lavoro
fosse divertente e che la mia vita fosse un lavoro. Sbagliavo
completamente. Diciamo che questa è una dimensione molto comoda, per
cui un po' è già mia, un po' cercherò di farla sempre più mia. Mi ci
trovo bene, perché quando cominci a capire che scrivere una canzone
non è solamente vomitarla fuori ma fa anche parte del tuo lavoro,
tutto sommato non è che ami di meno la canzone ma ami senz'altro di
più il tuo lavoro, perché lo identifichi come lavoro". Cioè è qui
che capisce che il suo mestiere nella vita sarà proprio quello (il
sostantivo "mestiere" lo sottolineerà più volte negli anni a
venire). E che la vita privata sta da tutt'altra parte. E là la
terrà sempre.
Da “Francesco De Gregori. Mi puoi leggere fino a tardi” di Enrico
Deregibus - Giunti Editore 2015
Dopo i primi, grandi successi e dopo il dramma
sfiorato al Palalido, nel 1976, De Gregori torna, sul finire degli anni
80, con due album: “De Gregori”, del 1978, e “Viva l’Italia”, dell’anno
successivo.
Soprattutto il primo è un album di grande importanza,
nella produzione artistica del cantautore: si tratta di un disco che,
pur rimescolando ancora una volta le carte fino a qui raccolte, continua
ad attraversare i nodi chiave del modo di scrivere le canzoni che
abbiamo sin qui rintracciato: “la storia”, in “Generale” ed in “Il ‘56”,
“le storie” in “L’impiccato”, il mondo dell’infanzia in “Babbo
in
prigione”, i ritratti femminili in “Natale”, la forma racconto in
“Renoir”; De Gregori inserisce nell’album del 1978 anche una canzone
molto individuale e privata, “Raggio di sole”, legata all’imminente
paternità (nasceranno Federico e Marco, gemelli).
Tra tutte quelle contenute nei due album di cui ci
occupiamo in questo intervento, la canzone più famosa è senza dubbio
“Generale”, una canzone presente, con gli arrangiamenti più diversi, in
quasi tutte le raccolte degli anni successivi e nelle scalette di quasi
tutti i concerti.
Nella raccolta “La valigia dell’attore”, ad esempio,
la canzone è arrangiata, in maniera davvero molto originale e
suggestiva, quasi fosse un bolero; in ogni caso, il ritmo della canzone,
qualunque sia l’arrangiamento, è sempre molto incalzante e serrato, come
quello di una marcia.
E, in fondo, di “marcia” si parla, in quanto
“Generale” racconta di un soldato, un soldato che torna dalla guerra;
sarebbe però sbagliato dire che “Generale” è una canzone “sulla guerra”,
perché descrive piuttosto “il ritorno dalla guerra”, le piccole cose che
aspettano il soldato al suo ritorno a casa:
Anche in questo caso, la canzone nasce da una
suggestione letteraria definita e quanto mai precisa: “Addio alle armi”
di Ernest Hemingway” (l’autore sarà nuovamente chiamato in causa, anni
dopo, con una vera e propria citazione: il titolo di un’opera di
Hemingway, “Morte nel pomeriggio”, diventerà il titolo dell’album di De
Gregori del 2001, “Amore nel pomeriggio”).
In particolare, un verso preciso è ispirato al
capolavoro dello scrittore americano composto durante la prima guerra
mondiale, alla quale Hemingway ha partecipato sul fronte italiano come
autista della Croce Rossa; si tratta di “e a farci fare l’amore, l’amore
dalle infermiere”; è De Gregori stesso a spiegarlo, nel 1997, a NEU, una
rivista infermieristica: “Quella canzone è figlia di un mondo letterario
che parte soprattutto dal romanzo di Hemingway “Addio alle armi”, dove
c’è la figura di un’infermiera dolcissima che comunque fa l’amore con un
protagonista”.
“Generale” descrive il campo dopo la battaglia, il
silenzio dopo quell’ecatombe che fu la prima guerra mondiale, dove i
cinque figli della contadina, i cinque soldati del fronte, le “cinque
lacrime sulla mia pelle”, sono la decorazione di quel generale, le
“cinque stelle” sulla sua divisa.
Il racconto del soldato avviene sul treno del ritorno
e questo non è senz’altro casuale: la metafora del viaggio conosce in
questo disco, ed in questa canzone in particolare, una superba
collocazione (un’operazione simile avverrà anche nell’album successivo,
“Viva l’Italia”, poi, soprattutto, in “Titanic”, ma anche in molto altro
ancora): la metafora del viaggio, infatti, aggiunge in questo caso
qualcosa in più all’idea della transizione, del passaggio da un luogo
all’altro, dove le cose si vedono in un modo diverso; il viaggio qui è
anche il passaggio da un mondo all’altro, da una convinzione, da
un’idea, ad un’altra:
Una caratteristica di questa canzone è la mancanza di
un vero e proprio ritornello o, almeno, di un ritornello cantato: il
“ritornello” può essere infatti considerato l’intermezzo di pianoforte
che scandisce il racconto e separa una dall’altra le quattro strofe; ma
le caratteristiche che rendono “Generale” una pietra miliare nella
produzione di De Gregori e nella storia della musica italiana del
dopoguerra sono la sua composta grandezza e la sua forza espressiva,
riconosciutale da tutti: “Generale” riceverà l’ennesimo, ma
importantissimo, tributo nel 2002, quando Vasco Rossi inserisce nel suo
cd “Tracks” la versione proposta nel concerto del 7 luglio del 1995 a
San Siro (in un certo senso, Vasco Rossi ha così ricambiato l’omaggio di
qualche anno prima, quando De Gregori proponeva nei suoi concerti una
sua versione di “Vita spericolata”, canzone inserita poi dal cantautore
romano anche nel live “Il bandito e il campione”).
Roberto Fornaroli
http://scaloni.it/popinga/1978-semplicemente-de-gregori/
Mi leccai le ferite per bene, in quei
due anni, poi scrissi Generale". E' la prima canzone del nuovo disco a
essere completata, quella che chiude un periodo di indubbia crisi
personale e forse anche creativa e che apre la finestra su una voce più
matura e su un nuovo modo di fare canzoni.
Con Generale ho avuto un sacco di
problemi sulla velocità da dare al pezzo, abbiamo provato e riprovato ma
tornavo sempre a casa scontento, riascoltavo quello che avevo fatto e la
mattina. Dopo ricominciavo da capo. È stato un lavoro lungo e
frustrante, non riuscivo a cantarla come
avrei voluto, mi sembrava che il pezzo a un certo punto si piantasse e
che nessuno sarebbe stato a sentirlo fino alla fine. Non so come ne
venni fuori, forse mi stufai e decisi di far uscire una delle tante
versioni che avevo fatto senza starmi a preoccupare più di tanto.
Cercavo un suono che fosse un po' l'estenuazione di una marcia
guerresca, la sua trasformazione in una melodia domestica, popolare...
la guerra che finisce, il ritorno a casa dei vincitori o dei vinti.
"Generale" è la fine di una guerra.
ha il ritmo lento di un fiume che sta per arrivare alla foce, di
un'acqua che sta per placarsi, ho penato tanto, in studio, sulla
velocità da dare al pezzo, e forse, dome mi capita spesso, non ho
raggiunto del tutto quello che desideravo... cercavo qualcosa che fosse
un po' l'estenuazione di una marcia guerresca, il suo dissolvimento in
una melodia domestica, la canzone è la storia di un ritorno alla
normalità e in quel momento il paese che mi stava intorno, l'italia,
sembrava averne veramente bisogno. E anch'io, tutto sommato... poi tutte
le guerre per certi aspetti sono identiche, la carne e lo spirito
vengono distrutti nello stesso modo da tutte e due le parti, vincitori e
vinti... ho sempre amato la scena finale del film 'Orizzonti di gloria'
di Kubrick, quando la ferocia della guerra si riscatta nel pianto dei
soldati di fronte al canto di una donna fatta prigioniera.. Forse c'è
anche questo dietro Generale. E certamente c'è Viaggio al termine di una
notte o Addio alle armi, o La grande guerra, il film con Sordi e
Gassman.
Quindi ancora una volta, come già per
Bufalo Bill, c'è un film dietro l'ispirazione?
Certamente, ma c'è anche 'Viaggio al
termine della notte', il romanzo di Celine, dove è descritto
mirabilmente lo scempio della prima guerra mondiale, o 'Addio alle armi'
di Hemingway. ma non è esattamente di ispirazione che si deve parlare,
piuttosto di tutto ciò che hai immagazzinato nel corso della tua vita,
libri, dischi, film, racconti e cose viste e ascoltate. Tutto questo
serve poi a raccontare di nuovo, a inventare, ti consente di esprimerti,
diventa linguaggio, diventa materiale poetico in senso lato. Il concetto
di ispirazione mi fa purtroppo venire in mente qualcosa di caricaturale,
tipo uno con una penna d'oca in mano che sta aspettando che qualcosa
passi sopra la sua testa e lo folgori. Per me invece la scrittura si
fonda non sull'attesa, ma sulla disponibilità, la disponibilità a
restituire quello che si è riusciti a catturare, a fare proprio. e anche
in una certa mancanza di pudore e in una certa diciamo... disciplina,
perché un artista che non sia in grado di mettersi anche parzialmente a
nudo non è un artista onesto, disciplina perché comunque questo costa
una certa fatica, non dico che devi legarti a una sedia, ma devi pensare
a quello che fai come a qualcosa che somiglia a un lavoro.
da "Contemporanea" di Paolo
Vites - Corriere della Sera (2009)
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SIAMO
UOMINI O GENERALI?
John
Martin (Giovanni Martini) era nato a Sala Consilina in provincia di Salerno, il 28 gennaio del 1853.
Emigrato in America non avendo trovato lavoro in Italia, si era arruolato
nell'esercito americano divenendo così John Martin, soldato
trombettiere dell'Esercito degli Stati Uniti. Ma il fato volle che
Martin fosse destinato proprio al 7° reggimento cavalleria del Generale George
Armstrong
Custer. Come dire ....staccare un biglietto d'imbarco per il Titanic!
Ma lui non lo sapeva! Anzi, pensava con gioia a come erano lontani e
difficili i giorni al suo paese, a quella valigia di cartone deposta in terza classe e
il cuore gonfio per una terra che, nonostante fosse
quella natia, non gli aveva offerto proprio nulla. Così Giovanni
lasciò il suo passato alle spalle e si apprestò a combattere vicino al mitico generale George Custer.
Tutto ciò lo inorgogliva, lo eccitava. Sapeva tutto del suo
illustre superiore e, come tanti suoi commilitoni, subiva il fascino di
un uomo che oggi avrebbe avuto certamente bisogno di cento sedute di psicanalisi.
I libri di storia ci dicono che alle tre e mezzo del pomeriggio del 25
giugno del 1876, il 7° cavalleria statunitense si portò a ridosso
di un'altura in cui scorreva il piccolo affluente del fiume Bighorn, ad est del
Montana (da qui Little Big Horn). Fu proprio in quel
preciso momento che John Martin si sentì gelare il sangue perchè non era
necessario essere uno stratega per accorgersi dei muri di guerrieri
Sioux che si erano riuniti sulle colline per presentare il conto al
"figlio della stella mattutina" (il soprannome che si guadagnò Custer per la sua abitudine di attaccare gli
accampamenti dei veri americani alle 6 del mattino, a tradimento, senza
risparmiare donne e bambini).
Il resto di quella tragica vicenda si conosce: spinto dalla bramosia di
ricevere qualche spallina in più per quella squallida "invasione" in
terre altrui, invece di ritirarsi Custer decise di attaccare. Però prima
di fare questo, ordinò a Martin di mettersi in sella per correre a chiedere
rinforzi.
Il trombettiere
Martin, perplesso, sapeva bene che non era il caso di contrariare il
Capo e giunto al termine della colonna volle girarsi indietro, solo per
vedere per l'ultima volta quel criminale mentre alzava il braccio nel
segnale di "avanti!". Allora capì che non c'era più un istante da
perdere, mentre la sua incrollabile fiducia nel suo superiore cominciava
a vacillare.
Galoppava e pensava: "Cosa potrebbe sperare di fare il Capo con poco più
di duecento uomini, contro migliaia di pellerossa?" Ma un soldato non si
deve fare queste domande, deve solo eseguire gli ordini. Galoppava. "Che
voglia di piangere e di scappare! Ma un soldato non scappa, non piange,
e poi alle sue spalle c'era gente da salvare, c'erano i suoi compagni che speravano soltanto in
lui, solo in lui.
Galoppava. Avvertiva il ritrovato desiderio di essere a casa sua a Sala Consilina, magari a
patir la fame ma vivo e senza l'odore di morte che si stava lasciando
dietro.
Galoppava. Fino a tramortire il suo cavallo.
Quel giorno, in quella valle trovarono la morte duecentoquarantadue
uomini guidati in una carica senza senso contro cinquemila pellirossa.
John Martin fu l'unico sopravvissuto di quel massacro.
Dopo la tragica esperienza di Little Big Horn avrebbe desiderato una
vita nell'ombra, ma non fu possibile. Era stato l'ultimo a vedere Custer
vivo e si trovò per anni ad essere interpellato dalla commissione
d'inchiesta per stabilire le cause di quel disastro. Le sue versioni,
col passare degli anni, si erano fatte spesso confuse, ma una cosa di
sicuro non aveva mai dimenticato: la secca voce del "Generale"
che lo chiamava per dargli, senza saperlo, l'ordine che gli avrebbe
salvato la vita. Morì a Brooklyn il 24 dicembre 1922.
Questa è la storia di Giovanni Martini ma, vi chiederete, che c'entra
questa storia con la canzone di De Gregori?
Di Martin quasi nessuno sa nulla, in pochi conoscono la sua storia.
Custer, seppur deficiente e canaglia, è quasi diventato un mito, un eroe
nazionale. Ma quanti ne sono esistiti di mentecatti come Custer?
Come nel film di Totò, "Siamo uomini o
caporali?" è sempre il sottoposto a rimanere coi piedi per terra
cercando di far rinsavire chi è accecato di gloria, presunzione e superbia. Non
gli è consentito, ma vorrebbe tanto far capire ai Caporali che in fondo non ne vale la pena
di continuare, che l'ascia di guerra che ogni tanto viene dissotterrata
si abbatte soltanto sui poveretti, sulla carne da macello, sulla truppa insomma.
Qualche volta ci
riesce a rimediare, anche se nessuno saprà mai che il merito è stato suo.
Il più delle volte non ci riesce perchè il soldato perde sempre, anche se è nel giusto. Il
Generale invece vince, anche se sbaglia.
"Il generale Leone ordina ad un caporale a sfidare il pericolo e ad
affacciarsi sulla trincea: ""Bravo!", grido' il
generale."Ora puoi scendere". Dalla trincea nemica partì un
colpo isolato. Il caporale si rovesciò indietro e cadde su di noi. La
palla lo aveva colpito alla sommita' del petto.
Il sangue gli usciva dalla bocca. Gli occhi chiusi, il respiro
affannoso, mormorava: "Non e' niente, signor tenente". Anche
il generale si curvò mentre i soldati lo guardavano con odio. "E'
un eroe", commento' il generale. "Un vero eroe". Quando
il generale si drizzò, i suoi occhi si incontrarono con i miei. Fu un
attimo. In quell'istante mi ricordai d'aver visto quegli stessi occhi,
freddi e roteanti, al manicomio della mia citta', durante una visita che
ci aveva fatto fare il nostro professore di medicina legale."
(Emilio Lussu, "Un anno sull'altipiano")
Quanti ce ne sono stati di questi idioti nella storia dell'uomo? Non sto
ad elencarli tutti, ma i disastri di questi mascalzoni saranno ricordati per
sempre nelle enciclopedie sotto forma di eventi gloriosi, ma a pagare il
conto della loro stupidità sono stati sempre gli uomini veri, quelli che
impotenti di fronte alla follia del potere sono stati costretti a
percorrere con gli stivali di cartone trincee insozzate di fango,
cadaveri, bustarelle e lettere d'amore mai arrivate, a morire fra il
gelo e le pallottole sparate dall'ingordigia di un solo uomo: il
Generale, nel senso più cialtrone del termine e che
rappresenta, in senso universale, tutte le "cupole guerrafondaie"
della nostra storia.
A mio parere, la
canzone che più di tutte spiega quest'antica follia è quella scritta da
Francesco De Gregori. Ha sempre detto che Generale
nacque dalla lettura di Addio alle armi di Hemingway ma, senza volerlo,
ha scritto qualcosa che va oltre quel romanzo, che fra l'altro è anche
una storia d'amore perché il protagonista si innamora di un'infermiera che poi lo aspetta alla fine della guerra, ma poi
finisce che... ecc. ....va bè...
Francesco fu affascinato dalla storia del protagonista.
Frederick era uno di quelli convinti che
"la guerra è bella anche se fa male", uno che credeva
ciecamente in certi ideali ma che dovette ricredersi quando a Caporetto,
a bordo di ambulanze ormai a secco, si rese conto che invece la guerra fa
male eccome, che non era come credeva e che i soldati in caotica ritirata
non erano affatto a favore di quella assurdità voluta da disonesti
interessi. In
quell'ammasso disordinato di divise verdi che prendevano a calci le
divise blu degli ufficiali, sputò sul suo
candido concetto di guerra e sui sinceri valori in cui credeva, quali il
patriottismo e l'eroismo, che aveva da sempre coltivato al punto di
arruolarsi volontario (lui americano) per combattere la guerra di altri.
Credo che Francesco abbia immaginato Frederick sul treno che lo portava
a casa e che seduto davanti al finestrino, in rapida sequenza, vicino al
confine vede tutte le immagini che si presentano davanti a un treno in
ritirata dopo la sconfitta: la contadina cinquantenne curva sul tramonto
che aspetta i suoi cinque figli non ancora tornati; nuove e insolite
colline coperte non di sangue ma soltanto di aghi di pino e funghi buoni
da mangiare a Natale e un sipario che sul vetro viene proiettato
velocemente all'incontrario, finalmente chiaro, pieno di allegria e di
canzoni.
Il suo sfogo lo manifesta ad un immaginario Generale,
presente solo nella sua mente incollerita, che gli sta seduto
davanti col bavero alzato e la barba lunga, sconfitto,
stanco, sfiduciato, disilluso, arreso, fuggiasco, addirittura disertore. Ma adesso è soprattutto un semplice uomo come lui, lontano
da quella figura di semidio che lui aveva sempre fantasticato e che
adesso lo deludeva ferocemente. Parla all'invisibile Generale...
"Caro mio, quelle cinque stelle che porti sulle spalle non hanno più
senso in mezzo al rumore che c'è dentro questo treno, perché non ti
strappi anche quelle oltre i tuoi capelli disperati? Ormai che senso
hanno? Non lo avverti questo rumore, non li senti cantare? Non vedi che
questi nuovi suoni non hanno niente a che vedere con quelli del viaggio
di andata? Questi sono rumori di gente che sta tornando a casa, felice
di mandare a fare in culo te e chi ti ha mandato fra noi per ridurci
così, come bestie! Tanta è la fretta di tornare a casa, che questi
passeggeri hanno già calcolato in due minuti il tempo del tragitto fino
all'ultima stazione per non vederti più. Due minuti, troppo poco. Non bastano nemmeno per scendere a pisciare!
Io ero come te, ci credevo, ma mi hai fregato, mi avete fregato! Adesso
ti odio, adesso anch'io ho voglia di ritornare dritto a casa, perché
guardando fuori dal finestrino mi sono finalmente accorto che non è vero che la guerra
è bella anche se fa male. Vai al diavolo, Generale!"
Ecco come io vedo questa canzone. E' un inno dedicato ai prepotenti
affamati di un'altra
patacca sul petto mentre brancolano nella loro strada ricca di fallimenti
in cui, spesso e volentieri, vengon coinvolti anche gli innocenti,
quelli sani di mente. Leggendo proprio la storia di Martin mi viene
subito in mente Generale, associandola per spontanea affinità, al
ritorno a casa da ogni disfatta dell'uomo, non solo bellica. E a questo
punto gli aggettivi si sprecherebbero!
Collegandola alla guerra che c'era a quel
tempo in Jugoslavia, Vasco Rossi la cantò in un suo tour sottolineando
che la guerra è sempre là, dietro la collina, proprio alle nostre spalle,
in agguato e pronta ad apparire in ogni momento. Vecchioni scrisse che è una gran bella canzone di pace.
E' vero, come Blowin in the wind, Lili Marlen, C'era un ragazzo, Auschwitz ed altre, merita di
far parte di quella categoria di canzoni scritte con note che fanno più male dei cannoni!
Se i potenti della Terra leggessero il testo di Generale ogni sera, come una preghiera
prima di andare a letto, forse vivremmo in un mondo
migliore.
Mimmo
Rapisarda |
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Jouw Verhalen
Testo in lingua tedesca
di Benny Neyman.
"Tussen Rood En Smargad". -
CRN Records B.V.
655.286-2. pubblicato nel 1989.
Jouw verhalen, ik wil ze niet meer horen
Die mooie praatjes die ik moest geloven
Je warme charmes was een rol die je speelde
Een groot acteur die zijn publiek wel bespeelde
En ik ging op in jouw verliefde theater
Maar toen het doek viel kwam voor mij pas de kater
En jouw komedie werd voor mij toen een drama
Maar laat maar zo
Al je verhalen, mooie verhalen
Al je verhalen, sterke verhalen
Al je verhalen, verzonnen verhalen
Al je verhalen, verdraaide verhalen
Jouw verhalen, 't waren mooie woorden
Uit een roman die in de vuilnisbak hoorde
Maar uit jouw mond klonk het als een rede van Reve
Toch heb je nooit als Gerard Reve geschreven
En ik ging op in jouw verzonnen verhalen
Ik las dat boek van jou wel tientallen malen
Het laatste hoofdstuk had, hoe kan het ook anders
Een happy end
Al je verhalen, gelogen verhalen
Al je verhalen, verliefde verhalen
Al je verhalen, vreemde verhalen
Al je verhalen, sterke verhalen
Jouw verhalen, ik wil ze niet meer horen
Die mooie praatjes die ik moest geloven
Het was een klucht in vier of vijf bedrijven
En mijn plezier was met geen pen te beschrijven
Ik huilde tranen van het vele lachen
Want bij een klucht zit iedereen te lachen
Maar dikke tranen rolde over mijn wangen van verdriet
Al je verhalen, verzonnen verhalen
Al je verhalen, verdraaide verhalen
Jouw verhalen, ik wil ze nooit meer horen
Toch kan geen proza mij zoveel bekoren
In alle boeken blijf ik middenin steken
En elke film heb ik vooraf al bekeken
Want ik ging op in jouw sublieme theater
Alsof een kind dat al die jaren
Toen ik klein was geloofde ik in Sinterklaas
Al je verhalen, mooie verhalen
Al je verhalen, vreemde verhalen...
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Gjenerâl (in friulano)
Gjenerâl daûr di che montagne
si sint i tons dal temporâl ch'al bagne
i prins colôrs di cheste primevere
che a cuviarç di stelis ducj i cjamps di vuere
la che àn scanadis lis nestris maris,
là che àn vendudis lis nestris tiaris
là che àn tradide la int furlane par che bandiere taliane.
Gjenerâl la ju ta che cjasute,
al'è un fogolâr cun dentri une vecjute,
a iè che a cjale fìs tal veri de vitrine,
là ch'al è so fi te vecje cartuline,
cincuant' aigns ch'a spiete, ch'a si sint in colpe,
come une mari ch'a no vès fàt avonde
par ducj chei fruts strici#ts di corse
ch'a stavin ducj in di une borse.
Gjenerâl la vuere a iè finide,
un si domande "ma valevie la pene?",
"o podìn fâ fieste!" dal barcon tu âs dite"
che i ricuards a muerin cun il gambiâ de vite".
Forsit sì par te a pos sedi gambiade,
cun mil medais e la pension daurade,
par tancj furlans e je ancjemo dis di vore.
Gjenerâl ta cheste me cjantade
o ai voe di diti che tu âs dismenteade
la part pui vère di che tô storie
che cumô e vîf biei moments di glorie.
No tu âs mai dite che la tô braure
te â regalade cheste tiare dure
cun la sô int che a crôt, che a sude,
e la che a mangje no spude.
GUARDA IL VIDEO
https://www.youtube.com/watch?v=olGzi1xdPkg
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Field
Commander (in inglese)
Field
commander behind the hill
the
night is waiting for us to kill
a
peasant woman is standing still
between
the sundown and the window’s sill
she’s
fifty already and she doesn’t know
exactly
wherever the season’s gone
and
her seven soldiers the way they left
and
didn’t come back
Field
commander behind the station
you
see that old rusted red cross the wagon
there’s
something laughter, you can hear the sound
of
the winning victims homeward bound,
you
can hear the roaring of my memories
…
sweetly through this winter breeze
and
all these clouds and nightgale that fell
in
love with me
Field
commander the thing is done
our
enemy’s rushing, our enemy’s gone,
behind
the hill there is just the moon
and
needles of pine and silence and mushrooms
good
even (?) mushrooms to pick and dry
for
the Christmas gravy when it’s Christmas time
when
children laugh and cry and don’t want to go to bed,
they
want to play
Field
commander these seven stars
these
seven tears, these seven scars,
really
don’t mean nothing to me, I’m alone,
on
this rusty wagon running through the dome (?),
my
companion’s face so skinny and cold,
reflects
the colour of the sky at home (?),
it’s
nearly day and nearly romance
it’s
nearly home
|
(grazie a Samuele Romano, grande
ricercatore ed esperto musicale)
Quando faccio una canzone di solito le scrivo perché mi
vengono in testa: Quindi è un’esigenza,
non è un messaggio che voglio dare. Credo di aver cercato di scrivere
una canzone su un ritorno a casa, ecco,
sul ritorno
a casa dopo qualsiasi tipo di guerra.
Quindi un ritorno a casa su un qualsiasi tipo di guerra o
dopo una guerra tradizionale fatta con le pistole, con i cannoni o dopo
una guerra quotidiana fatta di lavoro, di brutto lavoro. Ma soprattutto
direi che Generale è una canzone sulla casa, sulle mogli, sui figli.
Cooming Home.
Io credo che ogni giorno si combatta una guerra, chi più
o chi meno, non so che la canzone sia ancora attuale. Dire che era
attuale quando l'ho scritta questo sicuramente si, dire che lo sia
adesso è presunzione.
(Francesco De Gregori, 1980)
Generale vista da Roberto Vecchioni
Due anni intercorrono tra “Bufalo Bill” e il successivo “De Gregori”
(1978). Molti sono i motivi di questo ritardo, biografici ed
esistenziali in primis, come ben riporta Pino Casamassima nel suo “la
valigia del cantante”, che consiglio a tutti di andarsi a leggere,
perché è si vero (e più volte l’ho ripetuto) che qui si fa analisi
semantica e creativa, ma a volte non si può prescindere dal vissuto per
capire trasformazioni e superamenti.
In breve De Gregori avverte come un senso di “picco”, di limite, di
ascesa conclusa e un vuoto di cose e di desideri. Contribuisce a calarlo
in questa situazione la grave contestazione che subisce a Milano, dove é
processato da un manipolo di intransigenti, ciechi d’arte e di politica.
De Gregori non si sente affatto in colpa per il suo modo di scrivere e
comunicare che gli altri vorrebbero più politicizzato, più chiaro, più
in linea con la prassi. Non si sente in colpa no, ci mancherebbe, ma
l’assedio è traumatico, lascia il segno, come un brusco risveglio. Erano
tempi (ricordo bene anch’io che ho provato un’esperienza simile a
Bologna) in cui da parte di Bertoncelli e Giaime Pintor
(in modo diverso per la verità) si tuonava contro la fiacchezza borghese
di certi cantautori, la loro fragilità programmatica, lo star fuori dal
“reale” rifugiandosi in “ermetismi” e “favolette” senza costrutto. Un
deja vù (in piccolo) se si ripensa alla “querelle” Vittorini-Togliatti
sul ruolo dell’artista.
De Gregori (come me d’altronde) credeva di essere nel giusto e che non
esistono canzoni facili o difficili, ma vere o false. Ma De Gregori
(come me d’altronde) aveva e ha una sensibilità enorme che provoca sogni
notturni, vaghi sensi di colpa e tutto il repertorio di autoindagine che
può scatenare un’emotività così indifesa. Per giunta teneva tutto
dentro: il suo era uno sfogo implosivo e per niente benefico. In questo
periodo tutto diventa più aspro e la memoria si fa un’assassina. Da qui
il ricordar d’amore e di una gioventù così a due passi e così lontana
ormai, nonché la paura che qualcosa si sia spezzato nel dialogo con la
libertà e che il gioco di Rimmel e Bufalo Bill fosse per il momento
irripetibile.
Come lui dice grande abulia, tutto ciò si trasforma in solitudine,
fascio di giornali sotto il braccio, camminate per le vie di Roma,
inerzia, non voglia, entusiasmo da recuperare.
E lo recupera eccome, uscendo con un disco che già dal titolo (De
Gregori) dimostra la fermezza di anteporre a tutto se stesso. “De
Gregori” è un bellissimo disco, diverso formalmente dai precedenti,
molto meno “oscuro” a tratti solare, persino divertito, più spesso
naturalistico, descrittivo, ricco di ambienti. Ma la sua principale
caratteristica è comunque un’intensità, una profondità politica
esplicita, senza mezzi termini, giocata tra l’ironia drammatica e la
denuncia antimilitare; maturazione che porta “ciccio” a incanalare il
suo io-persona e il suo io politico in un’identica direzione e ad usare
per se stesso una “prudherie” minimale, sintetica, sì, ma, come detto,
convinta, netta, definita.
Ma torniamo a “De Gregori”, album dell’anno prima, che come detto segna
un ritorno e una svolta. Se “W l’Italia” non lascia dubbi sul senso
della misura del “nostro”, “Generale” non ne concede alcuno su da che
parte stare, con chi partecipare, e di più sulle radici in fondo
semplici, popolari, del pensiero di De Gregori: la contadina curva sul
tramonto, i bambini di campagna che aspettano il Natale, la terra, i
funghi gli aghi di pino sono la vita, la vita contro la morte.
Perché questo è “Generale”, di là del suo lampante antimilitarismo: una
gran canzone di pace. E gran canzone è già nella fusione inscindibile di
musica e testo, con quell’incalzare battuto che non lascia un attimo di
respiro, con quell’accavallarsi d’immagini che sfumano una nell’altra,
con il “rif”, il solito “rif” trascinante in cui è come se scoppiasse,
parlasse, si facesse sentire tutta la gioia di chi torna a casa, alla
vita vera, dopo mesi di finta guerra. In mezzo a tutto questo c’è un
mare di immagini di altissimo “linguaggio poetico in canzone”, violente,
esplosive, immediate, da non starci a pensare su, proprio il contrario
di certa concelebrata “poesia scritta”. E allora vedi.
Vedi il treno e chi ci sta dentro, il paesaggio dal finestrino, vedi,
perfino, i pensieri, i desideri, i sogni di chi sta tornando, vedi come
se fossi tu stesso protagonista, immerso nel testo, nella storia, come
deve essere, come dovrebbe essere sempre per un testo, per una storia
messa in musica.
C’è “la notte crucca e assassina”, “la contadina CURVA SUL TRAMONTO (un
quadro di Fattori), “Il treno che portava al sole e non fa fermate
neanche per pisciare” (in fretta, in fretta!), le infermiere che fanno
l’amore; c’è quel rotolante triplice participio passato “scappato,
vinto, battuto” e poi “funghi buoni da mangiare, da seccare, da farci il
sugo” triplice infinito con cambio repentino di quadro, di ambiente; ci
sono “bambini che piangono e a dormire non ci vogliono andare” e “cinque
stelle, cinque lacrime sulla mia pelle” che non han più senso, ora sulla
via del ritorno, come non hai senso tu caro generale, come ha senso solo
la vita.
_________________
tratto da "Il linguaggio in
canzone in rivoluzione lessicale, formale e tematica di Francesco De
Gregori"
Prof. Roberto Vecchioni - Università di Torino
|
La prima presenza
femminile che ricordo con Francesco fu molto misteriosa. Una sera
giunsi al Folkstudio che lo spettacolo era già iniziato e vidi
Francesco seduto in una delle poltroncine in fondo, con accanto una
ragazza con la quale parlava a voce bassa, nella
penombra.
Incuriosito chiesi a qualcuno, forse al Bassignano, chi fosse.
Questi mi rispose con aria complice che era Francesca, una sua ex
compagna di scuola del Tasso. Come mia consuetudine presi atto della
situazione e non volli indagare ulteriormente, e cosi Francesca, che
non rividi più per molto tempo, rimase un'ombra indistinta dai
capelli scuri.
Infatti Francesco sposò la
pellerossa, e costei era quella stessa ombra che avevo intravisto al
Folkstudio tanti anni prima. In realtà Francesca a mio avviso non è
una pellerossa benché i suoi tratti possano indurre tale
impressione: Francesca è un elfo, e nemmeno lei lo sa. Ne ho avuto
la prova definitiva quando ho visto i loro due gemelli, Federico e
Marco, che sono senza alcuna possibilità di dubbio due vivacissimi
elfi dai capelli rossi. Mi sono sempre chiesto che effetto possa
fare un'educazione di stampo rigorosamente montessoriano impartita a
due piccoli elfi, ma credo che non sarà difficile dare una risposta
nel prossimo futuro a questo importante quesito.
da DE GREGORI di Giorgio Lo Cascio -
1990
Una
grande festività, a noi tutti cara: il Natale! questo grande sentimento
qui, un sentimento che ci spinge dentro i negozi a comprare di tutto:
finti babbi natali, veri gesù bambini, il Natale... ma il Natale è
solo un pretesto per la prossima canzone, che è in realtà la storia di
un individuo romantico, che aspetta il ritorno della donna amata, la
quale è partita, è andata in un altro paese, e secondo me nemmeno
torna più, nemmeno gli scrive... una canzone in qualche modo drammatica
dal punto di vista sentimentale.
Lui però, che è un individuo sereno e
ottimista, ogni sera ascolta, per le scale del suo palazzo, dei passi,
che si fermano due piani più su; e spera che possano essere i passi di
lei... e invece sono del postino, che abita all'appartamento di sopra e
torna alla sera verso le undici-mezzanotte, anche un po' incazzato...
lui però ci spera ogni volta e ogni volta è deluso... la canzone
sarebbe tragica come ben vi rendete conto anche voi, se non avesse un
lieto fine inaspettato: lui si innamora direttamente del postino...
____________________
Il pianoforte, dunque, chiama. E De
Gregori scrive e torna negli studi della RCA di via Tiburtina, dove
mette di nuovo insieme alcuni dei musicisti che avevano lavorato con lui
al tempi di Rimmel fra cui Roger Smith al basso e Alberto Visentin alle
tastiere, momentaneamente rubati al gruppo dei Cyan, che
accompagnava Riccardo Cocciante nelle serate.
Alla RCA c'era una bella atmosfera,
gli studi lavoravano a pieno ritmo, ci incontravamo al bar, un enorme
stanzone sempre pieno di artisti che stavano là a passare il tempo fra
una registrazione e l'altra, d semplicemente ad aspettare qualcosa,
chiacchierare. potevi confabulare con Renato Zero, prendere l'aperitivo
con Mango. C'era Adriano Pappalardo, con un vocione enorme anche quando
ordinava un caffè, amicissimo di Lucio Battisti che invece veniva
raramente e aveva un suo fascino particolare... era blindatissimo nella
sua riservatezza quasi patologica"
Non ci sono particolari riferimenti a
Bob Dylan, in questo disco, come invece si intravedeva qua e là nei
due precedenti lavori (o forse sì, almeno a seconda di chi scrive, ma lo
vedremo più avanti), ma c'è un altro americano illustre, seppure
conosciuto solo da pochi buoni intenditori. la canzone natale richiama
il brano "Christmas in prison" del songwriter John Prine (che, detto per
inciso, è un musicista comunque molto dylaniano sia come modo di cantare
che di comporre). Quando gli faccio quel nome, Francesco sorride e si
mette a cantare: "it was christmas in prison and the food was real good...".
esatto.
Be' dai, la mia è un po' diversa".
C'è sempre stato mio fratello a farmi conoscere questi cantautori
americani e la cosa continua tutt'oggi (evidente riferimento
all'incisione di l'Angelo di Lione su Per brevità chiamato artista,
brano dei songwriter Tom Russell e Steve Young). Lui portava questi
vinili dai suoi viaggi americani e me li faceva sentire. Niente male
quel disco, eh? quello dove c'è anche Sam Stone... (Francesco si
riferisce all'esordio di John Prine, dal titolo omonimo e pubblicato nel
1971). In effetti Natale deve qualcosa a 'Christmas in prison'. ma io
non ho mai avuto troppi problemi a prendermi delle cose che mi piacevano
e ad usarle per scrivere le mie canzoni. Ho sempre preferito una buona
canzone che prende in prestito qualcosa da qualcos'altro a una brutta
canzone originale al cento per cento. E' cosi che funziona. Chi si dice
originale a tutti i costi, dice sciocchezze.
da "Contemporanea" di Paolo
Vites - Corriere della Sera (2009)
Un uomo diverso. soprattutto un uomo,
adesso. Che intanto ha messo su famiglia. nello stesso anno in cui esce
l'album, sulla popolare rivista sorrisi e canzoni viene pubblicato anche
un articolo molto personale, a sua firma: " (...) amore, torna presto
dentro questa nottataccia che sto vivendo. Vendimi delle rose bianche e
delle canzoni da circo con dentro delle facce spiritose e gentili (...).
fammi essere contemporaneamente Stanlio e Ollio. fammi vedere il
biglietto vincente della grande lotteria del gelato di Capodanno 1979
(...). buonanotte, dì le preghiere e che dio ti benedica", è solo un
piccolo estratto di un brevissimo racconto di stile vagamente
bukowskiano, testimonianza di una capacità di scrittura che potrebbe
competere con quella di composizione delle canzoni.
No, non mi ci vedo a scrivere libri.
certo, mi piace l'idea romantica dello scrittore di una volta, di quello
che prende e se ne va, chessò, a Parigi per sei mesi, da solo, chiuso
nel quartiere latino e scrive... scrive. no, le canzoni mi bastano e mi
avanzano. Va bene così. Amo troppo la letteratura per mettermi a
scrivere anch'io. Alcuni pensano che scrivere libri sia più nobile e
importante che scrivere canzoni. Io non ho queste smanie. E i libri che
mi capita di leggere li divido idealmente in due categorie, duelli che
non sarei capace di scrivere e quelli che sono felice di non aver
scritto.
La "nottataccia" di Francesco De
Gregori sembra essere ormai definitivamente passata
Sì, tante cose cambiano in
quell'anno. Mia moglie e io andiamo a vivere insieme definitivamente,
arrivano i figli. Avevo compiuto 27 anni ed ero diventato un uomo.
da "Contemporanea" di Paolo
Vites - Corriere della Sera (2009)
Stella
guarda la luna, la luna guarda Stella. La notte è bella. E' bella e profumata, di aranciata e di menta.
Stella è
contenta che babbo se ne è andato. Che babbo è via lontano.
E mamma lava i piatti, e canta piano.
Co-produttore insieme a lui Ubaldo
Consoli, ma è un nome che i più attenti ricordano già dai lavori
precedenti come Rimmel e Bufalo bill:
Fu un grande aiuto in tutti e tre i
dischi. Di solito Ubaldo lavorava con la musica classica, aveva una
velocità di registrazione che nessun altro alla Rca aveva. Lui ragionava
sulla presa del suono in modo diretto, perché era abituato con le
orchestre che si registrano cosi, in presa diretta. aveva molto gusto e
io per lui ero una presenza strana, non era abituato al mondo dei
cantautori, era curioso, creativo, paziente. molto sensibile al testo,
attento alle parole, al canto. Fu un rapporto, anche personale, molto
bello.
|
IN PUNTA DI PIEDI E' ARRIVATO IN CIMA
(Il Monello, n.28
14-7-78)
Dopo la famosa contestazione al Palalido di Milano nel 1976
Francesco De Gregori è rimasto due anni in silenzio. poi ha inciso un
disco ed è ritornato puntualmente in vetta alle classifiche
discografiche: la migliore risposta ai denigratori Ed ecco che ritorna,
dopo due anni, la pecora nera dei cantautori italiani, come amano
definirlo gli "arrabbiati" che la sera del due aprile '76, al Palalido, a Milano, inscenarono una violenta protesta nei confronti di
Francesco De Gregori.
Lo accusarono di essere "commerciale",
"qualunquista" e così via. Accuse quantomeno dettate da
faciloneria e cattiveria. Accuse che Francesco ha cercato di digerire in
questi due anni di silenzio. E ritorna, ritrovando il suo pubblico, quello
che si riconosce nelle sue canzoni e che ama la sensibilità per le cose
di tutti i giorni.
E' ritornato con un ellepì che è destinato a bissare
il successo di "Rimmel". Un ellepì che più o meno ricalca lo
stesso De Gregori di una volta: niente trasformazioni radicali o
"nuove scoperte". Solo la consapevolezza di essere onestamente
convinto che quello che aveva fatto finora era giusto, anche di fronte ai
"facinorosi" (quattro gatti in definitiva) che due anni prima
l'avevano violentemente contestato.
Francesco si è ripresentato quasi in
sordina, giocando al pallone, da solo, sulla copertina di un 33 giri che
per titolo porta il suo nome e basta.
Quasi a volersi ritrovare di nuovo
in una "prima volta". Vuoi ancora ricordare quella sera di due
anni fa, a Milano? Dovrò ricordarmela per forza, come si fa a
dimenticare? Anche se ormai è un episodio lontano...Ora dopo due anni, mi
sento più tranquillo, più in pace con me stesso.
Cosa ti ha colpito di
più di quell'episodio? La violenza con la quale sono stato affrontato,
senza avere la possibilità di difendermi. E' stata una vera e propria
aggressione.
Provi rancore?
No, assolutamente. Forse dovrei ringraziare
gli autori di quel fatto perché mi hanno dato la possibilità, in questi
due anni, di ritrovarmi con me stesso, di trovare conferma dentro di me
per quello che avevo fatto fino ad allora. E non ho proprio niente da
rimproverarmi. Parliamo del tuo ultimo 33 giri: c'è qualche differenza di
fondo con i precedenti? Sono canzoni un po' diverse, ma neanche tanto. Il
modo di cantare è lo stesso, melodico.
Le canzoni sono tutte percorse da
una vena di ottimismo a parte una, "La campana", dove traspare
un po' d'angoscia, di amarezza e di solitudine... frutto di questi due
anni. Una solitudine salutare, che serve ad essere autonomi nelle scelte
pur contando sugli amici quando hai bisogno di loro.
Che tipo di
cantautore è Francesco De Gregori?
Uno che racconta il "suo
quotidiano", le mie sensazioni di fronte a fatti come l'amore,
l'ambiente che mi circonda... Non lancio messaggi o proclami. Metto in
musica i miei sentimenti, sentimenti che poi sono comuni a tutti, che
condivido con chi mi ascolta. Anche a me, quando ascolto un disco di
qualcun altro o leggo qualcosa in cui mi posso ritrovare, fa piacere
immedesimarmi perché quelle sensazioni che ascolto o leggo sono anche le
mie. Un esempio? Mi piace ascoltare Lucio Dalla, per esempio. Perché
abbiamo una sensibilità, un modo di vedere le cose piuttosto simili.
Ti
sei sempre reputato un cantautore al di là della "barriera"
commerciale. Come spieghi, allora, che agli inizi hai fatto capolino nella
bagarre di una manifestazione come "Un disco per l'estate"? Sì,
mi ricordo... Avevo presentato "Alice" che terminò, distanziatissima, all'ultimo posto. E' stato solo un piccolo ed innocente,
credo, stratagemma per poter usufruire dello spazio che la Rai dedicava a
quelle manifestazioni, per farmi conoscere, insomma. Ognuno di noi, se ha
qualcosa da dire, credo abbia la voglia di far conoscere a più gente
possibile il suo "pensiero". Per te è importante comunicare?
Molto importante. Per questo cerchi il successo? Un certo tipo di
successo, che va al di là della vendita dei dischi. Per me il successo
vero è quando riesco a coinvolgere la gente attraverso le mie canzoni,
confermando, in tal modo, la mia capacità di comunicare con i miei
simili.
|
"Decisi di smettere per qualche anno, anche perché,
in concomitanza con questi eventi, si concluse una storia d'amore importante.
Avevo solo 25 anni, e decisi di cambiare mestiere nonostante avessi pubblicato
alcuni album di successo. Per due o tre anni girovagai alla ricerca di una nuova
occupazione, che trovai presso un libraio. Rimasi comunque nei paraggi della
musica, suonando e componendo nuove canzoni tra cui "Generale". Appena
scrissi quel pezzo, capii che era una canzone in qualche modo importante, e che
era giusto riportare su disco. Era ora di ricominciare. Era il mio mestiere che
chiamava me e non viceversa. Da quel momento Il mio lavoro non riesco nemmeno a
percepirlo, non riesco a capire come lo stia facendo, lo faccio e basta. Inoltre
provo un grande amore per il mio pubblico. Non ho un rapporto di ammiccamento,
però gli devo molto. In certi momenti difficili, proprio il fatto di pensare al
"mio" pubblico mi ha dato la forza di andare avanti. E il pubblico è
stato in grado di capirmi anche quando le canzoni che proponevo non erano un
granché. I miei lavori sono fatti solamente per loro e me ne frego di quello
che può pensare la critica o i giornalisti in genere".: BLU – RIVISTA)
_____________________
Francesco rimase a riflettere a lungo sui recenti tristi
avvenimenti, rifiutando cortesemente tutti gli inviti che riceveva da coloro che
speravano che riprendesse presto in mano la chitarra. Ma ciò non poteva durare
all'infinito. Produsse infatti un nuovo splendido disco, dal titolo DE GREGORI,
dai più noto come "Generale", con una copertina estremamente
liberatoria: Francesco in un grande prato, intento a colpire un pallone. (…)
Molte canzoni dolcissime e malinconiche, come Natale, Renoir, Raggio di sole,
Babbo in prigione, ma anche come di consueto canzoni estremamente serie, come
L'impiccato e La campana, e in fondo come la stessa Generale, solo
apparentemente didascalica. (…). DE GREGORI – LO CASCIO – MUZZIO 1990)
Una sera giunsi al Folkstudio che lo spettacolo era già
iniziato e vidi Francesco seduto in una delle poltroncine in fondo, con accanto
una ragazza con la quale parlava a voce bassa, nella penombra. Incuriosito
chiesi a qualcuno, forse al Bassignano, chi fosse. Questi mi rispose con aria
complice che era Francesca, una sua ex compagna di scuola del Tasso. Come mia
consuetudine presi atto della situazione e non volli indagare ulteriormente, e
cosi Francesca, che non rividi più per molto tempo, rimase un'ombra indistinta
dai capelli scuri (….) Infatti Francesco sposò la pellerossa, e costei era
quella stessa ombra che avevo intravisto al Folkstudio tanti anni prima. In
realtà Francesca a mio avviso non è una pellerossa benché i suoi tratti
possano indurre tale impressione: Francesca è un elfo, e nemmeno lei lo sa. Ne
ho avuto la prova definitiva quando ho visto i loro due gemelli, Federico e
Marco, che sono senza alcuna possibilità di dubbio due vivacissimi elfi dai
capelli rossi. DE GREGORI – LO CASCIO –
MUZZIO 1990)
|
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Lo
Cascio e La Pellerossa - di Francesco De Gregori (1977)
Stamattina la stanza è tutta in disordine: ci sono cicche
dappertutto e una quantità di vetri insospettabile negli angoli
più difficili da raggiungere con la scopa. Alle otto e un
quarto suonano al portone di sotto: era Lo Cascio che veniva a
riprendersi il portafogli che aveva dimenticato qui ieri sera.
Mentre lui sale le scale corro a nascondere la chitarra e le sue
briciole in modo che non mi faccia domande.
Lui si presenta con un cappuccino caldo e una ciambella e un
sacco di scuse per avermi svegliato. Io l'ho tranquillizzato
dicendogli, mentre mi mangiavo la ciambella e bevevo il
cappuccino, che ero già sveglio perché la Pellerossa aveva
messo la sveglia alle sette e mezzo poi era andata via dopo
essersi vestita in fretta. Lo Cascio è un uomo eccezionale e so
che non mi chiederà niente riguardo la Pellerossa: gli basta
così, se anche gli avessi detto che ero stato svegliato dalla
Balena bianca gli andava bene così.
Poi mi è venuta voglia di fumare e allora mi sono vestito e
siamo scesi al Bar Tabacchi; altro
cappuccino, altra ciambella e
un pacchetto di Marlboro; tutte le Marlboro di Roma sono finite
da tre giorni. E ci siamo messi a fumare e a chiacchierare per
via dei Giubbonari: com'è diversa alle otto e mezza di mattina
rispetto a quando c'è traffico!
Io l'imbecille avevo gli zoccoli e, senza calze, avevo persino
un po' freddo ai piedi e me ne stavo tutto ingobbito nella
giacchetta e ogni tanto pensavo alla Pellerossa e chissà a che
cazzo pensava Lo Cascio intanto. E ci siamo pure dati una
guardata all' "Unità" appesa fuori la sezione di
Regola Campitelli , tanto per sentirci buoni e disposti a
cambiare le ingiustizie del mondo intero.
Adesso che mi sono alzato per andare al cesso mi sento proprio
più chiaro di prima: la stanza, cioè, è proprio
impraticabile: i vetri scricchiolano sotto gli zoccoli: ci sono
due lattine di birra vuote dentro il barattolo di vetro grande e
la boccettina con dentro gli antibiotici per la bronchite è
rovesciata sul tavolo e ha perso l'etichetta, così sembra
proprio la scena adatta per il suicidio di una stellina di
Cinecittà.
Signore, ti prego, aiutami a vivere da solo senza venir sepolto
dai miei rifiuti. Ora devo assolutamente fare qualcosa per far
quadrare questa stanza: comincio a sentirmi pieno di vetri
piccoli piccoli e di fumo freddo: devo aver l'alito di una
catacomba. Adesso mi vado al lavare e poi metto in ordine: anzi,
meglio il contrario. Così sono sicuro che vado. Chiamatemi
Mimi.
Sono pieno di tosse; tossico di tutto: rospi, ciotoli, cartine
stradali degli USA, cadaveri di giovani ragazze tedesche
aggredite all'alba a Villa Borghese.Tossisco areoplani di carta
costruiti per Camilla e racchette da neve a reazione. Tossisco
paragoni e punti esclamativi con facilità sorprendente. Potrei
anche mettere su un negozio e vendere tutto ciò che tossisco.
Il negozio si chiamerebbe "Tossiture" e lo gestirei
assieme alla signora Thorovskj che mi sta snervando col suo
passeggiare avanti e indietro al piano di sopra (anche lei con
gli zoccoli ?! Gesù, ma allora è una moda!).
Chissà se la signora Thorovsky ha sentito i miei scoppi di
felicità sulla parete stanotte?
Comunque sono riuscito in meno di un'ora a rimettere a posto la
stanza dove sto scrivendo e la stanza da letto.
La camera da letto è quella che mi dà l'angoscia perché
l'idea di dormire lì da solo stanotte mi mette tristezza.
Quella stanza è troppo vuota adesso; non c'è più nemmeno il
quadro del Piccolo Marinaio perché l'ho regalato: mio fratello
dice che a lui piace così e cita Cohen "The windows are
smoll and the walls must be bare". Che si fottano, lui e
Cohen. Quella stanza è squallida e rimane squallida, senza
tante filosofie. Si tratta di riempirla, magari con un
cassettone o un comodino, così la finirò di rovesciare il
bicchiere con l'acqua tutte le notti. O magari una piccola
libreria. Ieri sera mentre stavo a letto e parlavo con la
Pellerossa ogni tanto mi veniva paura per i sogni che avrei
fatto; cioè, peggio ancora, percepivo la stessa sensazione di
terrore che provo quando faccio certi sogni ricorrenti (i treni,
gli autobus ) senza però evidentemente sognare. Allora forse
non è il sogno che provoca la sensazione di terrore, ma è il
terrore che uno si porta dentro che fa fare certi sogni. Uh,
come va?! Stronzo che sono, si sa che è così.
Comunque ho deciso di non bere più birra per un po': né birra
né whisky né niente: neanche vino a tavola: devo rifiorire,
come un rametto d'albicocco o un uccello del cielo, di quelli
che nessuno li nutre però campano bene.
Adesso è sera, anzi notte, sono quasi le tre . La stanza è di
nuovo un inferno: è tornato Lo Cascio e si è messo a bere
insieme a mio fratello: lattine vuote e mezze piene ovunque,
bottiglia di whisky vuota (comprata alle tre del pomeriggio, per
la miseria!). Io li ho abbandonati verso le nove che erano sul
punto di mettersi a parlare di Dio e del Comunismo, cose
profonde, insomma.
Adesso sono tornato e loro non ci sono più; Lo Cascio è
tornato senz'altro dalla moglie, mio fratello è sicuramente
disperso in casa di qualcuno. Passerà qui domattina e andremo
come bestie a farci l'aperitivo alle undici.
Intanto però io sto qui solo: sonno forse sì, voglia di andare
a letto no. La Pellerossa mi piace perché è giovane e bella;
stasera è troppo lontana, però. Chissà come sono le lenzuola
del suo letto, sicuramente più pulite delle mie; la Pellerossa,
sapete è andata a sciare, d'estate!, che Dio la benedica e la
aiuti! Se potessi, le telefonerei mentre sta sciando; lei è una
donna spiritosa, mi racconterebbe per telefono tutte le buche, e
i sassi, e i pezzetti ghiacciati, con poesia. Ah, amore, ti amo,
ovunque tu sia e con chiunque tu stia, qualsiasi cosa tu stia
facendo. Ci sono tre angeli appollaiati sulla tua spalla e
nessuno ti custodisce; ah, amore torna più presto che puoi
dentro questa nottataccia che sto vivendo. Vendimi delle rose
bianche e delle canzoni da circo con dentro delle facce
spiritose e gentili che sappiano ben suonare i loro strumentini
di legno.
Fammi essere contemporaneamente Stanlio e Ollio. Fammi vedere il
biglietto vincente della grande Lotteria Del Gelato Di Capodanno
1979 dove tu leccherai tutta la cioccolata e io tutta la panna.
Insomma, divertiti, e se ci incontreremo ancora, fammi
divertire, con le mani, con la bocca e con tutto. Buonanotte,
dì le preghiere e che Dio ti benedica. (Francesco De Gregori).
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Un altro nome importante nel lavoro
di Francesco De Gregori: Lilli Greco che arrangia il brano che chiude
l'album, Due zingari:
Greco era un produttore della Rca con
cui avevo lavorato già in studio varie volte fra alti e bassi, quà e là
con qualche problema, una persona comunque che mi piaceva, un musicista
vero. Lui non produceva il disco in quel momento, ma per dirti qual'era
il clima alla Rca, era normale che io gli dicessi 'senti questa cosa,
perché non mi dai una mano a farla suonare un po' meglio?'. Così lui mi
diede una mano con questa canzone, anche se a dirti la verità non me lo
ricordo benissimo. Mi ricordo invece che ne aveva fatta un'altra
versione con una ritmica un po' alla Stevie Wonder. Era molto carina ma
alla fine la scartai .
da "Contemporanea" di Paolo
Vites - Corriere della Sera (2009)
Al centro di Due Zingari
(cfr. l'album De Gregori, 1978) vi è un dialogo fra due
giovani emarginati che appartengono a una minoranza etnica. Parlano
della loro vita libera e semplice e dei loro sogni modesti,
celebrando l'innocenza, legata al loro retaggio culturale, innocenza
che sopravvive solo in chi riesce a non farsi contaminare dalla
civiltà. Di fronte a una società che omologa le persone, i due
scelgono di tollerare l'emarginazione per conservare i loro valori,
augurando anche ai figli la stessa vita di vagabondaggio.
Dormono in un campo, <<forse mano
nella mano>>, in segno di ribelle solidarietà.
sull'autostrada
accanto al campo
le macchine
passano velocemente
e gli autotreni
mangiano chilometri
sicuramente
vanno molto lontano
gli autisti si
fermano e poi ripartono
dicono c'è
nebbia, bisogna andare piano.
Queste ultime immagini, che
richiamano un forte senso di solitudine e accennano anche
l'indifferenza del mondo verso questi giovani, ricordano il monologo
interiore di Mena, il personaggio verghiano, presente alla fine del
secondo capitolo dei Malavoglia. Nel monologo, che secondo
Spitzer <<rappresenta forse una delle più alte vette della
narrazione in prosa italiana>> (cfr. Di Salvo 1989: 47), sono
presenti gli stessi elementi - il carro che va lontano, la gente che
ignora le difficoltà degli altri - che compaiono nel testo di De
Gregori, che evocano la solitudine opprimente di Mena:
"E a lunghi intervalli si udiva
il rumore di qualche carro che passava nel buio, sobbalzando sui
sassi, e andava pel mondo in quale è tanto grande che se uno potesse
camminare e camminare sempre, giorno e notte, non arriverebbe mai, e
c'era pure della gente che andava pel mondo a quell'ora, e non
sapeva nulla di compare Alfio, né della Provvidenza che era in mare,
né della festa dei Morti [...] (Verga 1989)."
Tesi di laurea di Nicholas Albanese |
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Ecco
stasera mi piace così,
con queste stelle appiccicate al cielo.
La lama del coltello nascosta nello stivale,
il tuo sorriso, trentadue perle.
Cosi disse il ragazzo, nella mia vita non ho mai avuto fame
e non ricordo sete di acqua o di vino,
ho sempre corse libero, felice come un cane.
Tra la campagna e la periferia
e chissà da dove venivano i miei
dalla Sicilia o dall'Ungheria,
avevano occhi veloci come il vento.
Leggevano la musica, leggevano la musica nel firmamento.
Rispose la ragazza: ho tredici anni,
trenta due perle nella notte.
E se potessi ti sposerei
per avere dei figli con le scarpe rotte.
Girerebbero questa ed altre città questa ed altre città
a costruire giostre e a vagabondare
ma adesso è tardi, anche per chiacchierare.
E due zingari stavano appoggiati alla notte
forse mano nella mano e si tenevano negli occhi.
Aspettavano il sole del giorno dopo,
senza guardare niente.
Sull'autostrada accanto al campo,
le macchine passano velocemente.
E gli autotreni mangiano chilometri,
sicuramente vanno molto lontano.
Gli autisti si fermano e poi ripartono,
dicono: c'è nebbia, bisogna andare piano.
Si lasciano dietro,
si lasciano dietro un sogno metropolitano.
|
Una
volta entrando con la macchina in una città italiana, ho avuto modo di
vedere sotto il cartello col nome della città, un altro cartello più
piccolo, e c'era scritto: è vietato l'ingresso e lo stazionamento ai
nomadi...
Allora io posso capire vietato lo stazionamento, perchè se
uno pretende di stazionare a via Manzoni, crea dei problemi al
traffico... ma l'ingresso, come si fa a vietare l'ingresso a qualcuno
dentro a una città...
non siamo più nel Medioevo, che c'erano i
portoni che alla sera chiudevano, le città potrebbero essere più o
meno aperte al pubblico...
lì invece l'ingresso era vietato ai
nomadi... e i nomadi poi chi sarebbero... sarebbero gli zingari, o no?
Non è il complesso dei Nomadi, sarebbe un razzismo tremendo!
I nomadi
sarebbero gli zingari, perchè si sa che gli zingari non si lavano, si
dice, e allora un po' puzzano, si dice.
poi si dice anche che gli
zingari a-rubbano, come diciamo noi capitolini, e magari è anche vero,
che c'è qualche zingaro che ruba, ma magari in Italia rubassero
soltanto gli zingari!...
sarebbe un problema meno difficile, o no?
beh
la prossima canzone è una canzone su un ragazzo e una ragazza zingari,
e su un'ipotesi di loro amore e su loro due... |
Ettore
Castagna - "Occhi che hanno visto terra" (World Music, Roma,
n. 35, dicembre 1998)
Senza
dubbio gli zingari "sono" il viaggio, sembrano essere essi
stessi la personificazione del movimento, dell'impossibilità di
resistere alla sua necessità. Ma lo zingaro come figura letteraria e
simbolica
rischia sempre di scadere nella banalità risucchiato fra due poli
immaginifici ed immaginari. Da una parte lo zingaro cattivo ladro,
predone, mago, dall'altra lo zingaro buono, musicista, viaggiatore,
artista. Si finisce sempre indecisi fra gli zingari divinatori ed arcani
di Garcia Marquez, quelli rapitori di bambini di certe leggende
popolari, i santi-diavoli cinematografici de "Il tempo dei
gitani" (1). La canzone, pur non ignorando sia questi tipi che
tutti gli stereotipi probabili, li salta in blocco proponendoci un
contatto diretto con i suoi personaggi. Sono due adolescenti, ai margini
di una città (Roma?). Entrambi si autopresentano con un discorso appeso
fra (il loro) reale e (il nostro) immaginario. Quando il primo dei due
personaggi inizia a raccontarsi, la canzone sembrerebbe, seppur in un
modo molto lirico, riproporre alcune delle stereotipie positive sullo
zingaro.
Il personaggio del ragazzo si caratterizza infatti attraverso
l'autoesaltazione della libertà personale vista come vera e propria
eredità rom e composta di sentimentalismo "gitano" capace di
"cogliere l'attimo" ("Ecco stasera mi piace così"
), violenza necessaria in un mondo violento ("La lama del coltello
nascosta dentro lo stivale" ), abilità nell'arrangiare la
sopravvivenza ("Nella mia vita non ho mai avuto fame"),
erranza ( "Ho sempre corso libero..." ). Non da ultimo il
riferimento, davvero alla Garcia Marquez, a genitori altrettanto liberi,
carichi di emblematico "mistero gitano". Amplissima e,
naturalmente, immaginifica e misteriosa la loro descrizione che la
canzone ci offre, tutto sommato, in soli tre versi. Sono venuti da chissà
dove (Primo elemento di mistero), "avevano occhi veloci (simbolo di
inafferrabilità e destrezza) come il vento" (Secondo elemento di
mistero), capaci di leggere la musica "nel firmamento" (Terzo
ulteriore elemento di mistero). La sequenza simbolica che emerge dai tre
versi in sequenza risulta così movimento-vento-musica. Tre elementi
senza dubbio non "catturabili", mai descrivibili in pieno,
assolutamente ascrivibili alla tradizione gitana, fatta di inarrestabile
nomadismo e di inevitabile consapevolezza culturale dell'alterità di
questo nomadismo. Tradizionalmente per vivere lo zingaro non esercita
alcun mestiere che necessiti stanzialità ma piuttosto assoluta
destrezza: fa il fabbro, legge la mano o le carte, ruba, suona con
abilità "diabolica". Appunto non casualmente chiude la
sequenza l'elemento musica. La musica è una classica e storica
prerogativa degli zingari ed in genere viene eseguita da loro sempre con
uno stupefacente carattere virtuosistico. Viene qui in mente l'esempio
del grande Diango Reinhardt, eccezionale chitarrista zingaro, che
seppure paralizzato nell'articolazione di due dita della mano sinistra
riusciva a suonare in modo stupefacente. Questo anche senza aver mai
studiato musica, senza saperla leggere e scrivere (Per Reinhardt bisogna
aggiungere che il suo rapporto con la cultura scritta era inesistente,
sapeva a stento e con grande difficoltà fare la propria firma) ma il
mare della musica e dei musicisti zingari è veramente illimitato, ogni
esempio sarebbe poca cosa. La canzone, comunque, in un solo verso centra
straordinariamente questo taglio "leggendario". Gli zingari
"leggono" la musica nel firmamento, non soffrono i limiti ed i
vincoli della scrittura. Il loro "spartito", come il
firmamento, è sconfinato.
Già
con l'introduzione del personaggio della ragazza fa irruzione un aspetto
più realistico.
Viene
riproposto dai primi versi solamente il riferimento estremamente
"orientale" alla bellezza di un sorriso perfetto, fatto di
trentadue denti-perle scintillanti nella notte. L'immagine dei denti
come perle incastonate in bocca parrebbe quasi una citazione
"illustre" dalla letteratura indiana. Il Kamasutra al cap. V,
5 recita: "Le labbra
sono il corallo ed i denti il gioiello". Anche il
riferimento
proprio
alla cultura indiana potrebbe non essere casuale date le ancestrali
origini indiane degli zingari.
Per
il resto in un modo molto concreto, la ragazza propone un'immagine meno
mitico-eroica di sè e del futuro possibile. Un futuro comune di
"giostre" e di vagabondaggio sarà forse possibile un giorno
nella piena consapevolezza che anche i figli saranno destinati alle
"scarpe rotte". Repentinamente e seccamente la ragazza
conclude "ma ora è tardi anche per chiacchierare".
Potrebbe
sembrare un passaggio un po' ruvido ma in realtà il risultato è
efficace. I due si svegliano di colpo dai sogni più o meno possibili
sulla loro identità reale o supposta, sul loro futuro
immaginario
e/o probabile. Si abbatte sul quadretto romatico dei due giovani zingari
che vagheggiano la loro libertà un vincolo concreto: "è
tardi". Anche gli zingari hanno un limite per i sogni.
Quell'
"è tardi" in realtà potrebbe essere interpretato alla
rovescia: "è presto". E' presto per immaginare, per
illudersi.
Vediamo
i due giovani protagonisti, in una inquadratura che si allarga sempre di
più, tenersi per mano, "senza guardare niente", ai margini di
un'autostrada, forse al confine del campo. Emerge qui con tutto il suo
peso il contrasto fra il "sogno zigano" e lo squallore
probabile del paesaggio periferico ed autostradale. Il contrasto aumenta
quando al silenzio dei sogni ad occhi aperti dei due zingari si
contrappongono i rumori assordanti delle automobili e dei camion che
fanno irruzione sulla scena. Un ulteriore elemento di contrasto arriva
dall'immagine di mobilità dei mezzi che scorrono sull'autostrada
("Gli autotreni mangiano chilometri/sicuramente vanno molto
lontano") che sembra brutalmente contrastare, nella sua oggettività
meccanica, con l'aspetto "lirico" del nomadismo/moto perpetuo
zingaro. La non casualità della scelta di queste immagini viene
sottolineata dall'ultimo verso nel quale i camionisti, variante mobile
ma non molto "romantica" del modus vivendi occidentale,
"si lasciano dietro il sogno metropolitano". L'opposizione fra
l'immaginario gitano e quello metropolitano (sebbene il secondo sia
appena accennato) è completa. Vicine e confinanti le due parti fanno
rassicuranti sogni separati.
"Il
tempo dei gitani", di Emir Kusturica, a suo tempo ha suscitato più
di una polemica. Rimane comunque un film straordinario dove viene messa
in luce in modo unico l'identità zingara. La trama, continuamente
sospesa fra l'ironico ed il drammatico, non scade mai nel retorico e
nello stereotipo sulla condizione zingara.
|
Capace anche di guardarsi indietro,
per la prima volta. Adolescenza, fanciullezza, non sono più momenti di
inquietudine, come ad esempio venivano cantanti nel primo disco, in
quella "Il ragazzo" così autobiografica, adesso, piuttosto, c'è il
rimpianto privo di ogni amarezza per un tempo ormai trascorso e
rievocato con scanzonata nostalgia:
I miei primi ricordi sono tutti
legati alla città di Pescara, eravamo là nel 1956, quando ci fu
l'invasione dell'Ungheria da parte delle truppe del patto di Varsavia.
Poteva essere l'inizio della terza guerra mondiale, ma ricordo come se
fosse ieri di me stesso seduto sul pavimento di una piccola casa a due
passi dalla ferrovia a ritagliare da una rivista le fotografie dei carri
armati sovietici per realizzare un personalissimo esercito di
cartoncino... era l'età dell'innocenza, quella della felicità che poi
negli anni che verranno non conosceremo più.
Si dice che questo pezzo - il '56 -
risalga ad alcuni anni prima, anche se francamente ci sembra una ipotesi
alquanto azzardata vista la diversità di stile nella scrittura, sia
musicale che per quanto riguarda il testo:
Non credo proprio. Al massimo a volte
mi capita di avere una sorta di melodia appena abbozzata, archiviata là,
da qualche parte nel mio cervello. e di portarmela appresso per un po'
di tempo, a volte anche per qualche anno. Ma in questo caso non mi
sembra. E poi non mi tengo mai dei pezzi nel cassetto, non mi piace, mi
sembrerebbe di farli invecchiare prima del tempo. Se avessi avuto pronto
un brano come il '56 ad esempio quando incisi Rimmel, lo avrei
sicuramente usato allora. Non mi avanza mai nulla quando incido un
disco. Anzi, è più facile che mi succeda il contrario... ricordo che per
Rimmel, addirittura, dovetti scrivere appositamente Piano bar all'ultimo
momento perche non avevo abbastanza canzoni per chiudere il disco.
da "Contemporanea" di Paolo
Vites - Corriere della Sera (2009)
Dicevamo: niente dylan in questo
disco? ci piace invece insinuare un dubbio, che verrà parzialmente
smentito. uno dei tanti comeback, ritorni alla forma, del cantautore
americano, perseguitato da sempre da questa maledizione dei critici
musicali che vorrebbero sempre che i grandi artisti si ripetessero
all'infinito, fu l'album del 1974, 'Planet waves'. Quel disco, che
segnava effettivamente il ritorno sulle scene di Bob Dylan dopo alcuni
anni di parziale ritiro e conteneva alla fine della facciata a un
brand, 'Forever young', una ballata ricca di fascino. Lo stesso
pezzo apriva la facciata b dell' lp, questa volta in versione accelerata
e rock. Ebbene, curiosamente, il disco del comeback di De Gregori
chiudeva, nella facciata a con un pezzo, Renoir, dall'andamento veloce
(e un po' casinaro), mentre la facciata b si apriva con la stessa
canzone in versione ballata.
Ah sì? No, non è così... la versione
di Renoir, quella veloce dall'atmosfera rumorosa, con tutte quelle voci
che si sovrappongono, ha qualcosa a che fare con Dylan, ma non con il
disco 'Planet waves'. Pensavo a 'Rain day women # 1 2 & 35', il pezzo
che apre 'Blonde on blonde' (disco del 1966, nda) che ha quell'andamento
corale un po' da osteria, con le voci che si rincorrono. Scrissi e
incisi prima la versione lenta di Renoir, un brano che mi piace ancora
oggi e che ho fatto spesso dal vivo e che mi piacerebbe rifare ancora.
da "Contemporanea" di Paolo
Vites - Corriere della Sera (2009)
"Renoir", o della voglia di ripartire
Fare uscire il nuovo disco
nel mese del proprio compleanno ha un indubbio significato: una
rinascita. E lo era, quella di Francesco De Gregori, a due anni dal
precedente “Buffalo Bill” e dalle contestazioni feroci che l’avevano
toccato in due serate consecutive, prima al Palasport di Pavia, poi al
Palalido di Milano, dove i contestatori di Autonomia operaia (tra cui
Gianni Muciaccia, ragazzo di Jo Squillo e futuro membro dei punk Kaos
Rock) erano riusciti a interrompere il concerto, salire sul palco,
inseguirlo nei camerini, sottoporlo a un processo popolare perché non
abbastanza impegnato sui tre fronti dei testi (troppo intimistici!), dei
prezzi popolari (il biglietto, 1500 lire, era basso, ma lo slogan era
che la musica doveva essere gratuita) e della devoluzione degli incassi
alle organizzazioni della sinistra extraparlamentare allo scopo di
finanziare la rivoluzione. Qualcuno aveva perfino tirato fuori una
pistola e gliel’aveva puntata alla tempia: “La rivoluzione non si fa con
la musica. Prima si fa la rivoluzione, poi si potrà pensare alle arti o
alla musica. Lo diceva anche Majakovski che era un vero rivoluzionario e
si è suicidato. Suicidati anche tu!”.
Poi, grazie al cielo, com’erano venuti se n’erano andati. Ma qualcosa
nell’animo di Francesco De Gregori si era spezzato. Quella, a due giorni
dal suo compleanno, che cade appunto il 4 di aprile, era la classica
goccia che fa traboccare il vaso. A settembre 1975, contestazione al
Festival del proletariato giovanile di Licola; a ottobre, concerto per
“A – rivista anarchica” a Milano, in un clima tesissimo; a febbraio
1976, durante un tour nel centro-sud per i Circoli Ottobre, sorta di
centri sociali di Lotta Continua, contestazione a Pescara da parte delle
femministe del servizio d’ordine quando canta di “Giovanna che faceva
dei giochetti da impazzire” in “Non c’è niente da capire”; a Bari il
concerto viene interrotto e si trasforma in un’assemblea sul prezzo dei
biglietti. Poi, appunto, Pavia e Milano. È che uno si stufa. Così, la
sera stessa di quel 2 aprile, De Gregori aveva dichiarato a Mario
Luzzatto Fegiz del Corriere della sera: “Forse non canterò mai più”. A
giugno, aveva scritto una lettera a Muzak, l’agguerritissimo mensile
romano di musica alternativa vicino agli ambienti della sinistra
extraparlamentare, dove scrivevano Fernanda Pivano, Giaime Pintor,
Sergio Saviane, Lidia Ravera, Gino Castaldo, rispondendo alle accuse su
compensi (400.000 lire a sera facevano scandalo), canzoni poco
impegnate, schieramento politico.
Poi, si sa, il tempo cura le ferite. A ottobre 1976 prova ancora a fare
qualche concerto, in provincia: prima Sicilia, poi Liguria. Ma ci sono
ancora contestazioni, che si allargano anche a tanti colleghi: Venditti,
Bennato, De André… così lascia. Gli viene meno l’amore per la musica. Si
trova un lavoro in una libreria romana, a Santa Maria in Trastevere.
Poi, il 5 luglio 1977, l’intervista bomba, rilasciata a Gianni Pennacchi
de La Stampa: “Ho chiuso con la musica, direi in modo definitivo. Non ho
intenzione di incidere altri dischi, forse farò ancora qualche concerto
in autunno, ma sarà per l'ultima volta”. Sì, c’è un contratto con la RCA
che lo obbliga ad incidere altri due dischi, ma lui dice che se sarà
costretto a rispettarlo “saranno due dischi che fin da ora non mi
piaceranno”. E il motivi sono la mancanza di ispirazione, la stanchezza
nei confronti del personaggio che gli è stato disegnato addosso e per i
meccanismi dell’industria discografica: “Non riesco più a scrivere
canzoni che mi piacciono. Insomma, il mio lavoro non mi dà più gioia. Se
abbozzo una canzone che mi piace, è sufficiente il pensiero che poi
dovrà essere incisa in un disco, immessa sul mercato in un certo modo, e
me ne passa la voglia”.
Però, piano piano, l’ispirazione torna. Prima due o tre canzoni,
compresa “Generale”. Quindi tutto il resto dell’album che intitolerà, a
ribadire il senso di rinascita, semplicemente “De Gregori”. Disco
tormentato. Prima tenta di dargli una veste jazz, con il batterista
Gianni Ascolese, il chitarrista Michele Ascolese e il bassista Giuseppe
Caporello, ma non funziona. Allora chiama i vecchi amici Cyan, ex
backing band dell’amica Patty Pravo e già con lui ai tempi di “Rimmel”:
stavolta, con Franco Di Stefano a batteria e percussioni, George Sims
alle chitarre e Alberto Visentin a pianoforte e tastiere (più Mario
Scotti al basso), le cose vanno un po’ meglio, ma non tanto da
convincerlo. Allora chiama il vecchio mago con cui s’era scontrato più
volte in RCA, Lilli Greco. E con lui il miracolo si compie: le canzoni
scorrono, trovano gli arrangiamenti giusti. Un consiglio qui, un’aggiustatina
là: tanto che Greco non compare neppure nei crediti del disco.
Ripartire, già: ma da dove? Dalla vita privata, dagli affetti (il 10
marzo s’era sposato con Alessandra Gobbi, vecchia compagna dei tempi del
liceo; testimone di nozze Walter Veltroni, allora segretario della FGCI,
la Federazione Giovanile Comunista Italiana, e direttore di “La città
futura”, suo organo ufficiale), dai ricordi dell’infanzia, dalle
aspirazioni ideali a un mondo più giusto, ma senza estremismi. E dalle
grandi passioni: Fellini e Dylan. Dylan, già, di cui De Gregori ha
sempre ambito a essere l’alter ego italiano. Quel Dylan che già in due
occasioni aveva inciso una doppia versione di un proprio brano
all’interno di un proprio album: era accaduto con “Alberta #1” e
“Alberta #2”, in “Self Portrait” (1970), e con “Forever Young”, in
“Planet Waves” (1974), altro album della rinascita. Quest’ultima, poi,
aveva colpito molto De Gregori: una versione lenta alla fine del lato A
del 33 giri, una veloce all’inizio del lato B. Un augurio di buona vita
per sé e per suo figlio Jakob, di cinque anni.
De Gregori nel 1977 ha dei bimbi in arrivo e un matrimonio in progetto,
in più ha pensato di cambiare mestiere e per un po’ l’ha fatto. Non era
stato forse lui a dichiarare a La Stampa che “in fin dei conti ho solo
26 anni: forse sono troppo giovane per interrompere un mestiere, ma non
sono nemmeno troppo vecchio per iniziarne uno nuovo”? Nasce così
“Renoir”, canzone tanto enigmatica quanto bella, in due versioni, alla
Dylan: alla fine del lato A in arrangiamento brioso e circense (un po’
sullo stile di “Rainy Day Women No. 12 & 35”, da “Blonde on Blonde” del
1966, la cui intro De Gregori userà nelle versioni alternative di
“Buonanotte fiorellino” contenute in “Vivavoce” del 2014 e in “Pubs and
clubs” del 2012; ma non c’è solo Dylan, come si vedrà); all’inizio del
lato B in versione delicata e intimista.
Un tema della canzone è chiaramente quello del viaggio, comune a tante
altre canzoni dell’album, da “Generale” a “Raggio di sole”. Un viaggio
che è metaforico, anche se all’inizio viene descritto con una serie di
equazioni che si richiamano alla più lapalissiana realtà: “Gli aerei
stanno al cielo come le navi al mare / come il sole all'orizzonte la
sera”. E qui scatta il paragone che illumina la voglia di viaggiare
ancora, mettersi in discussione, andare avanti e scoprire nuove cose
nella vita: che aerei, navi e sole siano fatti per viaggiare nello
spazio e nel tempo è vero “come è vero che non voglio tornare / a una
stanza vuota e tranquilla / dove aspetto un amore lontano / e mi pettino
i pensieri / col bicchiere nella mano”. Anche se è un’immagine già usata
in “Ipercarmela” e in “Atlantide” (entrambe da “Buffalo Bill”, 1976),
pare di vederlo, De Gregori, nel suo periodo buio, chiuso in una stanza,
a meditare su cosa fare della propria vita, bevendo qualcosa per
distendere i nervi, sofferente per il disgusto succitato verso il mondo
della musica e per la mancanza di ispirazione. Anche perché questa
descrizione ricorda una scena del suo film feticcio, “Otto e mezzo” di
Federico Fellini, del 1963, il cui protagonista è un cineasta in crisi
di ispirazione: in una scena, il protagonista Marcello Mastroianni
seduto su una sedia in una stanza bianca e spoglia (forse un bagno)
riflette proprio su questo problema (“Una crisi di ispiration? E se non
fosse per niente passeggera signorino bello? Se fosse il crollo finale
di un bugiardaccio senza più estro né talento?”), versandosi del liquido
(un profumo? Un liquore?) sulla testa, prima di andare a dormire.
Qui però, nella prima strofa di “Renoir”, c’è “un amore lontano”, che il
De Gregori di un tempo aspettava. Chi sarà? Personalmente penso che si
tratti di un simbolo, che magari pigli qualche tratto da qualche persona
un tempo realmente presente nella vita di De Gregori, ma che trascenda
il dato biografico. Un simbolo di che? Un po’ del se stesso dei tempi
andati, un po’ della sua ispirazione: nella seconda strofa, De Gregori
si rivolge a “chi di voi l'ha vista partire”, invitandolo a dire “pure
che stracciona era / quanto vento aveva nei capelli / se rideva o se
piangeva”. Straccione un po’ lo era stato pure lui, con quell’aria
trasandata mezza fricchettona, mezza da studente engagé di sinistra;
stracciona era stata la sua musa, che lo aveva portato a registrare
l’album che era seguito al successo colossale di “Rimmel”, il già citato
“Buffalo Bill”, curandosi poco degli arrangiamenti, per autoboicottarsi
commercialmente (non riuscendovi, peraltro). Il vento nei capelli può
alludere ad “avere la testa tra le nuvole”, ad essere cioè in preda ad
astratti furori (per dirla con Vittorini; ma anche qui c’è forse una
ripresa di “Atlantide”, in cui diceva “lui adesso vive in California /
da sette anni sotto una veranda ad aspettare le nuvole”) che lo
portavano a ricercare un’espressione ermetica (e difatti non si capisce
“se rideva o se piangeva”), tipica del Dylan più visionario: “De
Gregori”, difatti, è l’album del passaggio dalla vecchia cripticità a
un’espressione più immediata, e le sue canzoni sono deliziosamente
sospese tra questi due mondi. Il resto della seconda strofa pare
alludere ai tour che lo avevano portato su e giù per l’Italia, “ai suoi
piedi” perché ormai, a modo suo, divo della canzone. Questa musa
stracciona, suo alter ego, però sta “giocando a carte col suo destino”:
e difatti andrà incontro alle contestazioni e alla successive
depressione e tentazione di lasciar perdere tutto.
La terza strofa, se questa interpretazione è corretta, fotografa il De
Gregori attuale, pronto a fare i conti col proprio passato, a superare
le incertezze (“Ora i tempi si sa che cambiano / passano e tornano
tristezza e amore”), ad accettarsi per quello che è e non rimpiangere le
occasioni perdute (“da qualche parte c'è una stanza più calda /
sicuramente esiste un uomo migliore”) e pronto a una nuova fase della
propria vicenda artistica (“io nel frattempo ho scritto altre canzoni /
di lei parlano raramente”), meno criptica ed ermetica, e della propria
vita, che lo vedrà affrontare gioiosamente le responsabilità che
derivano dall’essere marito e padre.
“Renoir”, alla fine, parla della trasformazione che sta vivendo De
Gregori: il passaggio da un’adolescenza prolungata all’età adulta, dal
rifiuto della realtà alla sua accettazione facendola propria. E in
questo la sua ispirazione si rinnova: ecco il finale in cui afferma “ma
non è vero che io l'abbia perduta / dimenticata come dice la gente”. La
sua Musa è sempre lì: solo mutata. In questo viene ribaltata la
conclusione di “Atlantide”: “ditele che l'ho perduta quando l'ho capita
/ ditele che la perdono per averla tradita". C’è sicuramente un forte
ricordo della dylaniana "Girl from the North Country", anch’essa incisa
in due versioni: una, fortemente folk, in “The Freewheelin’ Bob Dylan”
(1963); l’altra, nello stile country più mainstream, in “Nashville
Skyline”, in coppia con Johnny Cash (1969).
È infatti evidente che i momenti di passaggio possono essere visti
duplicemente: come perdita di parte di sé e come felice aspettativa di
tempi futuri. Ecco perché anche “Renoir” è incisa, come le tre canzoni
di Dylan ricordate, in due versioni: quella circense, nel cui
arrangiamento è forse presente anche un ricordo del Nino Rota di “Otto e
mezzo” (ad esempio la presenza di una scala cromatica nella melodia,
inusuale nel De Gregori precedente e che invece comparirà anche in “La
donna cannone” del 1981, che De Gregori stesso ha dichiarato ispirata
all’opera di Rota) esprime la stessa spensieratezza di “Rainy Day Women
No. 12 & 35” e del finale del film di Fellini, in cui il protagonista
dice addio ai fantasmi del passato e ritrova la creatività; quella
malinconica e pigra del lato B, invece, esprime il rimpianto del
passato, ma non a caso viene cantata con voce pacata, sì, ma ferma, come
a dire che non si tratta di una grande perdita.
Rimane il titolo: “Renoir”, perché? Ipotesi: la scena citata di “Otto e
mezzo” in cui il protagonista va a dormire ricorda quella di “La regola
del gioco”, film di Jean Renoir del 1939, considerato uno dei capolavori
più grandi del cinema di sempre. Si tratta di un’intricata vicenda di
amori incrociati (il che rimanda al dato biografico alla base della
metafora della canzone di De Gregori e già svolto in “Atlantide”), in
cui lo stesso regista interpreta la parte di Octave, un musicista
fallito (non era forse il protagonista di “Atlantide”, cioè lo stesso De
Gregori, “diventato un grosso suonatore di chitarre”?) che a un certo
punto dichiara: “Ho voglia di sparire in un buco. (...) Non vedere più
niente, non dover scegliere ciò che è bene, ciò che è male. Il tragico
della vita è che tutti hanno le loro ragioni”.
Più o meno quello che deve aver pensato De Gregori dopo le contestazioni
di quel maledetto 1976.
Renzo Stefanel
https://www.rockit.it/articolo/francesco-de-gregori-renoir
Raramente tanta poesia si agita in una sola canzone, ma è poesia in
musica, distinta, indipendente , universale, di tutti e per sempre.
Tutt’altro tema quello di “Renoir”: tutt’altro tema e tutt’altro treno.
Lei parte, lui se ne va, è un addio, forse lo stesso di Rimmel ma
rivisto con altri occhi. Detto così sembrano banali sia l’argomento sia
l’ambientazione, e invece in questa sintesi fotografica piena di
considerazioni a tempo scaduto, ogni cosa è nel posto dove non te
l’aspetti, ma dove deve essere, secondo le regole della bisociazione.
Si parte con una rapida successione di cose e oggetti paragonati
(“come”) tra loro, nelle loro funzioni. Solo che le prime due volte i
paragoni sono ovvi anche se originali, ma nella terza appare come 2°
termine non più un oggetto, ma tutta una considerazione.
Vediamo questa costruzione sintattica particolarissima perché
“sghimbescia”,
“isoscele”: una classica “changing creativity”:
GLI
AEREI STANNO AL CIELO COME LE NAVI AL MARE
(gli aerei stanno al cielo) COME IL SOLE ALL’ORIZZONTE LA SERA
(gli aerei stanno al cielo) COME È VERO CHE NON VOGLIO TORNARE
L’autore prepara un terreno di concetti che esprimono un ordine naturale
delle cose e ci fa rientrare (quasi un sillogismo) un suo pensiero
personale (“se gli aerei volano, è vero che io non voglio tornare da
te”).
Tornare dove? In quella stanza di ragazzo, di primo folle amore e
angosciate attese (“mi pettino i pensieri col bicchiere nella mano”)
stile Atlantide.
Lei vista dagli altri non era poi ‘sto gran che (“che straccione era”)
ma chi se ne frega.
L’importante è che gli amici le dicano se era triste o allegra, se i
capelli si muovevano al vento.
Questo successe tanto tempo fa, roba appunto da Atlantide, da ricordo
sommerso: prese il treno per andare più lontano possibile (“vide
l’Italia passare ai suoi piedi”), prese il treno giocando un azzardo
particolare ma forse necessario.
Non una connotazione fisica, non una parola, non una risposta, solo i
“suoi” pensieri (quali poi?) per chilometri solo immaginabili.
Gran gesto nel finale: vabbè è andata così, “da qualche parte c’è un
uomo migliore” e un lapidario, epigrammatico, succinto finale: non parlo
più di lei ma non l’ho dimenticata.
Anche in “Rimmel” De Gregori fa poco per scoprirsi, getta il sasso e
tira via la mano; ma è il suo modo di non lasciarsi invischiare, di non
dar da vedere tutto. Sta di fatto che per “divertissement” sull’album ci
sono due versioni di “Renoir” una triste, lenta; l’altra scatenata da
festa del paese, quasi liberatoria. Altra magia: positivo e negativo
fotografico che si ribaltano a seconda di come li si guarda. È così,
l’amore, dopo anni che se n’è andato?
_________________
tratto da "Il linguaggio in
canzone in rivoluzione lessicale, formale e tematica di Francesco De
Gregori"
Prof. Roberto Vecchioni - Università di Torino
|
Benvenuto,
raggio di sole, a
questa terra di terra e sassi
a questi laghi bianchi come la neve sotto i tuoi passi
A questo amore, a questa distrazione, a questo Carnevale,
dove nessuno ti vuole bene, dove
nessuno ti vuole male.
A questa musica che non ha orecchi,
a questi libri senza parole.
Benvenuto raggio di sole, avrai
matite per giocare,
e un bicchiere per bere forte
e un bicchiere per bere piano,
un sorriso per difenderti
e un passaporto per andare via lontano.
Benvenuto a questa finestra, a
questo cielo sereno,
a tutti i clacson della mattina
a questo mondo già troppo pieno.
A questa strana ferrovia unica
al mondo per dove può andare,
ti porta dove tira il vento,
ti porta dove scegli di tornare.
A questa luna tranquilla, che
si siede dolcemente,
in mezzo al mare che qualche nuvola ma non fa niente.
Perché lontano passa una nave, tutte le luci accese,
benvenuto figlio di nessuno in questo paese.
|
|
RIVALITÀ
PASSATE
È il 1978: sei anni sono passati dal Folkstudio e "Theorius
Campus", signore aquilone e signore che bruciano, sore Rosa e Roma
capoccia, e le strade di Antonello Venditti e Francesco De Gregori si
sono divise, a posteriori possiamo dire per sempre, se si esclude
qualche cortesia per gli ospiti. Entrambi reduci dalle loro brave
contestazioni (prima del '78, come sanno anche i bambini, c'è stato il
'77), Anto è un cantautore di successo nazional-popolare che deve
ritrovarsi, Fra un cantautore meno popolare dal crescente successo.
Le strade si sono divise, dicevamo, ma non solo: come succede nelle
migliori famiglie, Anto e Fra sono andati oltre, coinvolgendo il
pubblico nelle loro - si può dire? - piccole miserie. Così, un po'
come John Lennon con Paul McCartney ("How do you sleep?",
ricordate?, con Lennon che dà a Macca del dormiglione), in
"Rimmel" Fra aveva attaccato con parole e musica l'amico e
compagno di un tempo, accusato in "Piano bar" di essere un
"uomo di poca malinconia" che "nella punta delle
dita" ha "poco jazz" e "vende a tutti quel che
fa", insomma, "solo un pianista di piano bar" che
suonerà e canterà "fin che lo vuoi sentire"; in
"Quattro cani" è invece il bastardo "che conosce la fame
e la tranquillità".
Ebbene, Anto approfitta di "Sotto il segno dei pesci", il
primo album inciso per la nuova casa discografica (lasciata la Rca, dopo
due anni di silenzio è approdato alla Polygram), per rispondere a Fra.
E dove Fra, l'abbiamo appena visto, non aveva badato a spese, in
"Francesco" - s'intitola proprio così - Anto ricuce con
delicatezza: "scusa Francesco/proviamo ancora/e con le ali
spezziamo il filo", "suoniamo ancora l'ultima volta/senza
rimpianti, senza paura/come due amici antichi". È il Venditti
anche musicalmente intimista, meno di successo e però molto più
rispettabile. E di "Francesco", curiosamente l'unico brano
dell'album non arrangiato da Antonello, ritroveremo qualche eco ne
"La donna cannone" ("due aquiloni strappati che non
volano più", Anto; "E senza fame senza sete e senza ali senza
rete voleremo via", Fra) e qualche nota ne "La leva calcistica
della classe '68" (ma in questo caso De Gregori si sarebbe
soprattutto ispirato, o per dirla tutta avrebbe brutalmente saccheggiato
"The greatest discovery", un brano del 1969 di Elton John,
artista che peraltro lo stesso Antonello non ha mai fatto mistero di
avere preso in qualche modo a modello).
Ma non ci sono soltanto "Francesco" e Francesco in "Sotto
il segno dei pesci": ci sono canzoni meritatamente ma anche
immeritatamente famose come la title track e "Bomba non bomba"
(e chissà perché Sasso Marconi e Roncobilaccio fanno venire in mente
il "Grande raccordo anulare"?); le cugine di
"Lilly", "Sara" e "Giulia"; c'è l'ancora
attuale "Il telegiornale" ("così spettacolare" e
"così obbiettivamente imparziale", "tra una smentita e
l'altra e un sorriso ministeriale": visto che alla fine nulla è
cambiato?). Nel filone sommesso, nota di merito per la delicata "Chen
il cinese" (non sarà mica la Sars quel "muto
assassino"?), mentre in chiusura arriva la pretenziosa "L'uomo
falco".
Il tutto è ben prodotto da Michelangelo Romano, ben copertinato da
Mario Convertino, ben cantato da Antonello e ben suonato da musicisti
poco conosciuti come i chitarristi Renato Bartolini, Rodolfo Lamorgese,
Claudio Prosperini, Andrea Carpi e Pablo Romero, il bassista Marco
Vannozzi e il sassofonista Marco Valentini, guest star il violinista
Carlo Siliotto e il batterista Marcello Vento (insieme nel Canzoniere
del Lazio), ma soprattutto il tastierista dei Goblin Claudio Simonetti.
Alla fine del '78, "Sotto il segno dei pesci" risulterà il
terzo album più venduto dell'anno, e "scusa Francesco/se ti ho
rubato/rubini puri dalle tue tasche".
(Ivano Rebustini) da Rockol 11 Maggio 2003
|
Ma il 1978 è un anno in cui si fanno
ancora i conti con quello che questo decennio ha portato, nel bene e nel
male. a marzo c'è la strage di via Fani e il rapimento di Aldo Moro e in
questo disco, pubblicato proprio in quel periodo, ci sono qua e là
riferimenti più o meno velati a quanto accadeva nelle strade, al clima
da incubo nel quale l'italia sembrò precipitare in quei lunghi mesi
segnati dalla violenza e dal terrorismo, quando sembrò che fossero
saltate le regole della convivenza civile e che la democrazia stessa e
le sue garanzie venissero messe in discussione. "i miei amici lo sai
sono tutti in galera, sono tutti segnati, sono tutti schedati" canta De
Gregori ne La campana rievocando quei momenti.
In quel periodo mi piaceva
camminare da solo per le strade del mio quartiere di mattina, comprare i
giornali e starmene seduto al tavolini di un bar senza fare nient'altro
che aspettare e guardare intorno. Roma, Trastevere... c'è una luce
incredibile in certe mattine di fine inverno, che già non fa più tanto
freddo, puoi startene fuori al sole, leggere le notizie. Certe volte mi
sembrava di guardare dentro un acquario... le cose che leggevo, alcune
drammatiche, e poi le persone che passavano, mamme coi bambini,
poliziotti... io mi sentivo un po' in disparte, estraneo a tutto. Come
se tutto quello che mi succedeva intorno e che pure mi faceva soffrire
non potesse in realtà più toccarmi, come se tante cose con cui avevo
dovuto confrontarmi fino a poco prima avessero perso ogni valore, le
discussioni politiche, quelle private, le incomprensioni, gli addii.. è
vero, si parla di galera in questa canzone, ma la galera non è solo muri
e sbarre... c'è anche una galera mentale fatta di luoghi comuni, di
errori, di gioventù buttata via, di fallimenti esistenziali. Era quella,
la più pericolosa, la galera dalla quale si rischiava di non uscire.
da "Contemporanea" di Paolo
Vites - Corriere della Sera (2009)
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Uno
l'hanno preso ieri sera, giovane giovane,
è figlio di buona donna.
Figlio di buona donna, pure ladro,
con un sorriso tutto denti di cane,
si nascondeva dietro uan serie di "Che ne so?".
Poi ne hanno preso un altro padre di famiglia,
faccia scura scura, vestito grigio,
camicia e cravatta,
sguardo perduto all'arrivo in questura.
Il terzo, accusato d'oltraggio,
non fece in tempo a aprire la bocca
che un pugno lo mise a sedere.
Allora chiese una sigaretta e confessò in fretta
tutto quello che il commissario voleva sapere.
Il quarto si chiamava Tommaso
e pregava e piangeva,
chiese di telefonare all'avvocato,
ma l'avvocato non rispondeva.
Il quinto venne assunto in galera
per un indizio da niente, venne assunto in galera.
Il quinto venne asssunto in galera per un indizio da poco
e fu crocefisso col ferro e col fuoco.
Forse per un errore o forse perchè era stato scoperto,
forse per un'implicita confessione
oppure soltanto lo sconforto
e tutti si domandarono di che segno era il morto.
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Anche l'impiccato è una canzone
fortemente radicata nel clima di quel periodo, un elenco di poveracci
trascinati in questura, una musica martellante, un finale non si sa se
beffardo o drammatico. Come riuscivi a far convivere una canzone cosi
con le legittime necessità commerciali della Rca? Non subivi nessun tipo
di censura o - diciamo così - qualche consiglio interessato?
Guarda che L'impiccato era la canzone
del disco preferita da Ennio Melis, il capo della Rca. Melis era un uomo
di poderose letture e di grande coraggio imprenditoriale. Fu lui a
imporre sul mercato discografico i dischi dei cantautori, a sfidare le
politiche stagnanti che imperavano allora nella musica leggera. Per
dirti che tipo era, era capace di lasciare fuori dalla sua stanza per
due ore il direttore delle vendite mentre lui chiacchierava e beveva
grappa con Piero Ciampi. Lui censurava solo quello che gli sembrava
brutto, ma lasciava lavorare gli artisti e se era il caso li difendeva.
Oltretutto era un uomo legato al valori tradizionali, politicamente un
moderato, ma fu in quegli anni un grande innovatore se non un
rivoluzionario, discograficamente parlando.
da "Contemporanea" di Paolo
Vites - Corriere della Sera (2009)
Generale e Natale vanno su 45
giri e aprono l'album, che nella prima facciata poi schiera
L'impiccato, Babbo in prigione e Renoir. E nella seconda ima diversa
versione di Renoir e II '56, La campana, Raggio di sole, Due
zingari. Va piuttosto bene
anche come vendite. Se ne starà sei mesi in classifica arrivando a
solleticare le primissime posizioni. E anche il 45 di Generale si
farà valere in mezzo a pezzi come Gianna di (finalmente) Rino
Gaetano e Pensiero stupendo di Patty Pravo. Nei 33 giri la
concorrenza arriva dalle colonne sonore di Saturday Night Fe-ver e
Grease e da UNA DONNA PER AMICO del perenne Battisti.
In luglio De Gregori ha lavorato
in CANZONE D'AUTORE, disco (RCA) di Andro Cecovini, ci suona le
percussioni e in un brano, Clementina, pure il pianoforte; fa il
controcanto in Fabbricando case di Rino Gaetano e i cori in
Lampo di Jenny Sorrenti.
"Francesco in quel periodo
stava provando con Lucio Ma come fanno i marinai - ci racconta la
Sorrenti - e nel bel mezzo di un tramezzino o di una tartina, non
ricordo bene, lo invitai nello Studio A, per fargli ascoltare Lampo
e chiedergli di far parte del coro. Francesco colse l'invito col
timore di sfigurare, non si sentiva un cantante; ma, ascoltato il
brano, capì che apparteneva a un territorio musicale familiare".
Da “Francesco De Gregori. Mi puoi leggere fino a tardi” di Enrico Deregibus -
Giunti Editore 2015
SIAMO ANCORA NEL
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IL CONCERTO AL FLAMINIO
In quei giorni, a un anno e mezzo
dagli ultimi concerti, il ritorno del Generale è anche dal vivo, con
un tour di una settimana fra Emilia e dintorni. Il 3 luglio suona al
Picchio Rosso di Formigine. Dopo il concerto vanno a prenderlo Lucio
Dalla, Cellamare e Renzo Cremonini (il produttore di Dalla) e lo
portano a mangiare nella storica trattoria Da Vito a Bologna. Hanno
da parlare. Perchè l'8 luglio a Roma, allo stadio Flaminio, c'è un
concerto a metà con Dalla, organizzato da Veltroni per la festa
della stampa comunista: "È l'esempio della casualità più assoluta.
Io e Lucio stavamo lavorando ognuno per conto proprio e,
inaspettatamente, ci proposero l'opportunità di fare uno spettacolo
insieme. L'idea ci piaceva e quindi accettammo subito, però eravamo
impreparati a una cosa del genere, non avevamo mai provato insieme
e, a un orecchio esperto, questa cosa era perfettamente percepibile.
Mi ricordo che la scaletta del programma la facemmo in treno la sera
prima del concerto". |
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C'è chi dice venticinquemila, chi quarantamila
persone, comunque decisamente oltre le aspettative. E niente
contestazioni, casini, violenza. La RCA, che la pensa come una prova
generale per un tour a due, gioisce. Quando De Gregori entra è
accolto da un boato, i ragazzi cantano le sue canzoni, anche le
ultime: è una specie di festa di bentornato per il proprio figliolo,
aggredito lassù nella capitale economica due anni prima. Il palco è
diviso in due, a destra Dalla, a sinistra De Gregori, il concerto
anche, due o tre canzoni a testa alternandosi. Qualche volta il
bolognese si sposta per suonare il sax in qualche brano del collega,
per il resto non ci sono scambi. Ma d'estate fanno un po' di vacanza
assieme, alle Tremiti da Dalla. Buon segno.
Da “Francesco De Gregori. Mi puoi leggere fino a tardi” di Enrico
Deregibus - Giunti Editore 2015
Prima scena:
siamo al Gianicolo,
sulla terrazza del Fontanone, De Gregori è con Lo Cascio e inizia a
canticchiare uno stralcio di canzone, divertente, compagnona. Parla
di marinai. Ridono, la cantano, battono i talloni.
Seconda scena:
"Quando un giorno Dalla venne a
pranzo a casa mia insieme a Ron, cosa che avveniva abbastanza di
frequente, mi feci trovare intento a scrivere la canzone "Ma come
fanno i marinai". La finiscono insieme, al pianoforte, con i figli
di De Gregori lì vicino. Forse anche per questo è così giocosa.
Dalla ci mette il clarinetto all'inizio e altro ancora, la modella
sulle loro due voci.
Terza scena:
la registrano allo Stone Castle di Carimate, dove Dalla lavora al suo
nuovo album, insieme a un'altra, Cosa sarà, in questo momento c'è
persino una vaga idea di fare un disco insieme.
Da “Francesco De Gregori. Mi puoi leggere fino a tardi” di Enrico
Deregibus - Giunti Editore 2015
"Eravamo in un periodo di
scadenza di contratto con la RCA, io, Francesco, Dalla, Baglioni,
Ron, Bardotti, tutti quanti.
Io, che sono nato sindacalista, capii
l'enorme importanza dell'avvenimento e tentai di mettere insieme
tutti noi, in modo che si accelerasse quel processo che poi è
avvenuto, e cioè quello di fare etichette indipendenti. Quando la
RCA si accorse di questo prese uno per uno gli artisti, e loro uno
per uno firmarono.
Io invece non mi piegai e me ne andai via. E
andando via sapevo che non avrei più potuto cantare né con
Francesco, né con Dalla, né con gli altri che erano i miei amici,
erano tutti lì.
Francesco è una canzone d'addio, tant'è che alla fine c'è la
citazione di Alice. Sperando che un giorno quando i contratti
sarebbero finiti... Ma poi non è neanche detto che ci sia bisogno di
un palco per suonare insieme".
(Antonello Venditti)
Non lo ascolto mai, credo mi sembrerebbe
datato. Ma questo mi succede anche con l'ultimo disco che ho appena fatto...
credo dipenda dal fatto che per me la canzone che ho scritto è materiale in
continua trasformazione, la versione discografica è solo una delle tante
possibili , non è come per la gente che invece è legata a quell'esecuzione una
volta per tutte, ed è normale che sia così.
(Francesco De Gregori)
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