De Gregori ‎(LP, Album)  RCA Italiana  PL 31366  Italy 1978

De Gregori ‎(Cass, Album) RCA Italiana PK 31366 Italy 1978

De Gregori ‎(LP, Album, Promo) RCA Victor PL-31366 Spain 1978

De Gregori ‎(CD, Album, RE, RM, Cas) Corriere Della Sera, Sorrisi E Canzoni TV 

 9 771825 788145 90004, 9 771825 788145 90004  Italy 2009

De Gregori ‎(CD, Album, RE, Dig)  Sony Music, RCA 88843067562 Italy 2014

 

 

 

Dall'esterno dell'edificio che ospitava gli studi di registrazione e il bar c'erano un parcheggio con delle aiuole molto curate e un campetto di pallone dove Luciano Costarelli, uno dei fotografi che lavoravano abitualmente per la RCA, scatta la foto di Francesco che compare sulla copertina dell'album.

"Fu un'idea che ci venne lì per lì, trovammo da una parte questo vecchio pallone un po' sgonfio, io mi misi a prenderlo a calci mentre il fotografo scattava e alla fine mi piacque questa foto così curiosa, così poco 'cantautorale'... quando la vidi mi venne in mente che avrei potuto intitolare il disco 'De Gregori libero', avrebbe sintetizzato bene tante cose che erano  successe e anche il mio stato d'animo del momento, ma poi pensai che poteva sembrare una provocazione e non ne feci nulla. Così rimase solo De Gregori. per quanto mi sforzassi non riuscii a trovare niente di meglio".

 

Nei due anni che passano fra Bufalo Bill e questo disco c’è il Palalido. Ma è una vicenda così squallida che non merita nemmeno due righe, anche se quel movimento era una moda del tempo e quindi fa parte della storia italiana.

Nonostante quel processo-farsa Francesco continua a cantare ancora un po’ in tour e poi si ferma, per quasi due anni. “Non feci niente di speciale o, a seconda dei punti di vista, feci un sacco di cose; per un certo periodo mi misi anche a lavorare nella libreria di una mia amica a S. Maria in Trastevere, ma dopo un po’ mi stufai. Mentre la gente seduta al tavolino conta il tempo con gli aperitivi, lui, con un fascio di giornali in mano si pettina i pensieri con la mano e pensa …..che tutto questo doveva pur finire, o ricominciare. Daccapo.

Quando scrissi “Generale”, pensai che era il momento di fare un altro disco: volevo chiamarlo “De Gregori libero”, che sarebbe andato bene anche scritto su un muro, poi lasciai perdere. Tutto qui.” Tutto qui? Ritorna alla grande con un lavoro che è, come tutti i suoi lavori, felliniano. Una volta ha detto che Fellini, in fondo, ha fatto sempre lo stesso film e che lui ha sempre fatto la stessa canzone. Come il grande Federico, prende i protagonisti delle sue storie e li trasforma da personaggi reali a personaggi irreali (perché non possono esistere storie del genere), ma al contempo riesce a far credere che sia tutto vero. E’ questo il segreto di De Gregori: trascinare nel suo mondo la realtà, risputandola fuori sotto forma di fiaba contemporanea.

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L’anno inizia con una scia di sangue causata da attentati: il magistrato Palma, il maresciallo Berardi e l’agente di custodia Antonio Santoro; Giovanni Leone si  dimette a seguito di scandali e l’8 luglio Sandro Pertini viene eletto Presidente della Republica; ci governa Andreotti con una coalizione politica DC, PRI, PSDI; viene eletto papa il cardinale Albino Luciani, morirà 33 giorni; il 16 ottobre fumata bianca per Papa Wojtyla; Paul Berg realizza il primo trapianto di geni tra mammiferi; la legge Basaglia fa chiudere i manicomi; è l'anno dei grandi stilisti, del pret a porter e delle sfilate uomo donna; in via Fani alle 9 del mattino un commando delle Br rapisce il presidente della Dc Aldo Moro e massacra gli agenti della scorta Oreste Leonardi, Raffaele Jozzino, Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Domenico Ricci. Le Br rivendicano il rapimento Moro e l’uccisione della scorta. Viene annunciato l'inizio del "processo" al presidente della Dc. Al contrario del Psi, Pci e Dc si dichiarano contrari a trattare con le BR che chiedono la scarcerazione di prigionieri politici. Andreotti ribadisce che "non si tratta con chi ha le mani sporche di sangue"; 9 maggio: Moro viene ucciso, il corpo dello statista si trova in via Caetani, tra Piazza del Gesù (sede della DC) e via delle Botteghe Oscure (sede del PCI); Reinhold Messner e Peter Habeler sono i primi uomini a giungere sulla cima del monte Everest senza l’ausilio delle bombole d’ossigeno; nasce la prima bambina concepita in provetta: Luise; viene ucciso il giovane Peppino Impastato, creatore della libera radio siciliana "radio Aut", dalla quale denuncia con feroce satira le attività di Tano Badalamenti, che abita a "cento passi" dalla sua casa; il Parlamento approva l'adesione della lira allo SME; a Roma Renato Zero inaugura il teatro tenda "Zerolandia" e Mina si esibisce nel suo ultimo concerto alla Bussola; Muore Giorgio de Chirico.

Agli Europei Sara Simeoni diventa primatista mondiale di salto in alto e Pietro Mennea vince i 100 e i 200 metri; Kevin Keegan vince il Pallone d’Oro e la domenica sera Adriano De Zan ci racconta che la Juve vince lo scudetto con Zoff, Tardelli, Cabrini, Furino, Gentile, Scirea, Fanna, Causio, Virdis, Cuccureddu, Bettega. (All.Trapattoni). Ai Mondiali di calcio in Argentina l’Italia di Pablito Rossi è quarta con Zoff, Gentile, Cabrini, Benetti, Bellugi, Scirea, Causio, Tardelli, Rossi, Antognoni, Bettega. (All. Bearzot). Vinceranno il titolo i padroni di casa.

Al cinema vediamo La febbre del sabato sera, Grease, New York New York, Il cacciatore, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Il paradiso può attendere, Fuga di  mezzanotte, Superman, Tornando a casa, Ecce Bombo, L'albero degli zoccoli, Ciao maschio, Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto, Dove vai in vacanza, In nome del Papa re.

Il Premio Strega va a Ferdinando Camon con Un altare per la madre e il Campiello va a Gianni Granzotto con Carlo Magno.

Di moda vanno i viaggi in Grecia e la crociera sul Nilo, il camper, lo giogging, la corsa in tuta per le strade della città, le palestre affollate, la cura del corpo, il boom dei prodotti di bellezza per uomini, l’autoradio Voxon Tanga, andare a ballare in discoteca, il pechinese e il pastore tedesco (compresi tutti i cuccioli venduti quali presunti figli di campioni e poi cresciuti con le orecchie da cocker e coda sulle ventitrè, ma pur sempre bellissimi).

Indossiamo abiti un po’ alla Tony Manero, chiari con ampi colletti e camicie scure aperte davanti, gli immortali jeans. Riscopriamo le magliette LaCoste, i tacchi tornano “normali”, cioè di media altezza, la scarpetta torna leggermente triangolare a punta. I colori ritornano a morbide tonalità di marrone, dallo scuro al beige.

Ci intossichiamo con Kit Kat, Fagottino Motta, Ergo cappuccino, Nembogel, Paperon Dollars, i formaggini Grunland, Mio, Bebé, Susanna, Ramek, Milkana, Prealpi, Tigre, Cremli, Dofocrem, i wafer Maggiora, l'Hurrà Saiwa Ma anche con le sigarette Amadis, Astor, Cortina, Lido, Mercedes.

Spot da ricordare sono: "Già fatto ?"; Nino Castelnuovo che salta la staccionata per l'olio Cuore (cosa che Francesco fa tranquillamente ancora adesso); Pippo l'ippopotamo; “Fatti non parole” col braccio ustionato nell’acqua a 90 gradi; 'Chi vespa mangia le mele',

Giochiamo con Goldrake, il Pon Pon e soprattutto al flipper, uno dei principali svaghi degli anni Settanta. Viaggiamo con la Ritmo, la Lancia Beta, l’Opel Ascona.

In televisione c’è Haidi, Ufo Robot, La donna bionica, Dolce Remi, Piccolo slam con Stefania Rotolo e Sammy Barbot, Pronto dimmi da dove chiami, non ho capito la località, chi cambia canale è un furfantino, esse come Savona e ..Che tempo fa.

Leggiamo La vita interiore, La chiave a stella, L'affare Moro, Il galateo e il bosco, Il cappotto d'astrakan, Il Sabato.

A Sanremo i Matia Bazar vincono con “E dirsi ciao”, allo Zecchino d’oro vince "Cecki! Cecki!...Aih!" e al Festivalbar gli Alunni del Sole con “Liù”.

E’ l’anno di John Travolta, che con un film scatena la passione per il ballo. Migliaia di giovanissimi si ritrovano in quel nuovo luogo di aggregazione che è la discoteca, ma alla base c'è solo una grande operazione commerciale che trascina contestatori e conservatori, democristiani e comunisti, terroristi e chierichetti, tutti a ballare! Mentre la Siae registra in Italia cinquemila locali da ballo, le notti dei giovani sono dominate dai Bee Gees, un gruppo che, da ballate melodiche quali Run to me e My world, cambia registro dedicandosi alla disco music e diventando leggendario per questo genere.

Il costume musicale italiano è molto deludente. Sulla costa romagnola rispunta il liscio, mentre per chi non apprezza questo genere musicale, non rimane che la discoteca. Nonostante sfornino autentici capolavori, scompaiono i grandi autori della musica d’autore  italiana che sono contestati, fischiati, boicottati. Nella musica internazionale il singolo "The Model" dei Kraftwerk, contenuto nell'album "The Man Machine", segna l'avvento del techno-pop.

Ascoltiamo: Stayin' alive, Una Donna per amico, Sotto il segno dei pesci, Tu, Grease, Figli delle stelle, Pensiero stupendo, Triangolo, You're the one that I want, Gianna, Un'emozione da poco, Summer nights, Tarzan lo fa, Cercami, A mano a mano, Liù, Dedicato, Night fever, Love me baby, No, Rivers of Babylon, Ancora ancora ancora, Perdendo Anna, Furia soldato, I love America, Miss you, Stranamore, Domani domani, Sono un pirata sono un signore, I'm gonna dance, Sole rosso, Cantare gridare sentirsi tutti uguali.

Gli album più venduti in Italia sono Saturday night fever, Grease, Sotto il segno dei pesci, Una donna per amico, La pulce d'acqua, DE GREGORI, Zerolandia, Figli delle stelle, Boomerang, Riccardo Cocciante, Tu, Rimini, Ti avro', Calabuig Stranamore e altri incidenti, L'oro, Com'e' profondo il mare, Cosmic curves, F.lli La Bionda, Nightflight to Venus, Cerrone supernature, Rimini, Amerigo, Sotto il segno dei pesci, Agnese dolce agnese, CSN, And Then There Were Three. Tormentone dell’estate: Wuthering Heigths, di Kate Bush

Ma la puntina la poggiamo anche su dischi come Pat Metheny Group, Outlandos d'Amour, We are Devo!, Blue Valentine, Waiting for Columbus, Dire Straits, Street Legal, Some Girls, More Songs about Buildings and Food, Of Queues and Cures, This year’s model.

http://www.rimmelclub.it/storia/storia.htm

 

 

 

 

 

Primavera 1978: nei negozi di dischi di tutta italia arriva il nuovo album di  Francesco De Gregori. In mezzo, due anni quasi esatti di silenzio e amarezza per l'artista che era diventato uno dei cantautori più amati d'italia. Il nuovo disco si intitola semplicemente DE GREGORI, come di solito si fa con i lavori di un esordiente, indicando semplicemente il cognome. Dai tempi del vero disco d'esordio, Alice, torna la sua immagine in copertina, sacrificata negli ultimi tre album a favore di dipinti o illustrazioni di vario tipo. anche se lui, Francesco, lo si vede un po' a fatica, perso in un grande prato mentre tira, con un impeccabile e inaspettato gesto atletico, un calcio a un pallone.

Questo disco sembra proprio indicare un inizio, un nuovo inizio magari una seconda fase, forse un confine o uno spartiacque.

Vedo la cosa da fuori e vedo che hai ragione. può essere che questo disco segni l'inizio di una nuova fase espressiva. spesso l'itinerario di un artista è segnato da scansioni brusche, da interruzioni, da nuovi inizi. Pensa anche ai grandi, a Picasso, ai Beatles... per quanto mi riguarda sicuramente in quei due anni e passa mi era cambiata anche la voce... e del resto forse  tutto quel periodo è durato per me molto di più di quantd non dica il calendario, nel bene e nel male".

Due anni speciali, due anni che potrebbero anche non avere niente di straordinario, ma che per Francesco De Gregori significano invece moltissimo considerando quel particolare momento storico, la seconda metà degli anni "70".

avevo preso in considerazione l'idea di fare altro, di smettere con la musica. le vendite di Bufalo Bill non erano andate benissimo. Dopo Rimmel inevitabilmente fare dischi era diventato non più solo un divertimento, ma un vero e proprio impegno, diciamo pure un mestiere... in qualche modo la pressione che sentivo sul mio lavoro era cambiata. e poi c'era stata questa brutta storia del Palalido che mi aveva comprensibilmente traumatizzato.

Il 2 aprile 1976 un gruppo di appartenenti ad autonomia operaia dopo aver contestato violentemente e rumorosamente il concerto di Francesco De Gregori al Palalido di Milano e aver tentato più volte di interromperne l'esibizione senza peraltro riuscirci, irruppero a fine concerto nei camerini e obbligarono De Gregori a tornare sul palco con loro. In un Palalido semivuoto dove ormai erano rimasti soltanto un paio di centinaia di fiancheggiatori, il cantautore venne costretto a fronteggiare una serie di accuse che andavano dai contenuti delle sue canzoni al costo eccessivo dei biglietti d'ingresso e al suoi guadagni, in quello che fu poi definito dai giornali un "processo popolare". L'episodio si inseriva in tutta una serie di avvenimenti analoghi che vedevano nei concerti e nel pubblico giovanile un'occasione di  propaganda e una possibilità di una storia che, si capisce dallo sguardo di Francesco, forse non è mai stata assorbita del tutto, su cui forse  non si è mai detto tutto   quanto.   ma   che oggi, probabilmente anche per il tempo che è passato, sembra che il musicista sia capace di filtrare attraverso una certa ironia.

Oggi c'è tanta polvere su questa storia e credo che se ne sia parlato ormai abbastanza... d'altra parte allora era talmente normale che fosse accaduto un episodio del genere. se guardi i giornali di allora nessuno prese le mie parti, nessuno condannò l'accaduto. quelli erano i tempi. quello era il mondo.

Ma a parte la comprensibile amarezza provata sul piano personale quanto costò a De Gregori interrompere la tournée dal punto di vista squisitamente professionale?

Mi costò moltissimo, ma fu una decisione che presi immediatamente, la sera stessa, tornato in albergo, chiamai il mio impresario e gli dissi che era impossibile andare avanti. avevo la sensazione precisa che le violenze avrebbero accompagnato tutto il resto del tour, che la cosa non sarebbe finita li e a parte il fatto che non mi piaceva l'idea di essere messo in croce ogni sera mi rendevo conto che sarebbe stata compromessa anche l'incolumità del pubblico, ogni volta preso in ostaggio, espropriato del diritto di godersi una serata di musica. Così la mattina dopo mi feci prestare la grossa Citroen dal mio impresario, Venturi, e me ne andai in montagna da certi amici, a Courmayeur". Tutti a casa, quindi, e mi dispiacque anche perché quella sarebbe stata la mia prima tournée con una band, con basso e batteria, una novità assoluta per me che avevo fatto i miei concerti fino ad allora solo  con  la chitarra...   i   musicisti   erano gli stessi con cui avevo fatto Bufalo Bill, a parte Toto Torquati. A ripensarci non credo che suonassimo tanto bene dal vivo, ma certo avremmo potuto migliorare se ne avessimo avuto la possibilità. Insomma, per me era importante avere per la prima volta dal vivo lo stesso apparato che avevo messo nei dischi, e suonare con una band davanti alla gente voleva dire finalmente saltare a pie pari tutti quegli artifici da studio di registrazione che non avevo mai sopportato e in definitiva crescere come musicista. Comunque andò come andò, staccai la spina e per un po' smisi di pensare alla musica".

 Passano così due anni. due anni in cui Francesco giracchia per le strade intorno a casa sua, tra Trastevere e campo de' fiori, e si mette anche a lavorare in una libreria per un breve periodo, ma si stufa dopo poco. Due anni, in cui si sposa. due anni, in cui a casa sua c'è comunque un pianoforte. Dapprima cerca di ignorarlo, poi quel pianoforte, giorno dopo giorno lo attira sempre di più, fino all'inevitabile resa.

 

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DE GREGORI

Materializzatosi dal nulla, quasi con un blitz discografico appare, nel '78, questo 33 giri che pochi si aspettavano e che «il cantautore offeso» usa come proclama del ritorno. Un biglietto da visita dove (se mi si permette una immagine da critico ispirato) si leggono tra le righe: dolcezza e umiltà.

Una umiltà che fece bene a De Gregori perché smussò un poco l'immagine da bambino capriccioso e un po' nevrotico che le vicende precedenti gli avevano incollato addosso.

Non tutte le critiche furono però positive e concordi, non tutti apprezzarono questo disco del ritorno. Non tutti raccolsero questo patto di non belligeranza che il cantautore romano lanciò con le immagini naif di questo lavoro.

«A me De Gregori fa venire i vermi» sottolinea con enfasi, per esempio, Lidia Ravera (ex giornalista di «Muzak», madre di “Porci con le ali” e di altri meno gettonati successi editoriali). Ne parla sulla rivista «Linus», in una specie di tavola rotonda tra vecchi amici con Castaldo e Pintor, altri ex colleghi di «Muzak», che danno invece, chi per una ragione chi per un'altra, un giudizio più mediato sul lavoro di De Gregori. Poco importa però l'opinione che i tre hanno della faccenda. E’ più importante il fatto che per recensire questo ritorno si siano scomodati in tre; poco importa che abbiano dato giudizi buoni o cattivi, il fatto, il sintomo sta nel risultato: volenti o nolenti, anche nella versione più matura e spelacchiata, il papà di Alice mantiene un certo carisma, un prestigio che torna a creare, attorno a sé, un livello di interesse molto alto.

«Se dovessi cantare una canzone di De Gregori, canterei forse Generale», rispondono ad una mia domanda quasi in coro Paolo Pietrangeli e Giovanna Marini, interpellati, una sera, quasi per caso proprio al Folkstudio. Quando gli ho chiesto il perché sono stati invece più evasivi. Comunque anche questo è un piccolo sintomo, è la dimostrazione della effettiva «facilità» ed immediatezza di questo lavoro, che lo accomunano a generi vicini ad una tradizione più popolare della nostra canzone. Un passo indietro rispetto alle piccole sperimentazioni di «Bufalo Bill» ma un lavoro con una certa musicalità «italiana», un taglio più folk.

Anche i testi li abbiamo definiti «naif», sostanzialmente più semplici, lontani dall'intellettualità ostentata dal precedente ermetismo liceale che, un po' tutti hanno criticato nella precedente produzione.

Senza osannare né tirare in ballo genialità o grande poesia, bisogna però notare l'abilità di confezionatore, il gusto e la dimestichezza da enigmista, nello sposare le frasi fra loro, nell'esprimere concetti con buona capacità di sintesi, e ancora il pregio di saper legare la metrica con immagini e linguaggi di tutti i giorni: “E avevo nella testa una fontana una pioggia sottile di pensieri dattivi mentre la gente, seduta al tavolino contava il tempo con gli aperitivi”. Questo è un esempio rubato dalla Campana: il brano dove più di ogni altro l'autore tira in ballo chiaramente (per quanto il suo stile lo permette) i giorni della sua volontaria emarginazione.

Anche nella canzone Renoir ci sono episodi molto gradevoli, come la divertente soluzione matematica dell'inizio: “Gli aerei stanno al cielo come le navi al mare come il sole all'orizzonte, la sera come è vero che non voglio tornare ad una stanza vuota e tranquilla dove aspetto un amore lontano e mi pettino i pensieri col bicchiere nella mano”.

Questo lavoro discografico (che ha, come nelle opere prime, un titolo che corrisponde al nome dell'autore) ha complessivamente anche un altro pregio: quello di non aver subìto grossi condizionamenti di tempi e di mercato, proprio perché il suo autore ha avuto il tempo di decidere quando e come farlo.

Per questo da un certo punto di vista si può criticare, nel senso che, da un periodo di silenzio così protratto nel tempo, dalla possibilità di poter riordinare idee ed esperienze, poteva nascere qualcosa di più originale o convincente; ma De Gregori aveva, come vedremo poi, altri progetti.

 

 

 

Gliene erano venute fuori in realtà, di canzoni, durante quell'anno silenzioso e zoppo, canzoni come sempre con varie tonalità di pubblico e di privato, di astratto e di concreto, di detto e non detto. Ma non era ancora arrivata "la" canzone, quella che spazza via le nuvole. E un giorno eccola, imprevista. Una canzone che parla di ritorno: "Generale dietro la collina / ci sta la notte crucca ed assassina".

Ed è un colpo d'ala del De Gregori più ispirato, uno di quei pezzi che hanno una strada lunga davanti, nati per andare liberi in giro, e poi magari fermati nelle antologie scolastiche.

"Ci sono delle scadenze discografiche. Per un anno io non mi sono sentito di rispettarle. Avrei dovuto fare uscire un disco esattamente un anno fa, però non avevo le canzoni belle abbastanza da farlo uscire. Ne avevo due-tre, che poi sono uscite adesso. Le altre le ho scritte nell'anno che è venuto dopo. Sono stato molto a casa, a Roma. Mi sono messo a leggere libri, sono andato al cinema, ho visto degli amici, ho fatto delle cose estremamente normali. Cioè, pensavo che fra tre-quattro anni avrei fatto un altro disco, però non pensavo che ne avrei fatto uno subito. Poi ho scritto questa canzone, Generale, non so bene perché... e questa cosa m'ha dato una verifica. L'ho fatta sentire a un amico che stava per caso qui, dentro casa. Ha detto 'è bella' ma tanto io lo sapevo che era bella e che mi piaceva, e allora da quel momento mi sono detto: facciamo un disco. E ho rimesso insieme un po' tutto quello che avevo, tutto quello che non avevo scritto ma che avevo in testa, varie idee e in tre-quattro mesi ho scritto un sacco di roba, addirittura ho dovuto tagliare due-tre pezzi da questo disco, registrati e poi levati".

Insomma, "io ho sempre scritto canzoni, solo che lo facevo con grande distacco. Le scrivevo e poi dicevo: sì, ma non me ne frega niente. Sì, però va bene per farla sentire agli amici ma non mi va di farla pubblica. E poi, non so, dipende dalla canzone in generale o in particolare, oppure dipende da un mio cambiamento di mentalità nei confronti di questo pubblico fantomatico, ma alla fine ho deciso che invece no, questa è una canzone che voglio far sentire anche a quelli che non conosco di persona, e allora facciamo un disco.

La RCA era contentissima, e anche questo conta. È il mio mestiere fare un disco, in definitiva". Generale parla del ritorno da una guerra, sì, ma che può anche essere un ritorno umano, quotidiano, artistico, sociale. Discografico?

La lavorazione, anche stavolta alla RCA, comincia macinando provini dei nuovi pezzi con un'impostazione piuttosto jazz e una formazione che allinea alla chitarra e alla batteria i fratelli Ascolese e al basso (il suo vero strumento) Caporello. Ma non viene fuori granché di buono. Si torna con i Cyan, cioè Alberto Visentin, Franco Di Stefano, George Sims e Mario Scotti.

Però anche con loro all'inizio il Generale è perplesso: "Ebbi dei momenti difficili, dei dubbi, dei problemi con le basi che non venivano come avrei voluto. Allora chiamai Lilli Greco in maniera informale e lui venne in studio a darmi una mano". Ma così, ufficiosamente, senza potere di vita e di morte, "senza pretendere di impostare più la rotta ma limitandosi a correggerla quando serve", come diceva Greco. Gli screzi passati son durati poco: "In realtà - spiega il cantautore - sono stati antagonismi quasi fisiologici fra uno come lui e uno come me: un adolescente, una persona piena di spine e a volte di atteggiamenti del cazzo. Non credo di essere stato molto simpatico neanch'io, in quel periodo". E con Greco, che Dio lo benedica, le canzoni vengono. Se ne scarta qualcuna (come Eugenio, che andrà sull'album successivo) e si procede spediti. E poi c'è il fondamentale Ubaldo Consoli, che stavolta sul disco è ufficialmente accreditato, oltre che come fonico, anche come produttore insieme a De Gregori. E come sempre ci mettono del loro i musicisti, da cui passano gli arrangiamenti pensati dal Nostro. Anzi, "Francesco ha fatto una cosa - ci dice George Sims - che all'epoca aveva fatto incazzare la RCA: per quel disco ha dato a noi musicisti delle royalties come arrangiatori. Nessuno lo fa! Ancora adesso mi arrivano i rendiconti: sono cifre piccole ma è il pensiero che conta".

Poco prima che esca l'album, il 10 marzo, De Gregori si sposa con Alessandra Gobbi (la Chicca del liceo). E il 4 settembre nascono due gemelli, Federico e Marco. Dentro al disco nuovo c'è un autore rasserenato, dal matrimonio, dai figli in arrivo e chissà da che altro ancora. Forse solo e genericamente da quella che chiaman la maturità.

DE GREGORI è il disco di un uomo, non più di un ragazzo, anche se è pieno di bambini, di infanzia, come a voler ripartire da lì. È un disco di convalescenza che non sa, o sa poco, di convalescenza. Rispetto a BUFALO BILL ha meno idee ma più chiare, le canzoni hanno tendenzialmente una cifra stilistica unitaria, che da qui saranno un ulteriore segno distintivo della scrittura degregoriana. Sono canzoni piuttosto cristalline, però questa pare essere una conseguenza indiretta, non diretta, delle critiche ricevute per abuso d'ermetismo. Ma, niente paura, arrivano invece le accuse d'intimismo: "Allora è la solita pappa: per la stampa ho sempre fatto dei testi intimisti. Che vuol dire intimisti? Tutto è intimista. Otto e mezzo di Fellini, Joyce, Dante. Giusto la cronaca sportiva di Italia-Olanda non è intimista. Forse le mie ultime canzoni rispecchiano in modo meno immediato la realtà. Devi sempre leggere fra le righe, la canzone è una operazione di sintesi, richiede delle parabole".

"Se rivedo com'ero, mi rivedo più agitato, più insicuro, più ansioso; adesso ho rinunciato a molte cose e ne ho acquisite altre, soprattutto ho acquisito una serenità mia, mi sento abbastanza autosufficiente e questo è bello. Autosufficienza in senso emotivo. Sto bene da solo e sto bene con gli altri e vedo molta più gente che non due anni fa. Due anni fa vedevo solo gente per lavoro, tutta gente che mi ricordava quello che io cantavo, quello che io scrivevo; adesso, ad esempio, è un'eccezione passare una sera a parlare del mio lavoro. Adesso io sono uno che fa questo strano lavoro di scrivere le canzoni e che poi, a parte questo, so qual è il mio lavoro e qual è la mia vita normale; due anni fa forse non lo sapevo, pensavo che il lavoro fosse divertente e che la mia vita fosse un lavoro. Sbagliavo completamente. Diciamo che questa è una dimensione molto comoda, per cui un po' è già mia, un po' cercherò di farla sempre più mia. Mi ci trovo bene, perché quando cominci a capire che scrivere una canzone non è solamente vomitarla fuori ma fa anche parte del tuo lavoro, tutto sommato non è che ami di meno la canzone ma ami senz'altro di più il tuo lavoro, perché lo identifichi come lavoro". Cioè è qui che capisce che il suo mestiere nella vita sarà proprio quello (il sostantivo "mestiere" lo sottolineerà più volte negli anni a venire). E che la vita privata sta da tutt'altra parte. E là la terrà sempre.

                                                                                                                                                          

Da “Francesco De Gregori. Mi puoi leggere fino a tardi” di Enrico Deregibus - Giunti Editore 2015

 

 

 

Dopo i primi, grandi successi e dopo il dramma sfiorato al Palalido, nel 1976, De Gregori torna, sul finire degli anni 80, con due album: “De Gregori”, del 1978, e “Viva l’Italia”, dell’anno successivo.

Soprattutto il primo è un album di grande importanza, nella produzione artistica del cantautore: si tratta di un disco che, pur rimescolando ancora una volta le carte fino a qui raccolte, continua ad attraversare i nodi chiave del modo di scrivere le canzoni che abbiamo sin qui rintracciato: “la storia”, in “Generale” ed in “Il ‘56”, “le storie” in “L’impiccato”, il mondo dell’infanzia in “Babbo in prigione”, i ritratti femminili in “Natale”, la forma racconto in “Renoir”; De Gregori inserisce nell’album del 1978 anche una canzone molto individuale e privata, “Raggio di sole”, legata all’imminente paternità (nasceranno Federico e Marco, gemelli).

Tra tutte quelle contenute nei due album di cui ci occupiamo in questo intervento, la canzone più famosa è senza dubbio “Generale”, una canzone presente, con gli arrangiamenti più diversi, in quasi tutte le raccolte degli anni successivi e nelle scalette di quasi tutti i concerti.

Nella raccolta “La valigia dell’attore”, ad esempio, la canzone è arrangiata, in maniera davvero molto originale e suggestiva, quasi fosse un bolero; in ogni caso, il ritmo della canzone, qualunque sia l’arrangiamento, è sempre molto incalzante e serrato, come quello di una marcia.

E, in fondo, di “marcia” si parla, in quanto “Generale” racconta di un soldato, un soldato che torna dalla guerra; sarebbe però sbagliato dire che “Generale” è una canzone “sulla guerra”, perché descrive piuttosto “il ritorno dalla guerra”, le piccole cose che aspettano il soldato al suo ritorno a casa:

Anche in questo caso, la canzone nasce da una suggestione letteraria definita e quanto mai precisa: “Addio alle armi” di Ernest Hemingway” (l’autore sarà nuovamente chiamato in causa, anni dopo, con una vera e propria citazione: il titolo di un’opera di Hemingway, “Morte nel pomeriggio”, diventerà il titolo dell’album di De Gregori del 2001, “Amore nel pomeriggio”).

In particolare, un verso preciso è ispirato al capolavoro dello scrittore americano composto durante la prima guerra mondiale, alla quale Hemingway ha partecipato sul fronte italiano come autista della Croce Rossa; si tratta di “e a farci fare l’amore, l’amore dalle infermiere”; è De Gregori stesso a spiegarlo, nel 1997, a NEU, una rivista infermieristica: “Quella canzone è figlia di un mondo letterario che parte soprattutto dal romanzo di Hemingway “Addio alle armi”, dove c’è la figura di un’infermiera dolcissima che comunque fa l’amore con un protagonista”.

“Generale” descrive il campo dopo la battaglia, il silenzio dopo quell’ecatombe che fu la prima guerra mondiale, dove i cinque figli della contadina, i cinque soldati del fronte, le “cinque lacrime sulla mia pelle”, sono la decorazione di quel generale, le “cinque stelle” sulla sua divisa.

Il racconto del soldato avviene sul treno del ritorno e questo non è senz’altro casuale: la metafora del viaggio conosce in questo disco, ed in questa canzone in particolare, una superba collocazione (un’operazione simile avverrà anche nell’album successivo, “Viva l’Italia”, poi, soprattutto, in “Titanic”, ma anche in molto altro ancora): la metafora del viaggio, infatti, aggiunge in questo caso qualcosa in più all’idea della transizione, del passaggio da un luogo all’altro, dove le cose si vedono in un modo diverso; il viaggio qui è anche il passaggio da un mondo all’altro, da una convinzione, da un’idea, ad un’altra:

Una caratteristica di questa canzone è la mancanza di un vero e proprio ritornello o, almeno, di un ritornello cantato: il “ritornello” può essere infatti considerato l’intermezzo di pianoforte che scandisce il racconto e separa una dall’altra le quattro strofe; ma le caratteristiche che rendono “Generale” una pietra miliare nella produzione di De Gregori e nella storia della musica italiana del dopoguerra sono la sua composta grandezza e la sua forza espressiva, riconosciutale da tutti: “Generale” riceverà l’ennesimo, ma importantissimo, tributo nel 2002, quando Vasco Rossi inserisce nel suo cd “Tracks” la versione proposta nel concerto del 7 luglio del 1995 a San Siro (in un certo senso, Vasco Rossi ha così ricambiato l’omaggio di qualche anno prima, quando De Gregori proponeva nei suoi concerti una sua versione di “Vita spericolata”, canzone inserita poi dal cantautore romano anche nel live “Il bandito e il campione”).

Roberto Fornaroli

http://scaloni.it/popinga/1978-semplicemente-de-gregori/

 

 

 

 

Mi leccai le ferite per bene, in quei due anni, poi scrissi Generale". E' la prima canzone del nuovo disco a essere completata, quella che chiude un periodo di indubbia crisi personale e forse anche creativa e che apre la finestra su una voce più matura e su un nuovo modo di fare canzoni.

Con Generale ho avuto un sacco di problemi sulla velocità da dare al pezzo, abbiamo provato e riprovato ma tornavo sempre a casa scontento, riascoltavo quello che avevo fatto e la mattina. Dopo ricominciavo da capo.  È stato un lavoro lungo e frustrante, non riuscivo a cantarla come avrei voluto, mi sembrava che il pezzo a un certo punto si piantasse e che nessuno sarebbe stato a sentirlo fino alla fine. Non so come ne venni fuori, forse mi stufai e decisi di far uscire una delle tante versioni che avevo fatto senza starmi a preoccupare più di tanto. Cercavo un suono che fosse un po' l'estenuazione di una marcia guerresca, la sua trasformazione in una melodia domestica, popolare... la guerra che finisce, il ritorno a casa dei vincitori o dei vinti.

"Generale" è la fine di una guerra. ha il ritmo lento di un fiume che sta per arrivare alla foce, di un'acqua che sta per placarsi, ho penato tanto, in studio, sulla velocità da dare al pezzo, e forse, dome mi capita spesso, non ho raggiunto del tutto quello che desideravo... cercavo qualcosa che fosse un po' l'estenuazione di una marcia guerresca, il suo dissolvimento in una melodia domestica, la canzone è la storia di un ritorno alla normalità e in quel momento il paese che mi stava intorno, l'italia, sembrava averne veramente bisogno. E anch'io, tutto sommato... poi tutte le guerre per certi aspetti sono identiche, la carne e lo spirito vengono distrutti nello stesso modo da tutte e due le parti, vincitori e vinti... ho sempre amato la scena finale del film 'Orizzonti di gloria' di Kubrick, quando la ferocia della guerra si riscatta nel pianto dei soldati di fronte al canto di una donna fatta prigioniera.. Forse c'è anche questo dietro Generale. E certamente c'è Viaggio al termine di una notte o Addio alle armi, o La grande guerra, il film con Sordi e Gassman.

Quindi ancora una volta, come già per Bufalo Bill, c'è un film dietro l'ispirazione?

Certamente, ma c'è anche 'Viaggio al termine della notte', il romanzo di Celine, dove è descritto mirabilmente lo scempio della prima guerra mondiale, o 'Addio alle armi' di Hemingway. ma non è esattamente di ispirazione che si deve parlare, piuttosto di tutto ciò che hai immagazzinato nel corso della tua vita, libri, dischi, film, racconti e cose viste e ascoltate. Tutto questo serve poi a raccontare di nuovo, a inventare, ti consente di esprimerti, diventa linguaggio, diventa materiale poetico in senso lato. Il concetto di ispirazione mi fa purtroppo venire in mente qualcosa di caricaturale, tipo uno con una penna d'oca in mano che sta aspettando che qualcosa passi sopra la sua testa e lo folgori. Per me invece la scrittura si fonda non sull'attesa, ma sulla disponibilità, la disponibilità a restituire quello che si è riusciti a catturare, a fare proprio. e anche in una certa mancanza di pudore e in una certa diciamo... disciplina, perché un artista che non sia in grado di mettersi anche parzialmente a nudo non è un artista onesto, disciplina perché comunque questo costa una certa fatica, non dico che devi legarti a una sedia, ma devi pensare a quello che fai come a qualcosa che somiglia a un lavoro.

                                                              

da "Contemporanea" di Paolo Vites - Corriere della Sera (2009)

 

 

 

 

SIAMO UOMINI O GENERALI?

John Martin (Giovanni Martini) era nato a Sala Consilina in provincia di Salerno, il 28 gennaio del 1853.
Emigrato in America non avendo trovato lavoro in Italia, si era arruolato nell'esercito americano divenendo così John Martin, soldato trombettiere dell'Esercito degli Stati Uniti. Ma il fato volle che Martin fosse destinato proprio al 7° reggimento cavalleria del Generale George Armstrong Custer. Come dire ....staccare un biglietto d'imbarco per il Titanic!
Ma lui non lo sapeva! Anzi, pensava con gioia a come erano lontani e difficili i giorni al suo paese, a quella valigia di cartone deposta in terza classe e il cuore gonfio per una terra che, nonostante fosse quella natia, non gli aveva offerto proprio nulla. Così Giovanni lasciò il suo passato alle spalle e si apprestò a combattere vicino al mitico generale George Custer. Tutto ciò lo inorgogliva, lo eccitava. Sapeva tutto del suo illustre superiore e, come tanti suoi commilitoni, subiva il fascino di un uomo che oggi avrebbe avuto certamente bisogno di cento sedute di psicanalisi.
I libri di storia ci dicono che alle tre e mezzo del pomeriggio del 25 giugno del 1876, il 7° cavalleria statunitense si portò a ridosso di un'altura in cui scorreva
il piccolo affluente del fiume Bighorn, ad est del Montana (da qui Little Big Horn). Fu proprio in quel preciso momento che John Martin si sentì gelare il sangue perchè non era necessario essere uno stratega per accorgersi dei muri di guerrieri Sioux che si erano riuniti sulle colline per presentare il conto al "figlio della stella mattutina" (il soprannome che si guadagnò Custer per la sua abitudine di attaccare gli accampamenti dei veri americani alle 6 del mattino, a tradimento, senza risparmiare donne e bambini).
Il resto di quella tragica vicenda si conosce: spinto dalla bramosia di ricevere qualche spallina in più per quella squallida "invasione" in terre altrui, invece di ritirarsi Custer decise di attaccare. Però prima di fare questo, ordinò a Martin di mettersi in sella per correre a chiedere rinforzi.
Il trombettiere Martin, perplesso, sapeva bene che non era il caso di contrariare il Capo e giunto al termine della colonna volle girarsi indietro, solo per vedere per l'ultima volta quel criminale mentre alzava il braccio nel segnale di "avanti!". Allora capì che non c'era più un istante da perdere, mentre la sua incrollabile fiducia nel suo superiore cominciava a vacillare.
Galoppava e pensava: "Cosa potrebbe sperare di fare il Capo con poco più di duecento uomini, contro migliaia di pellerossa?" Ma un soldato non si deve fare queste domande, deve solo eseguire gli ordini. Galoppava. "Che voglia di piangere e di scappare! Ma un soldato non scappa, non piange, e poi alle sue spalle c'era gente da salvare, c'erano i suoi compagni che speravano soltanto in lui, solo in lui. Galoppava. Avvertiva il ritrovato desiderio di essere a casa sua a Sala Consilina, magari a patir la fame ma vivo e senza l'odore di morte che si stava lasciando dietro. Galoppava. Fino a tramortire il suo cavallo.
Quel giorno, in quella valle trovarono la morte duecentoquarantadue uomini guidati in una carica senza senso contro cinquemila pellirossa. John Martin fu l'unico sopravvissuto di quel massacro.
Dopo la tragica esperienza di Little Big Horn avrebbe desiderato una vita nell'ombra, ma non fu possibile. Era stato l'ultimo a vedere Custer vivo e si trovò per anni ad essere interpellato dalla commissione d'inchiesta per stabilire le cause di quel disastro. Le sue versioni, col passare degli anni, si erano fatte spesso confuse, ma una cosa di sicuro non aveva mai dimenticato: la secca voce del "Generale" che lo chiamava per dargli, senza saperlo, l'ordine che gli avrebbe salvato la vita. Morì a Brooklyn il 24 dicembre 1922.
Questa è la storia di Giovanni Martini ma, vi chiederete, che c'entra questa storia con la canzone di De Gregori?

Di Martin quasi nessuno sa nulla, in pochi conoscono la sua storia. Custer, seppur deficiente e canaglia, è quasi diventato un mito, un eroe nazionale. Ma quanti ne sono esistiti di mentecatti come Custer?

Come nel film di Totò, "Siamo uomini o caporali?" è sempre il sottoposto a rimanere coi piedi per terra cercando di far rinsavire chi è accecato di gloria, presunzione e superbia. Non gli è consentito, ma vorrebbe tanto far capire ai Caporali che in fondo non ne vale la pena di continuare, che l'ascia di guerra che ogni tanto viene dissotterrata si abbatte soltanto sui poveretti, sulla carne da macello, sulla truppa insomma. Qualche volta ci riesce a rimediare, anche se nessuno saprà mai che il merito è stato suo. Il più delle volte non ci riesce perchè il soldato perde sempre, anche se è nel giusto. Il Generale invece vince, anche se sbaglia.
"Il generale Leone ordina ad un caporale a sfidare il pericolo e ad affacciarsi sulla trincea: ""Bravo!", grido' il generale."Ora puoi scendere". Dalla trincea nemica partì un colpo isolato. Il caporale si rovesciò indietro e cadde su di noi. La palla lo aveva colpito alla sommita' del petto.
Il sangue gli usciva dalla bocca. Gli occhi chiusi, il respiro affannoso, mormorava: "Non e' niente, signor tenente". Anche il generale si curvò mentre i soldati lo guardavano con odio. "E' un eroe", commento' il generale. "Un vero eroe". Quando il generale si drizzò, i suoi occhi si incontrarono con i miei. Fu un attimo. In quell'istante mi ricordai d'aver visto quegli stessi occhi, freddi e roteanti, al manicomio della mia citta', durante una visita che ci aveva fatto fare il nostro professore di medicina legale." (Emilio Lussu, "Un anno sull'altipiano")

Quanti ce ne sono stati di questi idioti nella storia dell'uomo? Non sto ad elencarli tutti, ma i disastri di questi mascalzoni saranno ricordati per sempre nelle enciclopedie sotto forma di eventi gloriosi, ma a pagare il conto della loro stupidità sono stati sempre gli uomini veri, quelli che impotenti di fronte alla follia del potere sono stati costretti a percorrere con gli stivali di cartone trincee insozzate di fango, cadaveri, bustarelle e lettere d'amore mai arrivate, a morire fra il gelo e le pallottole sparate dall'ingordigia di un solo uomo: il Generale, nel senso più cialtrone del termine e che rappresenta, in senso universale, tutte le "cupole guerrafondaie" della nostra storia.

A mio parere, la canzone che più di tutte spiega quest'antica follia è quella scritta da Francesco De Gregori.  Ha sempre detto che Generale nacque dalla lettura di Addio alle armi di Hemingway ma, senza volerlo, ha scritto qualcosa che va oltre quel romanzo, che fra l'altro è anche una storia d'amore perché il protagonista si innamora di un'infermiera che poi lo aspetta alla fine della guerra, ma poi finisce che... ecc. ....va bè...

Francesco fu affascinato dalla storia del protagonista. Frederick era uno di quelli convinti che "la guerra è bella anche se fa male", uno che credeva ciecamente in certi ideali ma che dovette ricredersi quando a Caporetto, a bordo di ambulanze ormai a secco, si rese conto che invece la guerra fa male eccome, che non era come credeva e che i soldati in caotica ritirata non erano affatto a favore di quella assurdità voluta da disonesti interessi. In quell'ammasso disordinato di divise verdi che prendevano a calci le divise blu degli ufficiali, sputò sul suo candido concetto di guerra e sui sinceri valori in cui credeva, quali il patriottismo e l'eroismo, che aveva da sempre coltivato al punto di arruolarsi volontario (lui americano) per combattere la guerra di altri.
Credo che Francesco abbia immaginato Frederick sul treno che lo portava a casa e che seduto davanti al finestrino, in rapida sequenza, vicino al confine vede tutte le immagini che si presentano davanti a un treno in ritirata dopo la sconfitta: la contadina cinquantenne curva sul tramonto che aspetta i suoi cinque figli non ancora tornati; nuove e insolite colline coperte non di sangue ma soltanto di aghi di pino e funghi buoni da mangiare a Natale e un sipario che sul vetro viene proiettato velocemente all'incontrario, finalmente chiaro, pieno di allegria e di canzoni.

Il suo sfogo lo manifesta ad un immaginario Generale, presente solo nella sua mente incollerita, che gli sta seduto davanti col bavero alzato e la barba lunga, sconfitto, stanco, sfiduciato, disilluso, arreso, fuggiasco, addirittura disertore. Ma adesso è soprattutto un semplice uomo come lui, lontano da quella figura di semidio che lui aveva sempre fantasticato e che adesso lo deludeva ferocemente. Parla all'invisibile Generale... "Caro mio, quelle cinque stelle che porti sulle spalle non hanno più senso in mezzo al rumore che c'è dentro questo treno, perché non ti strappi anche quelle oltre i tuoi capelli disperati? Ormai che senso hanno? Non lo avverti questo rumore, non li senti cantare? Non vedi che questi nuovi suoni non hanno niente a che vedere con quelli del viaggio di andata? Questi sono rumori di gente che sta tornando a casa, felice di mandare a fare in culo te e chi ti ha mandato fra noi per ridurci così, come bestie! Tanta è la fretta di tornare a casa, che questi passeggeri hanno già calcolato in due minuti il tempo del tragitto fino all'ultima stazione per non vederti più. Due minuti, troppo poco. Non bastano nemmeno per scendere a pisciare!
Io ero come te, ci credevo, ma mi hai fregato, mi avete fregato! Adesso ti odio, adesso anch'io ho voglia di ritornare dritto a casa, perché guardando fuori dal finestrino mi sono finalmente accorto che non è vero che la guerra è bella anche se fa male. Vai al diavolo, Generale!"

Ecco come io vedo questa canzone. E' un inno dedicato ai prepotenti affamati di un'altra patacca sul petto mentre brancolano nella loro strada ricca di fallimenti in cui, spesso e volentieri, vengon coinvolti anche gli innocenti, quelli sani di mente. Leggendo proprio la storia di Martin mi viene subito in mente Generale, associandola per spontanea affinità, al ritorno a casa da ogni disfatta dell'uomo, non solo bellica. E a questo punto gli aggettivi si sprecherebbero!

Collegandola alla guerra che c'era a quel tempo in Jugoslavia, Vasco Rossi la cantò in un suo tour sottolineando che la guerra è sempre là, dietro la collina, proprio alle nostre spalle, in agguato e pronta ad apparire in ogni momento. Vecchioni scrisse che è una gran bella canzone di pace. E' vero, come Blowin in the wind, Lili Marlen, C'era un ragazzo, Auschwitz ed altre, merita di far parte di quella categoria di canzoni scritte con note che fanno più male dei cannoni!
Se i potenti della Terra leggessero il testo di Generale ogni sera, come una preghiera prima di andare a letto, forse vivremmo in un mondo migliore.

 

Mimmo Rapisarda

 

Jouw Verhalen

Testo in lingua tedesca di Benny Neyman.
"Tussen Rood En Smargad". -

CRN Records B.V. 655.286-2. pubblicato nel 1989.

 

Jouw verhalen, ik wil ze niet meer horen
Die mooie praatjes die ik moest geloven
Je warme charmes was een rol die je speelde
Een groot acteur die zijn publiek wel bespeelde
En ik ging op in jouw verliefde theater
Maar toen het doek viel kwam voor mij pas de kater
En jouw komedie werd voor mij toen een drama
Maar laat maar zo

Al je verhalen, mooie verhalen
Al je verhalen, sterke verhalen
Al je verhalen, verzonnen verhalen
Al je verhalen, verdraaide verhalen

Jouw verhalen, 't waren mooie woorden
Uit een roman die in de vuilnisbak hoorde
Maar uit jouw mond klonk het als een rede van Reve
Toch heb je nooit als Gerard Reve geschreven
En ik ging op in jouw verzonnen verhalen
Ik las dat boek van jou wel tientallen malen
Het laatste hoofdstuk had, hoe kan het ook anders
Een happy end

Al je verhalen, gelogen verhalen
Al je verhalen, verliefde verhalen
Al je verhalen, vreemde verhalen
Al je verhalen, sterke verhalen

Jouw verhalen, ik wil ze niet meer horen
Die mooie praatjes die ik moest geloven
Het was een klucht in vier of vijf bedrijven
En mijn plezier was met geen pen te beschrijven
Ik huilde tranen van het vele lachen
Want bij een klucht zit iedereen te lachen
Maar dikke tranen rolde over mijn wangen van verdriet

Al je verhalen, verzonnen verhalen
Al je verhalen, verdraaide verhalen
Jouw verhalen, ik wil ze nooit meer horen
Toch kan geen proza mij zoveel bekoren
In alle boeken blijf ik middenin steken
En elke film heb ik vooraf al bekeken
Want ik ging op in jouw sublieme theater
Alsof een kind dat al die jaren
Toen ik klein was geloofde ik in Sinterklaas

Al je verhalen, mooie verhalen
Al je verhalen, vreemde verhalen...

 

 

Gjenerâl (in friulano)

 

Gjenerâl daûr di che montagne

si sint i tons dal temporâl ch'al bagne

i prins colôrs di cheste primevere

che a cuviarç di stelis ducj i cjamps di vuere

la che àn scanadis lis nestris maris,

là che àn vendudis lis nestris tiaris

là che àn tradide la int furlane par che bandiere taliane.

 

Gjenerâl la ju ta che cjasute,

al'è un fogolâr cun dentri une vecjute,

a iè che a cjale fìs tal veri de vitrine,

là ch'al è so fi te vecje cartuline,

cincuant' aigns ch'a spiete, ch'a si sint in colpe,

come une mari ch'a no vès fàt avonde

par ducj chei fruts strici#ts di corse

ch'a stavin ducj in di une borse.

 

Gjenerâl la vuere a iè finide,

un si domande "ma valevie la pene?",

"o podìn fâ fieste!" dal barcon tu âs dite"

che i ricuards a muerin cun il gambiâ de vite".

Forsit sì par te a pos sedi gambiade,

cun mil medais e la pension daurade,

par tancj furlans e je ancjemo dis di vore.

 

Gjenerâl ta cheste me cjantade

o ai voe di diti che tu âs dismenteade

la part pui vère di che tô storie

che cumô e vîf biei moments di glorie.

No tu âs mai dite che la tô braure

te â regalade cheste tiare dure

cun la sô int che a crôt, che a sude,

e la che a mangje no spude.

 

 

 

 

 

GUARDA IL VIDEO

https://www.youtube.com/watch?v=olGzi1xdPkg

 

 

Field Commander (in inglese)

 

Field commander behind the hill

the night is waiting for us to kill

a peasant woman is standing still

between the sundown and the window’s sill

she’s fifty already and she doesn’t know

exactly wherever the season’s gone

and her seven soldiers the way they left

and didn’t come back

 

Field commander behind the station

you see that old rusted red cross the wagon

there’s something laughter, you can hear the sound

of the winning victims homeward bound,

you can hear the roaring of my memories

… sweetly through this winter breeze

and all these clouds and nightgale that fell

in love with me

 

Field commander the thing is done

our enemy’s rushing, our enemy’s gone,

behind the hill there is just the moon

and needles of pine and silence and mushrooms

good even (?) mushrooms to pick and dry

for the Christmas gravy when it’s Christmas time

when children laugh and cry and don’t want to go to bed,

they want to play

 

Field commander these seven stars

these seven tears, these seven scars,

really don’t mean nothing to me, I’m alone,

on this rusty wagon running through the dome (?),

my companion’s face so skinny and cold,

reflects the colour of the sky at home (?),

it’s nearly day and nearly romance

it’s nearly home  

 

(grazie a Samuele Romano, grande ricercatore ed esperto musicale)

 

 

Quando faccio una canzone di solito le scrivo perché mi vengono in testa: Quindi è un’esigenza, non è un messaggio che voglio dare. Credo di aver cercato di scrivere una canzone su un ritorno a casa, ecco, sul ritorno a casa dopo qualsiasi tipo di guerra.

Quindi un ritorno a casa su un qualsiasi tipo di guerra o dopo una guerra tradizionale fatta con le pistole, con i cannoni o dopo una guerra quotidiana fatta di lavoro, di brutto lavoro. Ma soprattutto direi che Generale è una canzone sulla casa, sulle mogli, sui figli. Cooming Home.

Io credo che ogni giorno si combatta una guerra, chi più o chi meno, non so che la canzone sia ancora attuale. Dire che era attuale quando l'ho scritta questo sicuramente si, dire che lo sia adesso è presunzione.

 

(Francesco De Gregori, 1980)

 

 

 

Generale vista da Roberto Vecchioni

Due anni intercorrono tra “Bufalo Bill” e il successivo “De Gregori” (1978). Molti sono i motivi di questo ritardo, biografici ed esistenziali in primis, come ben riporta Pino Casamassima nel suo “la valigia del cantante”, che consiglio a tutti di andarsi a leggere, perché è si vero (e più volte l’ho ripetuto) che qui si fa analisi semantica e creativa, ma a volte non si può prescindere dal vissuto per capire trasformazioni e superamenti.

In breve De Gregori avverte come un senso di “picco”, di limite, di ascesa conclusa e un vuoto di cose e di desideri. Contribuisce a calarlo in questa situazione la grave contestazione che subisce a Milano, dove é processato da un manipolo di intransigenti, ciechi d’arte e di politica. De Gregori non si sente affatto in colpa per il suo modo di scrivere e comunicare che gli altri vorrebbero più politicizzato, più chiaro, più in linea con la prassi. Non si sente in colpa no, ci mancherebbe, ma l’assedio è traumatico, lascia il segno, come un brusco risveglio. Erano tempi (ricordo bene anch’io che ho provato un’esperienza simile a Bologna) in cui da parte di Bertoncelli e Giaime Pintor

(in modo diverso per la verità) si tuonava contro la fiacchezza borghese di certi cantautori, la loro fragilità programmatica, lo star fuori dal “reale” rifugiandosi in “ermetismi” e “favolette” senza costrutto. Un deja vù (in piccolo) se si ripensa alla “querelle” Vittorini-Togliatti sul ruolo dell’artista.

De Gregori (come me d’altronde) credeva di essere nel giusto e che non esistono canzoni facili o difficili, ma vere o false. Ma De Gregori (come me d’altronde) aveva e ha una sensibilità enorme che provoca sogni notturni, vaghi sensi di colpa e tutto il repertorio di autoindagine che può scatenare un’emotività così indifesa. Per giunta teneva tutto dentro: il suo era uno sfogo implosivo e per niente benefico. In questo periodo tutto diventa più aspro e la memoria si fa un’assassina. Da qui il ricordar d’amore e di una gioventù così a due passi e così lontana ormai, nonché la paura che qualcosa si sia spezzato nel dialogo con la libertà e che il gioco di Rimmel e Bufalo Bill fosse per il momento irripetibile.

Come lui dice grande abulia, tutto ciò si trasforma in solitudine, fascio di giornali sotto il braccio, camminate per le vie di Roma, inerzia, non voglia, entusiasmo da recuperare.

E lo recupera eccome, uscendo con un disco che già dal titolo (De Gregori) dimostra la fermezza di anteporre a tutto se stesso. “De Gregori” è un bellissimo disco, diverso formalmente dai precedenti, molto meno “oscuro” a tratti solare, persino divertito, più spesso naturalistico, descrittivo, ricco di ambienti. Ma la sua principale caratteristica è comunque un’intensità, una profondità politica esplicita, senza mezzi termini, giocata tra l’ironia drammatica e la denuncia antimilitare; maturazione che porta “ciccio” a incanalare il suo io-persona e il suo io politico in un’identica direzione e ad usare per se stesso una “prudherie” minimale, sintetica, sì, ma, come detto, convinta, netta, definita.

Ma torniamo a “De Gregori”, album dell’anno prima, che come detto segna un ritorno e una svolta. Se “W l’Italia” non lascia dubbi sul senso della misura del “nostro”, “Generale” non ne concede alcuno su da che parte stare, con chi partecipare, e di più sulle radici in fondo semplici, popolari, del pensiero di De Gregori: la contadina curva sul tramonto, i bambini di campagna che aspettano il Natale, la terra, i funghi gli aghi di pino sono la vita, la vita contro la morte.

Perché questo è “Generale”, di là del suo lampante antimilitarismo: una gran canzone di pace. E gran canzone è già nella fusione inscindibile di musica e testo, con quell’incalzare battuto che non lascia un attimo di respiro, con quell’accavallarsi d’immagini che sfumano una nell’altra, con il “rif”, il solito “rif” trascinante in cui è come se scoppiasse, parlasse, si facesse sentire tutta la gioia di chi torna a casa, alla vita vera, dopo mesi di finta guerra. In mezzo a tutto questo c’è un mare di immagini di altissimo “linguaggio poetico in canzone”, violente, esplosive, immediate, da non starci a pensare su, proprio il contrario di certa concelebrata “poesia scritta”. E allora vedi.

Vedi il treno e chi ci sta dentro, il paesaggio dal finestrino, vedi, perfino, i pensieri, i desideri, i sogni di chi sta tornando, vedi come se fossi tu stesso protagonista, immerso nel testo, nella storia, come deve essere, come dovrebbe essere sempre per un testo, per una storia messa in musica.

C’è “la notte crucca e assassina”, “la contadina CURVA SUL TRAMONTO (un quadro di Fattori), “Il treno che portava al sole e non fa fermate neanche per pisciare” (in fretta, in fretta!), le infermiere che fanno l’amore; c’è quel rotolante triplice participio passato “scappato, vinto, battuto” e poi “funghi buoni da mangiare, da seccare, da farci il sugo” triplice infinito con cambio repentino di quadro, di ambiente; ci sono “bambini che piangono e a dormire non ci vogliono andare” e “cinque stelle, cinque lacrime sulla mia pelle” che non han più senso, ora sulla via del ritorno, come non hai senso tu caro generale, come ha senso solo la vita.

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tratto da "Il linguaggio in canzone in rivoluzione lessicale, formale e tematica di Francesco De Gregori"

Prof. Roberto Vecchioni - Università di Torino

 

 

 

 

 

https://www.iltitanic.com/2022/14.jpgLa prima presenza femminile che ricordo con Francesco fu molto misteriosa.  Una sera giunsi al Folkstudio che lo spettacolo era già iniziato e vidi Francesco seduto in una delle poltroncine in fondo, con accanto una ragazza con la quale parlava a voce bassa, nella penombra. Incuriosito chiesi a qualcuno, forse al Bassignano, chi fosse. Questi mi rispose con aria complice che era Francesca, una sua ex compagna di scuola del Tasso. Come mia consuetudine presi atto della situazione e non volli indagare ulteriormente, e cosi Francesca, che non rividi più per molto tempo, rimase un'ombra indistinta dai capelli scuri.

Infatti Francesco sposò la pellerossa, e costei era quella stessa ombra che avevo intravisto al Folkstudio tanti anni prima. In realtà Francesca a mio avviso non è una pellerossa benché i suoi tratti possano indurre tale impressione: Francesca è un elfo, e nemmeno lei lo sa. Ne ho avuto la prova definitiva quando ho visto i loro due gemelli, Federico e Marco, che sono senza alcuna possibilità di dubbio due vivacissimi elfi dai capelli rossi. Mi sono sempre chiesto che effetto possa fare un'educazione di stampo rigorosamente montessoriano impartita a due piccoli elfi, ma credo che non sarà difficile dare una risposta nel prossimo futuro a questo importante quesito.

da DE GREGORI di Giorgio Lo Cascio - 1990

 

 

 

   

 

Una grande festività, a noi tutti cara: il Natale! questo grande sentimento qui, un sentimento che ci spinge dentro i negozi a comprare di tutto: finti babbi natali, veri gesù bambini, il Natale... ma il Natale è solo un pretesto per la prossima canzone, che è in realtà la storia di un individuo romantico, che aspetta il ritorno della donna amata, la quale è partita, è andata in un altro paese, e secondo me nemmeno torna più, nemmeno gli scrive... una canzone in qualche modo drammatica dal punto di vista sentimentale.

Lui però, che è un individuo sereno e ottimista, ogni sera ascolta, per le scale del suo palazzo, dei passi, che si fermano due piani più su; e spera che possano essere i passi di lei... e invece sono del postino, che abita all'appartamento di sopra e torna alla sera verso le undici-mezzanotte, anche un po' incazzato... lui però ci spera ogni volta e ogni volta è deluso... la canzone sarebbe tragica come ben vi rendete conto anche voi, se non avesse un lieto fine inaspettato: lui si innamora direttamente del postino...

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Il pianoforte, dunque, chiama. E De Gregori scrive e torna negli studi della RCA di via Tiburtina, dove mette di nuovo insieme alcuni dei musicisti che avevano lavorato con lui al tempi di Rimmel fra cui Roger Smith al basso e Alberto Visentin alle tastiere, momentaneamente  rubati  al  gruppo  dei   Cyan,  che accompagnava Riccardo Cocciante nelle serate.

Alla RCA c'era una bella atmosfera, gli studi lavoravano a pieno ritmo, ci incontravamo al bar, un enorme stanzone sempre pieno di artisti che stavano là a passare il tempo fra una registrazione e l'altra, d semplicemente ad aspettare qualcosa, chiacchierare. potevi confabulare con Renato Zero, prendere l'aperitivo con Mango. C'era Adriano Pappalardo, con un vocione enorme anche quando ordinava un caffè, amicissimo di Lucio Battisti che invece veniva raramente e aveva un suo fascino particolare... era blindatissimo nella sua riservatezza quasi patologica"

Non ci sono particolari riferimenti a Bob Dylan, in questo disco, come invece si  intravedeva qua  e là nei due precedenti lavori (o forse sì, almeno a seconda di chi scrive, ma lo vedremo più avanti), ma c'è un altro americano illustre, seppure conosciuto solo da pochi buoni intenditori. la canzone natale richiama il brano "Christmas in prison" del songwriter John Prine (che, detto per inciso, è un musicista comunque molto dylaniano sia come modo di cantare che di comporre). Quando gli faccio quel nome, Francesco sorride e si mette a cantare: "it was christmas in prison and the food was real good...". esatto.

Be' dai, la mia è un po' diversa". C'è sempre stato mio fratello a farmi conoscere questi cantautori americani e la cosa continua tutt'oggi (evidente riferimento all'incisione di l'Angelo di Lione su Per brevità chiamato artista, brano dei songwriter Tom Russell e Steve Young). Lui portava questi vinili dai suoi viaggi americani e me li faceva sentire. Niente male quel disco, eh? quello dove c'è anche Sam Stone... (Francesco si riferisce all'esordio di John Prine, dal titolo omonimo e pubblicato nel 1971). In effetti Natale deve qualcosa a 'Christmas in prison'. ma io non ho mai avuto troppi problemi a prendermi delle cose che mi piacevano e ad usarle per scrivere le mie canzoni. Ho sempre preferito una buona canzone che prende in prestito qualcosa da qualcos'altro a una brutta canzone originale al cento per cento. E' cosi che funziona. Chi si dice originale a tutti i costi, dice sciocchezze.

                                                              

da "Contemporanea" di Paolo Vites - Corriere della Sera (2009)

 

 

Un uomo diverso. soprattutto un uomo, adesso. Che intanto ha messo su famiglia. nello stesso anno in cui esce l'album, sulla popolare rivista sorrisi e canzoni viene pubblicato anche un articolo molto personale, a sua firma: " (...) amore, torna presto dentro questa nottataccia che sto vivendo. Vendimi delle rose bianche e delle canzoni da circo con dentro delle facce spiritose e gentili (...). fammi essere contemporaneamente Stanlio e Ollio. fammi vedere il biglietto vincente della grande lotteria del gelato di Capodanno 1979 (...). buonanotte, dì le preghiere e che dio ti benedica", è solo un piccolo estratto di un brevissimo racconto di stile vagamente bukowskiano, testimonianza di una capacità di scrittura che potrebbe competere con quella di composizione delle canzoni.

No, non mi ci vedo a scrivere libri. certo, mi piace l'idea romantica dello scrittore di una volta, di quello che prende e se ne va, chessò, a Parigi per sei mesi, da solo, chiuso nel quartiere latino e scrive... scrive. no, le canzoni mi bastano e mi avanzano. Va bene così. Amo troppo la letteratura per mettermi a scrivere anch'io. Alcuni pensano che scrivere libri sia più nobile e importante che scrivere canzoni. Io non ho queste smanie.  E i libri che mi capita di leggere  li divido idealmente in due categorie, duelli che non sarei capace di scrivere e quelli che sono felice di non aver scritto.

La "nottataccia" di Francesco De Gregori sembra essere ormai definitivamente passata

Sì, tante cose cambiano  in  quell'anno. Mia moglie e io andiamo a vivere insieme definitivamente, arrivano i figli. Avevo compiuto 27 anni ed ero diventato un uomo.

                                                              

da "Contemporanea" di Paolo Vites - Corriere della Sera (2009)

 

 

 

 

 


Stella guarda la luna, la luna guarda Stella. La notte è bella. E' bella e profumata, di aranciata e di menta. 

Stella è contenta che babbo se ne è andato. Che babbo è via lontano.
E mamma lava i piatti, e canta piano.

Co-produttore insieme a lui Ubaldo Consoli, ma è un nome che i più attenti ricordano già dai lavori precedenti come Rimmel e Bufalo bill:

Fu un grande aiuto in tutti e tre i dischi. Di solito Ubaldo lavorava con la musica classica, aveva una velocità di registrazione che nessun altro alla Rca aveva. Lui ragionava sulla presa del suono in modo diretto, perché era abituato con le orchestre che si registrano cosi, in presa diretta. aveva molto gusto e io per lui ero una presenza strana, non era abituato al mondo dei cantautori, era curioso, creativo, paziente. molto sensibile al testo, attento alle parole, al canto. Fu un rapporto, anche personale, molto bello.

 

 

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IN PUNTA DI PIEDI E' ARRIVATO IN CIMA (Il Monello, n.28 14-7-78)

Dopo la famosa contestazione al Palalido di Milano nel 1976 Francesco De Gregori è rimasto due anni in silenzio. poi ha inciso un disco ed è ritornato puntualmente in vetta alle classifiche discografiche: la migliore risposta ai denigratori Ed ecco che ritorna, dopo due anni, la pecora nera dei cantautori italiani, come amano definirlo gli "arrabbiati" che la sera del due aprile '76, al Palalido, a Milano, inscenarono una violenta protesta nei confronti di Francesco De Gregori.

Lo accusarono di essere "commerciale", "qualunquista" e così via. Accuse quantomeno dettate da faciloneria e cattiveria. Accuse che Francesco ha cercato di digerire in questi due anni di silenzio. E ritorna, ritrovando il suo pubblico, quello che si riconosce nelle sue canzoni e che ama la sensibilità per le cose di tutti i giorni.

E' ritornato con un ellepì che è destinato a bissare il successo di "Rimmel". Un ellepì che più o meno ricalca lo stesso De Gregori di una volta: niente trasformazioni radicali o "nuove scoperte". Solo la consapevolezza di essere onestamente convinto che quello che aveva fatto finora era giusto, anche di fronte ai "facinorosi" (quattro gatti in definitiva) che due anni prima l'avevano violentemente contestato.

 Francesco si è ripresentato quasi in sordina, giocando al pallone, da solo, sulla copertina di un 33 giri che per titolo porta il suo nome e basta.  Quasi a volersi ritrovare di nuovo in una "prima volta". Vuoi ancora ricordare quella sera di due anni fa, a Milano? Dovrò ricordarmela per forza, come si fa a dimenticare? Anche se ormai è un episodio lontano...Ora dopo due anni, mi sento più tranquillo, più in pace con me stesso.

Cosa ti ha colpito di più di quell'episodio? La violenza con la quale sono stato affrontato, senza avere la possibilità di difendermi. E' stata una vera e propria aggressione.

Provi rancore?

No, assolutamente. Forse dovrei ringraziare gli autori di quel fatto perché mi hanno dato la possibilità, in questi due anni, di ritrovarmi con me stesso, di trovare conferma dentro di me per quello che avevo fatto fino ad allora. E non ho proprio niente da rimproverarmi. Parliamo del tuo ultimo 33 giri: c'è qualche differenza di fondo con i precedenti? Sono canzoni un po' diverse, ma neanche tanto. Il modo di cantare è lo stesso, melodico.

Le canzoni sono tutte percorse da una vena di ottimismo a parte una, "La campana", dove traspare un po' d'angoscia, di amarezza e di solitudine... frutto di questi due anni. Una solitudine salutare, che serve ad essere autonomi nelle scelte pur contando sugli amici quando hai bisogno di loro.

Che tipo di cantautore è Francesco De Gregori?

Uno che racconta il "suo quotidiano", le mie sensazioni di fronte a fatti come l'amore, l'ambiente che mi circonda... Non lancio messaggi o proclami. Metto in musica i miei sentimenti, sentimenti che poi sono comuni a tutti, che condivido con chi mi ascolta. Anche a me, quando ascolto un disco di qualcun altro o leggo qualcosa in cui mi posso ritrovare, fa piacere immedesimarmi perché quelle sensazioni che ascolto o leggo sono anche le mie. Un esempio? Mi piace ascoltare Lucio Dalla, per esempio. Perché abbiamo una sensibilità, un modo di vedere le cose piuttosto simili.

Ti sei sempre reputato un cantautore al di là della "barriera" commerciale. Come spieghi, allora, che agli inizi hai fatto capolino nella bagarre di una manifestazione come "Un disco per l'estate"? Sì, mi ricordo... Avevo presentato "Alice" che terminò, distanziatissima, all'ultimo posto. E' stato solo un piccolo ed innocente, credo, stratagemma per poter usufruire dello spazio che la Rai dedicava a quelle manifestazioni, per farmi conoscere, insomma. Ognuno di noi, se ha qualcosa da dire, credo abbia la voglia di far conoscere a più gente possibile il suo "pensiero". Per te è importante comunicare? Molto importante. Per questo cerchi il successo? Un certo tipo di successo, che va al di là della vendita dei dischi. Per me il successo vero è quando riesco a coinvolgere la gente attraverso le mie canzoni, confermando, in tal modo, la mia capacità di comunicare con i miei simili.

 

 

 

"Decisi di smettere per qualche anno, anche perché, in concomitanza con questi eventi, si concluse una storia d'amore importante. Avevo solo 25 anni, e decisi di cambiare mestiere nonostante avessi pubblicato alcuni album di successo. Per due o tre anni girovagai alla ricerca di una nuova occupazione, che trovai presso un libraio. Rimasi comunque nei paraggi della musica, suonando e componendo nuove canzoni tra cui "Generale". Appena scrissi quel pezzo, capii che era una canzone in qualche modo importante, e che era giusto riportare su disco. Era ora di ricominciare. Era il mio mestiere che chiamava me e non viceversa. Da quel momento Il mio lavoro non riesco nemmeno a percepirlo, non riesco a capire come lo stia facendo, lo faccio e basta. Inoltre provo un grande amore per il mio pubblico. Non ho un rapporto di ammiccamento, però gli devo molto. In certi momenti difficili, proprio il fatto di pensare al "mio" pubblico mi ha dato la forza di andare avanti. E il pubblico è stato in grado di capirmi anche quando le canzoni che proponevo non erano un granché. I miei lavori sono fatti solamente per loro e me ne frego di quello che può pensare la critica o i giornalisti in genere".: BLU – RIVISTA)  

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Francesco rimase a riflettere a lungo sui recenti tristi avvenimenti, rifiutando cortesemente tutti gli inviti che riceveva da coloro che speravano che riprendesse presto in mano la chitarra. Ma ciò non poteva durare all'infinito. Produsse infatti un nuovo splendido disco, dal titolo DE GREGORI, dai più noto come "Generale", con una copertina estremamente liberatoria: Francesco in un grande prato, intento a colpire un pallone. (…) Molte canzoni dolcissime e malinconiche, come Natale, Renoir, Raggio di sole, Babbo in prigione, ma anche come di consueto canzoni estremamente serie, come L'impiccato e La campana, e in fondo come la stessa Generale, solo apparentemente didascalica. (…). DE GREGORI – LO CASCIO – MUZZIO 1990)

Una sera giunsi al Folkstudio che lo spettacolo era già iniziato e vidi Francesco seduto in una delle poltroncine in fondo, con accanto una ragazza con la quale parlava a voce bassa, nella penombra. Incuriosito chiesi a qualcuno, forse al Bassignano, chi fosse. Questi mi rispose con aria complice che era Francesca, una sua ex compagna di scuola del Tasso. Come mia consuetudine presi atto della situazione e non volli indagare ulteriormente, e cosi Francesca, che non rividi più per molto tempo, rimase un'ombra indistinta dai capelli scuri (….) Infatti Francesco sposò la pellerossa, e costei era quella stessa ombra che avevo intravisto al Folkstudio tanti anni prima. In realtà Francesca a mio avviso non è una pellerossa benché i suoi tratti possano indurre tale impressione: Francesca è un elfo, e nemmeno lei lo sa. Ne ho avuto la prova definitiva quando ho visto i loro due gemelli, Federico e Marco, che sono senza alcuna possibilità di dubbio due vivacissimi elfi dai capelli rossi. DE GREGORI – LO CASCIO – MUZZIO 1990)

  

 

Lo Cascio e La Pellerossa - di Francesco De Gregori (1977)


Stamattina la stanza è tutta in disordine: ci sono cicche dappertutto e una quantità di vetri insospettabile negli angoli più difficili da raggiungere con la scopa. Alle otto e un quarto suonano al portone di sotto: era Lo Cascio che veniva a riprendersi il portafogli che aveva dimenticato qui ieri sera.
Mentre lui sale le scale corro a nascondere la chitarra e le sue briciole in modo che non mi faccia domande.

Lui si presenta con un cappuccino caldo e una ciambella e un sacco di scuse per avermi svegliato. Io l'ho tranquillizzato dicendogli, mentre mi mangiavo la ciambella e bevevo il cappuccino, che ero già sveglio perché la Pellerossa aveva messo la sveglia alle sette e mezzo poi era andata via dopo essersi vestita in fretta. Lo Cascio è un uomo eccezionale e so che non mi chiederà niente riguardo la Pellerossa: gli basta così, se anche gli avessi detto che ero stato svegliato dalla Balena bianca gli andava bene così.
Poi mi è venuta voglia di fumare e allora mi sono vestito e siamo scesi al Bar Tabacchi; altro
cappuccino, altra ciambella e un pacchetto di Marlboro; tutte le Marlboro di Roma sono finite da tre giorni. E ci siamo messi a fumare e a chiacchierare per via dei Giubbonari: com'è diversa alle otto e mezza di mattina rispetto a quando c'è traffico!
Io l'imbecille avevo gli zoccoli e, senza calze, avevo persino un po' freddo ai piedi e me ne stavo tutto ingobbito nella giacchetta e ogni tanto pensavo alla Pellerossa e chissà a che cazzo pensava Lo Cascio intanto. E ci siamo pure dati una guardata all' "Unità" appesa fuori la sezione di Regola Campitelli , tanto per sentirci buoni e disposti a cambiare le ingiustizie del mondo intero.
Adesso che mi sono alzato per andare al cesso mi sento proprio più chiaro di prima: la stanza, cioè, è proprio impraticabile: i vetri scricchiolano sotto gli zoccoli: ci sono due lattine di birra vuote dentro il barattolo di vetro grande e la boccettina con dentro gli antibiotici per la bronchite è rovesciata sul tavolo e ha perso l'etichetta, così sembra proprio la scena adatta per il suicidio di una stellina di Cinecittà.
Signore, ti prego, aiutami a vivere da solo senza venir sepolto dai miei rifiuti. Ora devo assolutamente fare qualcosa per far quadrare questa stanza: comincio a sentirmi pieno di vetri piccoli piccoli e di fumo freddo: devo aver l'alito di una catacomba. Adesso mi vado al lavare e poi metto in ordine: anzi, meglio il contrario. Così sono sicuro che vado. Chiamatemi Mimi.
Sono pieno di tosse; tossico di tutto: rospi, ciotoli, cartine stradali degli USA, cadaveri di giovani ragazze tedesche aggredite all'alba a Villa Borghese.Tossisco areoplani di carta costruiti per Camilla e racchette da neve a reazione. Tossisco paragoni e punti esclamativi con facilità sorprendente. Potrei anche mettere su un negozio e vendere tutto ciò che tossisco. Il negozio si chiamerebbe "Tossiture" e lo gestirei assieme alla signora Thorovskj che mi sta snervando col suo passeggiare avanti e indietro al piano di sopra (anche lei con gli zoccoli ?! Gesù, ma allora è una moda!).
Chissà se la signora Thorovsky ha sentito i miei scoppi di felicità sulla parete stanotte?
Comunque sono riuscito in meno di un'ora a rimettere a posto la stanza dove sto scrivendo e la stanza da letto.
La camera da letto è quella che mi dà l'angoscia perché l'idea di dormire lì da solo stanotte mi mette tristezza. Quella stanza è troppo vuota adesso; non c'è più nemmeno il quadro del Piccolo Marinaio perché l'ho regalato: mio fratello dice che a lui piace così e cita Cohen "The windows are smoll and the walls must be bare". Che si fottano, lui e Cohen. Quella stanza è squallida e rimane squallida, senza tante filosofie. Si tratta di riempirla, magari con un cassettone o un comodino, così la finirò di rovesciare il bicchiere con l'acqua tutte le notti. O magari una piccola libreria. Ieri sera mentre stavo a letto e parlavo con la Pellerossa ogni tanto mi veniva paura per i sogni che avrei fatto; cioè, peggio ancora, percepivo la stessa sensazione di terrore che provo quando faccio certi sogni ricorrenti (i treni, gli autobus ) senza però evidentemente sognare. Allora forse non è il sogno che provoca la sensazione di terrore, ma è il terrore che uno si porta dentro che fa fare certi sogni. Uh, come va?! Stronzo che sono, si sa che è così.
Comunque ho deciso di non bere più birra per un po': né birra né whisky né niente: neanche vino a tavola: devo rifiorire, come un rametto d'albicocco o un uccello del cielo, di quelli che nessuno li nutre però campano bene.
Adesso è sera, anzi notte, sono quasi le tre . La stanza è di nuovo un inferno: è tornato Lo Cascio e si è messo a bere insieme a mio fratello: lattine vuote e mezze piene ovunque, bottiglia di whisky vuota (comprata alle tre del pomeriggio, per la miseria!). Io li ho abbandonati verso le nove che erano sul punto di mettersi a parlare di Dio e del Comunismo, cose profonde, insomma.
Adesso sono tornato e loro non ci sono più; Lo Cascio è tornato senz'altro dalla moglie, mio fratello è sicuramente disperso in casa di qualcuno. Passerà qui domattina e andremo come bestie a farci l'aperitivo alle undici.
Intanto però io sto qui solo: sonno forse sì, voglia di andare a letto no. La Pellerossa mi piace perché è giovane e bella; stasera è troppo lontana, però. Chissà come sono le lenzuola del suo letto, sicuramente più pulite delle mie; la Pellerossa, sapete è andata a sciare, d'estate!, che Dio la benedica e la aiuti! Se potessi, le telefonerei mentre sta sciando; lei è una donna spiritosa, mi racconterebbe per telefono tutte le buche, e i sassi, e i pezzetti ghiacciati, con poesia. Ah, amore, ti amo, ovunque tu sia e con chiunque tu stia, qualsiasi cosa tu stia facendo. Ci sono tre angeli appollaiati sulla tua spalla e nessuno ti custodisce; ah, amore torna più presto che puoi dentro questa nottataccia che sto vivendo. Vendimi delle rose bianche e delle canzoni da circo con dentro delle facce spiritose e gentili che sappiano ben suonare i loro strumentini di legno.
Fammi essere contemporaneamente Stanlio e Ollio. Fammi vedere il biglietto vincente della grande Lotteria Del Gelato Di Capodanno 1979 dove tu leccherai tutta la cioccolata e io tutta la panna.
Insomma, divertiti, e se ci incontreremo ancora, fammi divertire, con le mani, con la bocca e con tutto. Buonanotte, dì le preghiere e che Dio ti benedica. (Francesco De Gregori).

 

 

 

 

 

 

 

Un altro nome importante nel lavoro di Francesco De Gregori: Lilli Greco che arrangia il brano che chiude l'album, Due zingari:

Greco era un produttore della Rca con cui avevo lavorato già in studio varie volte fra alti e bassi, quà e là con qualche problema, una persona comunque che mi piaceva, un musicista vero. Lui non produceva il disco in quel momento, ma per dirti qual'era il clima alla Rca, era normale che io gli dicessi 'senti questa cosa, perché non mi dai una mano a farla suonare un po' meglio?'. Così lui mi diede una mano con questa canzone, anche se a dirti la verità non me lo ricordo benissimo. Mi ricordo invece che ne aveva fatta un'altra versione con una ritmica un po' alla Stevie Wonder. Era molto carina ma alla fine la scartai .

                                                              

da "Contemporanea" di Paolo Vites - Corriere della Sera (2009)

 

 

 

 

 

 

Al centro di Due Zingari  (cfr. l'album De Gregori, 1978) vi è un dialogo fra due giovani emarginati che appartengono a una minoranza etnica.  Parlano della loro vita libera e semplice e dei loro sogni modesti, celebrando l'innocenza, legata al loro retaggio culturale, innocenza che sopravvive solo in chi riesce a non farsi contaminare dalla civiltà.  Di fronte a una società che  omologa le persone, i due scelgono di tollerare l'emarginazione per conservare i loro valori, augurando anche ai figli la stessa vita di vagabondaggio. 

Dormono in un campo, <<forse mano nella mano>>, in segno di ribelle solidarietà.

sull'autostrada accanto al campo

le macchine passano velocemente

e gli autotreni mangiano chilometri

sicuramente vanno molto lontano

gli autisti si fermano e poi ripartono

dicono c'è nebbia, bisogna andare piano.

Queste ultime immagini, che richiamano un forte senso di solitudine e  accennano anche l'indifferenza del mondo verso questi giovani, ricordano il monologo interiore di Mena, il personaggio verghiano, presente alla fine del secondo capitolo dei Malavoglia.  Nel monologo, che secondo Spitzer <<rappresenta forse una delle più alte vette della narrazione in prosa italiana>> (cfr. Di Salvo 1989:  47), sono presenti gli stessi elementi - il carro che va lontano, la gente che ignora le difficoltà degli altri - che compaiono nel testo di De Gregori, che evocano la solitudine opprimente di Mena:

 "E a lunghi intervalli si udiva il rumore di qualche carro che passava nel buio, sobbalzando sui sassi, e andava pel mondo in quale è tanto grande che se uno potesse camminare e camminare sempre, giorno e notte, non arriverebbe mai, e c'era pure della gente che andava pel mondo a quell'ora, e non sapeva nulla di compare Alfio, né della Provvidenza che era in mare, né della festa dei Morti [...]  (Verga 1989)."

Tesi di laurea di Nicholas Albanese

Ecco stasera mi piace così,

con queste stelle appiccicate al cielo.
La lama del coltello nascosta nello stivale,

il tuo sorriso, trentadue perle.
Cosi disse il ragazzo, nella mia vita non ho mai avuto fame
e non ricordo sete di acqua o di vino,

 ho sempre corse libero, felice come un cane.
Tra la campagna e la periferia

e chissà da dove venivano i miei
dalla Sicilia o dall'Ungheria,

avevano occhi veloci come il vento.
Leggevano la musica, leggevano la musica nel firmamento.
Rispose la ragazza: ho tredici anni,

trenta due perle nella notte.
E se potessi ti sposerei

per avere dei figli con le scarpe rotte.
Girerebbero questa ed altre città questa ed altre città
a costruire giostre e a vagabondare

ma adesso è tardi, anche per chiacchierare.
E due zingari stavano appoggiati alla notte
forse mano nella mano e si tenevano negli occhi.
Aspettavano il sole del giorno dopo,

senza guardare niente.
Sull'autostrada accanto al campo,

le macchine passano velocemente.
E gli autotreni mangiano chilometri,

sicuramente vanno molto lontano.
Gli autisti si fermano e poi ripartono,

dicono: c'è nebbia, bisogna andare piano.
Si lasciano dietro,

si lasciano dietro un sogno metropolitano.

 

 

 

 

 

Una volta entrando con la macchina in una città italiana, ho avuto modo di vedere sotto il cartello col nome della città, un altro cartello più piccolo, e c'era scritto: è vietato l'ingresso e lo stazionamento ai nomadi...

Allora io posso capire vietato lo stazionamento, perchè se uno pretende di stazionare a via Manzoni, crea dei problemi al traffico... ma l'ingresso, come si fa a vietare l'ingresso a qualcuno dentro a una città...

non siamo più nel Medioevo, che c'erano i portoni che alla sera chiudevano, le città potrebbero essere più o meno aperte al pubblico...

lì invece l'ingresso era vietato ai nomadi... e i nomadi poi chi sarebbero... sarebbero gli zingari, o no?

Non è il complesso dei Nomadi, sarebbe un razzismo tremendo!

I nomadi sarebbero gli zingari, perchè si sa che gli zingari non si lavano, si dice, e allora un po' puzzano, si dice.

poi si dice anche che gli zingari a-rubbano, come diciamo noi capitolini, e magari è anche vero, che c'è qualche zingaro che ruba, ma magari in Italia rubassero soltanto gli zingari!...

sarebbe un problema meno difficile, o no?

 

beh la prossima canzone è una canzone su un ragazzo e una ragazza zingari, e su un'ipotesi di loro amore e su loro due...

 

Ettore Castagna - "Occhi che hanno visto terra" (World Music, Roma, n. 35, dicembre 1998)

Senza dubbio gli zingari "sono" il viaggio, sembrano essere essi stessi la personificazione del movimento, dell'impossibilità di resistere alla sua necessità. Ma lo zingaro come figura letteraria e

simbolica rischia sempre di scadere nella banalità risucchiato fra due poli immaginifici ed immaginari. Da una parte lo zingaro cattivo ladro, predone, mago, dall'altra lo zingaro buono, musicista, viaggiatore, artista. Si finisce sempre indecisi fra gli zingari divinatori ed arcani di Garcia Marquez, quelli rapitori di bambini di certe leggende popolari, i santi-diavoli cinematografici de "Il tempo dei gitani" (1). La canzone, pur non ignorando sia questi tipi che tutti gli stereotipi probabili, li salta in blocco proponendoci un contatto diretto con i suoi personaggi. Sono due adolescenti, ai margini di una città (Roma?). Entrambi si autopresentano con un discorso appeso fra (il loro) reale e (il nostro) immaginario. Quando il primo dei due personaggi inizia a raccontarsi, la canzone sembrerebbe, seppur in un modo molto lirico, riproporre alcune delle stereotipie positive sullo zingaro.

Il personaggio del ragazzo si caratterizza infatti attraverso l'autoesaltazione della libertà personale vista come vera e propria eredità rom e composta di sentimentalismo "gitano" capace di "cogliere l'attimo" ("Ecco stasera mi piace così" ), violenza necessaria in un mondo violento ("La lama del coltello nascosta dentro lo stivale" ), abilità nell'arrangiare la sopravvivenza ("Nella mia vita non ho mai avuto fame"), erranza ( "Ho sempre corso libero..." ). Non da ultimo il riferimento, davvero alla Garcia Marquez, a genitori altrettanto liberi, carichi di emblematico "mistero gitano". Amplissima e, naturalmente, immaginifica e misteriosa la loro descrizione che la canzone ci offre, tutto sommato, in soli tre versi. Sono venuti da chissà dove (Primo elemento di mistero), "avevano occhi veloci (simbolo di inafferrabilità e destrezza) come il vento" (Secondo elemento di mistero), capaci di leggere la musica "nel firmamento" (Terzo ulteriore elemento di mistero). La sequenza simbolica che emerge dai tre versi in sequenza risulta così movimento-vento-musica. Tre elementi senza dubbio non "catturabili", mai descrivibili in pieno, assolutamente ascrivibili alla tradizione gitana, fatta di inarrestabile nomadismo e di inevitabile consapevolezza culturale dell'alterità di questo nomadismo. Tradizionalmente per vivere lo zingaro non esercita alcun mestiere che necessiti stanzialità ma piuttosto assoluta destrezza: fa il fabbro, legge la mano o le carte, ruba, suona con abilità "diabolica".  Appunto non casualmente chiude la sequenza l'elemento musica. La musica è una classica e storica prerogativa degli zingari ed in genere viene eseguita da loro sempre con uno stupefacente carattere virtuosistico. Viene qui in mente l'esempio del grande Diango Reinhardt, eccezionale chitarrista zingaro, che seppure paralizzato nell'articolazione di due dita della mano sinistra riusciva a suonare in modo stupefacente. Questo anche senza aver mai studiato musica, senza saperla leggere e scrivere (Per Reinhardt bisogna aggiungere che il suo rapporto con la cultura scritta era inesistente, sapeva a stento e con grande difficoltà fare la propria firma) ma il mare della musica e dei musicisti zingari è veramente illimitato, ogni esempio sarebbe poca cosa. La canzone, comunque, in un solo verso centra straordinariamente questo taglio "leggendario". Gli zingari "leggono" la musica nel firmamento, non soffrono i limiti ed i vincoli della scrittura. Il loro "spartito", come il firmamento, è sconfinato.

Già con l'introduzione del personaggio della ragazza fa irruzione un aspetto più realistico.

Viene riproposto dai primi versi solamente il riferimento estremamente "orientale" alla bellezza di un sorriso perfetto, fatto di trentadue denti-perle scintillanti nella notte. L'immagine dei denti come perle incastonate in bocca parrebbe quasi una citazione "illustre" dalla letteratura indiana. Il Kamasutra al cap. V, 5  recita: "Le labbra sono il corallo ed i denti il gioiello". Anche il  riferimento

proprio alla cultura indiana potrebbe non essere casuale date le ancestrali origini indiane degli zingari.

Per il resto in un modo molto concreto, la ragazza propone un'immagine meno mitico-eroica di sè e del futuro possibile. Un futuro comune di "giostre" e di vagabondaggio sarà forse possibile un giorno nella piena consapevolezza che anche i figli saranno destinati alle "scarpe rotte". Repentinamente e seccamente la ragazza conclude "ma ora è tardi anche per chiacchierare".  

Potrebbe sembrare un passaggio un po' ruvido ma in realtà il risultato è efficace. I due si svegliano di colpo dai sogni più o meno possibili sulla loro identità reale o supposta, sul loro futuro

immaginario e/o probabile. Si abbatte sul quadretto romatico dei due giovani zingari che vagheggiano la loro libertà un vincolo concreto: "è tardi". Anche gli zingari hanno un limite per i sogni.  

Quell' "è tardi" in realtà potrebbe essere interpretato alla rovescia: "è presto". E' presto per immaginare, per illudersi.

Vediamo i due giovani protagonisti, in una inquadratura che si allarga sempre di più, tenersi per mano, "senza guardare niente", ai margini di un'autostrada, forse al confine del campo. Emerge qui con tutto il suo peso il contrasto fra il "sogno zigano" e lo squallore probabile del paesaggio periferico ed autostradale. Il contrasto aumenta quando al silenzio dei sogni ad occhi aperti dei due zingari si contrappongono i rumori assordanti delle automobili e dei camion che fanno irruzione sulla scena. Un ulteriore elemento di contrasto arriva dall'immagine di mobilità dei mezzi che scorrono sull'autostrada ("Gli autotreni mangiano chilometri/sicuramente vanno molto lontano") che sembra brutalmente contrastare, nella sua oggettività meccanica, con l'aspetto "lirico" del nomadismo/moto perpetuo zingaro. La non casualità della scelta di queste immagini viene sottolineata dall'ultimo verso nel quale i camionisti, variante mobile ma non molto "romantica" del modus vivendi occidentale, "si lasciano dietro il sogno metropolitano". L'opposizione fra l'immaginario gitano e quello metropolitano (sebbene il secondo sia appena accennato) è completa. Vicine e confinanti le due parti fanno rassicuranti sogni separati.

"Il tempo dei gitani", di Emir Kusturica, a suo tempo ha suscitato più di una polemica. Rimane comunque un film straordinario dove viene messa in luce in modo unico l'identità zingara. La trama, continuamente sospesa fra l'ironico ed il drammatico, non scade mai nel retorico e nello stereotipo sulla condizione zingara.

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Capace anche di guardarsi indietro, per la prima volta. Adolescenza, fanciullezza, non sono più momenti di inquietudine, come ad esempio venivano cantanti nel primo disco, in quella "Il ragazzo" così autobiografica, adesso, piuttosto, c'è il rimpianto privo di ogni amarezza per un tempo ormai trascorso e rievocato con scanzonata nostalgia:

I miei primi ricordi sono tutti legati alla città di Pescara, eravamo là nel 1956, quando ci fu l'invasione dell'Ungheria da parte delle truppe del patto di Varsavia. Poteva essere l'inizio della terza guerra mondiale, ma ricordo come se fosse ieri di me stesso seduto sul pavimento di una piccola casa a due passi dalla ferrovia a ritagliare da una rivista le fotografie dei carri armati sovietici per realizzare un personalissimo esercito di cartoncino... era l'età dell'innocenza, quella della felicità che poi negli anni che verranno non conosceremo più.

Si dice che questo pezzo - il '56 - risalga ad alcuni anni prima, anche se francamente ci sembra una ipotesi alquanto azzardata vista la diversità di stile nella scrittura, sia musicale che per quanto riguarda il testo:

Non credo proprio. Al massimo a volte mi capita di avere una sorta di melodia appena abbozzata, archiviata là, da qualche parte nel mio cervello. e di portarmela appresso per un po' di tempo, a volte anche per qualche anno. Ma in questo caso non mi sembra. E poi non mi tengo mai dei pezzi nel cassetto, non mi piace, mi sembrerebbe di farli invecchiare prima del tempo. Se avessi avuto pronto un brano come il '56 ad esempio quando incisi Rimmel, lo avrei sicuramente usato allora. Non mi avanza mai nulla quando incido un disco. Anzi, è più facile che mi succeda il contrario... ricordo che per Rimmel, addirittura, dovetti scrivere appositamente Piano bar all'ultimo momento perche non avevo abbastanza canzoni  per chiudere il disco.

                                                              

da "Contemporanea" di Paolo Vites - Corriere della Sera (2009)

 

 

   

 

Dicevamo: niente dylan in questo disco? ci piace invece insinuare un dubbio, che verrà parzialmente smentito. uno dei tanti comeback, ritorni alla forma, del cantautore americano, perseguitato da sempre da questa maledizione dei critici musicali che vorrebbero sempre che i grandi artisti si ripetessero all'infinito, fu l'album del 1974, 'Planet waves'. Quel disco, che segnava effettivamente il ritorno sulle scene di Bob Dylan dopo alcuni anni di parziale ritiro e conteneva alla fine della facciata a  un brand, 'Forever young', una ballata ricca di fascino. Lo stesso pezzo apriva la facciata b dell' lp, questa volta in versione accelerata e rock. Ebbene, curiosamente, il disco del comeback di De Gregori chiudeva, nella facciata a con un pezzo, Renoir, dall'andamento veloce (e un po' casinaro), mentre la facciata b si apriva con la stessa canzone in versione ballata.

Ah sì? No, non è così... la versione di Renoir, quella veloce dall'atmosfera rumorosa, con tutte quelle voci che si sovrappongono, ha qualcosa a che fare con Dylan, ma non con il disco 'Planet waves'. Pensavo a 'Rain day women # 1 2 & 35', il pezzo che apre 'Blonde on blonde' (disco del 1966, nda) che ha quell'andamento corale un po' da osteria, con le voci che si rincorrono. Scrissi e incisi prima la versione lenta di Renoir, un brano che mi piace ancora oggi e che ho fatto spesso dal vivo e che mi piacerebbe rifare ancora.

                                                              

da "Contemporanea" di Paolo Vites - Corriere della Sera (2009)

 

 

 

 

 

 "Renoir", o della voglia di ripartire

 Fare uscire il nuovo disco nel mese del proprio compleanno ha un indubbio significato: una rinascita. E lo era, quella di Francesco De Gregori, a due anni dal precedente “Buffalo Bill” e dalle contestazioni feroci che l’avevano toccato in due serate consecutive, prima al Palasport di Pavia, poi al Palalido di Milano, dove i contestatori di Autonomia operaia (tra cui Gianni Muciaccia, ragazzo di Jo Squillo e futuro membro dei punk Kaos Rock) erano riusciti a interrompere il concerto, salire sul palco, inseguirlo nei camerini, sottoporlo a un processo popolare perché non abbastanza impegnato sui tre fronti dei testi (troppo intimistici!), dei prezzi popolari (il biglietto, 1500 lire, era basso, ma lo slogan era che la musica doveva essere gratuita) e della devoluzione degli incassi alle organizzazioni della sinistra extraparlamentare allo scopo di finanziare la rivoluzione. Qualcuno aveva perfino tirato fuori una pistola e gliel’aveva puntata alla tempia: “La rivoluzione non si fa con la musica. Prima si fa la rivoluzione, poi si potrà pensare alle arti o alla musica. Lo diceva anche Majakovski che era un vero rivoluzionario e si è suicidato. Suicidati anche tu!”.

Poi, grazie al cielo, com’erano venuti se n’erano andati. Ma qualcosa nell’animo di Francesco De Gregori si era spezzato. Quella, a due giorni dal suo compleanno, che cade appunto il 4 di aprile, era la classica goccia che fa traboccare il vaso. A settembre 1975, contestazione al Festival del proletariato giovanile di Licola; a ottobre, concerto per “A – rivista anarchica” a Milano, in un clima tesissimo; a febbraio 1976, durante un tour nel centro-sud per i Circoli Ottobre, sorta di centri sociali di Lotta Continua, contestazione a Pescara da parte delle femministe del servizio d’ordine quando canta di “Giovanna che faceva dei giochetti da impazzire” in “Non c’è niente da capire”; a Bari il concerto viene interrotto e si trasforma in un’assemblea sul prezzo dei biglietti. Poi, appunto, Pavia e Milano. È che uno si stufa. Così, la sera stessa di quel 2 aprile, De Gregori aveva dichiarato a Mario Luzzatto Fegiz del Corriere della sera: “Forse non canterò mai più”. A giugno, aveva scritto una lettera a Muzak, l’agguerritissimo mensile romano di musica alternativa vicino agli ambienti della sinistra extraparlamentare, dove scrivevano Fernanda Pivano, Giaime Pintor, Sergio Saviane, Lidia Ravera, Gino Castaldo, rispondendo alle accuse su compensi (400.000 lire a sera facevano scandalo), canzoni poco impegnate, schieramento politico.

Poi, si sa, il tempo cura le ferite. A ottobre 1976 prova ancora a fare qualche concerto, in provincia: prima Sicilia, poi Liguria. Ma ci sono ancora contestazioni, che si allargano anche a tanti colleghi: Venditti, Bennato, De André… così lascia. Gli viene meno l’amore per la musica. Si trova un lavoro in una libreria romana, a Santa Maria in Trastevere. Poi, il 5 luglio 1977, l’intervista bomba, rilasciata a Gianni Pennacchi de La Stampa: “Ho chiuso con la musica, direi in modo definitivo. Non ho intenzione di incidere altri dischi, forse farò ancora qualche concerto in autunno, ma sarà per l'ultima volta”. Sì, c’è un contratto con la RCA che lo obbliga ad incidere altri due dischi, ma lui dice che se sarà costretto a rispettarlo “saranno due dischi che fin da ora non mi piaceranno”. E il motivi sono la mancanza di ispirazione, la stanchezza nei confronti del personaggio che gli è stato disegnato addosso e per i meccanismi dell’industria discografica: “Non riesco più a scrivere canzoni che mi piacciono. Insomma, il mio lavoro non mi dà più gioia. Se abbozzo una canzone che mi piace, è sufficiente il pensiero che poi dovrà essere incisa in un disco, immessa sul mercato in un certo modo, e me ne passa la voglia”.

Però, piano piano, l’ispirazione torna. Prima due o tre canzoni, compresa “Generale”. Quindi tutto il resto dell’album che intitolerà, a ribadire il senso di rinascita, semplicemente “De Gregori”. Disco tormentato. Prima tenta di dargli una veste jazz, con il batterista Gianni Ascolese, il chitarrista Michele Ascolese e il bassista Giuseppe Caporello, ma non funziona. Allora chiama i vecchi amici Cyan, ex backing band dell’amica Patty Pravo e già con lui ai tempi di “Rimmel”: stavolta, con Franco Di Stefano a batteria e percussioni, George Sims alle chitarre e Alberto Visentin a pianoforte e tastiere (più Mario Scotti al basso), le cose vanno un po’ meglio, ma non tanto da convincerlo. Allora chiama il vecchio mago con cui s’era scontrato più volte in RCA, Lilli Greco. E con lui il miracolo si compie: le canzoni scorrono, trovano gli arrangiamenti giusti. Un consiglio qui, un’aggiustatina là: tanto che Greco non compare neppure nei crediti del disco.

Ripartire, già: ma da dove? Dalla vita privata, dagli affetti (il 10 marzo s’era sposato con Alessandra Gobbi, vecchia compagna dei tempi del liceo; testimone di nozze Walter Veltroni, allora segretario della FGCI, la Federazione Giovanile Comunista Italiana, e direttore di “La città futura”, suo organo ufficiale), dai ricordi dell’infanzia, dalle aspirazioni ideali a un mondo più giusto, ma senza estremismi. E dalle grandi passioni: Fellini e Dylan. Dylan, già, di cui De Gregori ha sempre ambito a essere l’alter ego italiano. Quel Dylan che già in due occasioni aveva inciso una doppia versione di un proprio brano all’interno di un proprio album: era accaduto con “Alberta #1” e “Alberta #2”, in “Self Portrait” (1970), e con “Forever Young”, in “Planet Waves” (1974), altro album della rinascita. Quest’ultima, poi, aveva colpito molto De Gregori: una versione lenta alla fine del lato A del 33 giri, una veloce all’inizio del lato B. Un augurio di buona vita per sé e per suo figlio Jakob, di cinque anni.

De Gregori nel 1977 ha dei bimbi in arrivo e un matrimonio in progetto, in più ha pensato di cambiare mestiere e per un po’ l’ha fatto. Non era stato forse lui a dichiarare a La Stampa che “in fin dei conti ho solo 26 anni: forse sono troppo giovane per interrompere un mestiere, ma non sono nemmeno troppo vecchio per iniziarne uno nuovo”? Nasce così “Renoir”, canzone tanto enigmatica quanto bella, in due versioni, alla Dylan: alla fine del lato A in arrangiamento brioso e circense (un po’ sullo stile di “Rainy Day Women No. 12 & 35”, da “Blonde on Blonde” del 1966, la cui intro De Gregori userà nelle versioni alternative di “Buonanotte fiorellino” contenute in “Vivavoce” del 2014 e in “Pubs and clubs” del 2012; ma non c’è solo Dylan, come si vedrà); all’inizio del lato B in versione delicata e intimista.

Un tema della canzone è chiaramente quello del viaggio, comune a tante altre canzoni dell’album, da “Generale” a “Raggio di sole”. Un viaggio che è metaforico, anche se all’inizio viene descritto con una serie di equazioni che si richiamano alla più lapalissiana realtà: “Gli aerei stanno al cielo come le navi al mare / come il sole all'orizzonte la sera”. E qui scatta il paragone che illumina la voglia di viaggiare ancora, mettersi in discussione, andare avanti e scoprire nuove cose nella vita: che aerei, navi e sole siano fatti per viaggiare nello spazio e nel tempo è vero “come è vero che non voglio tornare / a una stanza vuota e tranquilla / dove aspetto un amore lontano / e mi pettino i pensieri / col bicchiere nella mano”. Anche se è un’immagine già usata in “Ipercarmela” e in “Atlantide” (entrambe da “Buffalo Bill”, 1976), pare di vederlo, De Gregori, nel suo periodo buio, chiuso in una stanza, a meditare su cosa fare della propria vita, bevendo qualcosa per distendere i nervi, sofferente per il disgusto succitato verso il mondo della musica e per la mancanza di ispirazione. Anche perché questa descrizione ricorda una scena del suo film feticcio, “Otto e mezzo” di Federico Fellini, del 1963, il cui protagonista è un cineasta in crisi di ispirazione: in una scena, il protagonista Marcello Mastroianni seduto su una sedia in una stanza bianca e spoglia (forse un bagno) riflette proprio su questo problema (“Una crisi di ispiration? E se non fosse per niente passeggera signorino bello? Se fosse il crollo finale di un bugiardaccio senza più estro né talento?”), versandosi del liquido (un profumo? Un liquore?) sulla testa, prima di andare a dormire.

Qui però, nella prima strofa di “Renoir”, c’è “un amore lontano”, che il De Gregori di un tempo aspettava. Chi sarà? Personalmente penso che si tratti di un simbolo, che magari pigli qualche tratto da qualche persona un tempo realmente presente nella vita di De Gregori, ma che trascenda il dato biografico. Un simbolo di che? Un po’ del se stesso dei tempi andati, un po’ della sua ispirazione: nella seconda strofa, De Gregori si rivolge a “chi di voi l'ha vista partire”, invitandolo a dire “pure che stracciona era / quanto vento aveva nei capelli / se rideva o se piangeva”. Straccione un po’ lo era stato pure lui, con quell’aria trasandata mezza fricchettona, mezza da studente engagé di sinistra; stracciona era stata la sua musa, che lo aveva portato a registrare l’album che era seguito al successo colossale di “Rimmel”, il già citato “Buffalo Bill”, curandosi poco degli arrangiamenti, per autoboicottarsi commercialmente (non riuscendovi, peraltro). Il vento nei capelli può alludere ad “avere la testa tra le nuvole”, ad essere cioè in preda ad astratti furori (per dirla con Vittorini; ma anche qui c’è forse una ripresa di “Atlantide”, in cui diceva “lui adesso vive in California / da sette anni sotto una veranda ad aspettare le nuvole”) che lo portavano a ricercare un’espressione ermetica (e difatti non si capisce “se rideva o se piangeva”), tipica del Dylan più visionario: “De Gregori”, difatti, è l’album del passaggio dalla vecchia cripticità a un’espressione più immediata, e le sue canzoni sono deliziosamente sospese tra questi due mondi. Il resto della seconda strofa pare alludere ai tour che lo avevano portato su e giù per l’Italia, “ai suoi piedi” perché ormai, a modo suo, divo della canzone. Questa musa stracciona, suo alter ego, però sta “giocando a carte col suo destino”: e difatti andrà incontro alle contestazioni e alla successive depressione e tentazione di lasciar perdere tutto.

La terza strofa, se questa interpretazione è corretta, fotografa il De Gregori attuale, pronto a fare i conti col proprio passato, a superare le incertezze (“Ora i tempi si sa che cambiano / passano e tornano tristezza e amore”), ad accettarsi per quello che è e non rimpiangere le occasioni perdute (“da qualche parte c'è una stanza più calda / sicuramente esiste un uomo migliore”) e pronto a una nuova fase della propria vicenda artistica (“io nel frattempo ho scritto altre canzoni / di lei parlano raramente”), meno criptica ed ermetica, e della propria vita, che lo vedrà affrontare gioiosamente le responsabilità che derivano dall’essere marito e padre.

“Renoir”, alla fine, parla della trasformazione che sta vivendo De Gregori: il passaggio da un’adolescenza prolungata all’età adulta, dal rifiuto della realtà alla sua accettazione facendola propria. E in questo la sua ispirazione si rinnova: ecco il finale in cui afferma “ma non è vero che io l'abbia perduta / dimenticata come dice la gente”. La sua Musa è sempre lì: solo mutata. In questo viene ribaltata la conclusione di “Atlantide”: “ditele che l'ho perduta quando l'ho capita / ditele che la perdono per averla tradita". C’è sicuramente un forte ricordo della dylaniana "Girl from the North Country", anch’essa incisa in due versioni: una, fortemente folk, in “The Freewheelin’ Bob Dylan” (1963); l’altra, nello stile country più mainstream, in “Nashville Skyline”, in coppia con Johnny Cash (1969).

È infatti evidente che i momenti di passaggio possono essere visti duplicemente: come perdita di parte di sé e come felice aspettativa di tempi futuri. Ecco perché anche “Renoir” è incisa, come le tre canzoni di Dylan ricordate, in due versioni: quella circense, nel cui arrangiamento è forse presente anche un ricordo del Nino Rota di “Otto e mezzo” (ad esempio la presenza di una scala cromatica nella melodia, inusuale nel De Gregori precedente e che invece comparirà anche in “La donna cannone” del 1981, che De Gregori stesso ha dichiarato ispirata all’opera di Rota) esprime la stessa spensieratezza di “Rainy Day Women No. 12 & 35” e del finale del film di Fellini, in cui il protagonista dice addio ai fantasmi del passato e ritrova la creatività; quella malinconica e pigra del lato B, invece, esprime il rimpianto del passato, ma non a caso viene cantata con voce pacata, sì, ma ferma, come a dire che non si tratta di una grande perdita.

Rimane il titolo: “Renoir”, perché? Ipotesi: la scena citata di “Otto e mezzo” in cui il protagonista va a dormire ricorda quella di “La regola del gioco”, film di Jean Renoir del 1939, considerato uno dei capolavori più grandi del cinema di sempre. Si tratta di un’intricata vicenda di amori incrociati (il che rimanda al dato biografico alla base della metafora della canzone di De Gregori e già svolto in “Atlantide”), in cui lo stesso regista interpreta la parte di Octave, un musicista fallito (non era forse il protagonista di “Atlantide”, cioè lo stesso De Gregori, “diventato un grosso suonatore di chitarre”?) che a un certo punto dichiara: “Ho voglia di sparire in un buco. (...) Non vedere più niente, non dover scegliere ciò che è bene, ciò che è male. Il tragico della vita è che tutti hanno le loro ragioni”.

Più o meno quello che deve aver pensato De Gregori dopo le contestazioni di quel maledetto 1976.

Renzo Stefanel

https://www.rockit.it/articolo/francesco-de-gregori-renoir

 

 

Raramente tanta poesia si agita in una sola canzone, ma è poesia in musica, distinta, indipendente , universale, di tutti e per sempre.

Tutt’altro tema quello di “Renoir”: tutt’altro tema e tutt’altro treno. Lei parte, lui se ne va, è un addio, forse lo stesso di Rimmel ma rivisto con altri occhi. Detto così sembrano banali sia l’argomento sia l’ambientazione, e invece in questa sintesi fotografica piena di considerazioni a tempo scaduto, ogni cosa è nel posto dove non te l’aspetti, ma dove deve essere, secondo le regole della bisociazione.

Si parte con una rapida successione di cose e oggetti paragonati (“come”) tra loro, nelle loro funzioni. Solo che le prime due volte i paragoni sono ovvi anche se originali, ma nella terza appare come 2° termine non più un oggetto, ma tutta una considerazione.

Vediamo questa costruzione sintattica particolarissima perché “sghimbescia”,

“isoscele”: una classica “changing creativity”:

GLI AEREI STANNO AL CIELO COME LE NAVI AL MARE

(gli aerei stanno al cielo) COME IL SOLE ALL’ORIZZONTE LA SERA

(gli aerei stanno al cielo) COME È VERO CHE NON VOGLIO TORNARE

L’autore prepara un terreno di concetti che esprimono un ordine naturale delle cose e ci fa rientrare (quasi un sillogismo) un suo pensiero personale (“se gli aerei volano, è vero che io non voglio tornare da te”).

Tornare dove? In quella stanza di ragazzo, di primo folle amore e angosciate attese (“mi pettino i pensieri col bicchiere nella mano”) stile Atlantide.

Lei vista dagli altri non era poi ‘sto gran che (“che straccione era”) ma chi se ne frega.

L’importante è che gli amici le dicano se era triste o allegra, se i capelli si muovevano al vento.

Questo successe tanto tempo fa, roba appunto da Atlantide, da ricordo sommerso: prese il treno per andare più lontano possibile (“vide l’Italia passare ai suoi piedi”), prese il treno giocando un azzardo particolare ma forse necessario.

Non una connotazione fisica, non una parola, non una risposta, solo i “suoi” pensieri (quali poi?) per chilometri solo immaginabili.

Gran gesto nel finale: vabbè è andata così, “da qualche parte c’è un uomo migliore” e un lapidario, epigrammatico, succinto finale: non parlo più di lei ma non l’ho dimenticata.

Anche in “Rimmel” De Gregori fa poco per scoprirsi, getta il sasso e tira via la mano; ma è il suo modo di non lasciarsi invischiare, di non dar da vedere tutto. Sta di fatto che per “divertissement” sull’album ci sono due versioni di “Renoir” una triste, lenta; l’altra scatenata da festa del paese, quasi liberatoria. Altra magia: positivo e negativo fotografico che si ribaltano a seconda di come li si guarda. È così, l’amore, dopo anni che se n’è andato?

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tratto da "Il linguaggio in canzone in rivoluzione lessicale, formale e tematica di Francesco De Gregori"

Prof. Roberto Vecchioni - Università di Torino

 

 

 

 

 

Benvenuto, raggio di sole, a questa terra di terra e sassi
a questi laghi bianchi come la neve sotto i tuoi passi
A questo amore, a questa distrazione, a questo Carnevale,
dove nessuno ti vuole bene, dove nessuno ti vuole male.
A questa musica che non ha orecchi, a questi libri senza parole.
Benvenuto raggio di sole, avrai matite per giocare,
e un bicchiere per bere forte e un bicchiere per bere piano,
un sorriso per difenderti e un passaporto per andare via lontano.
Benvenuto a questa finestra, a questo cielo sereno,
a tutti i clacson della mattina a questo mondo già troppo pieno.
A questa strana ferrovia unica al mondo per dove può andare,
ti porta dove tira il vento, ti porta dove scegli di tornare.
A questa luna tranquilla,
che si siede dolcemente,

in mezzo al mare che qualche nuvola ma non fa niente.

Perché lontano passa una nave, tutte le luci accese,

benvenuto figlio di nessuno in questo paese.

 

 

 

RIVALITÀ PASSATE
È il 1978: sei anni sono passati dal Folkstudio e "Theorius Campus", signore aquilone e signore che bruciano, sore Rosa e Roma capoccia, e le strade di Antonello Venditti e Francesco De Gregori si sono divise, a posteriori possiamo dire per sempre, se si esclude qualche cortesia per gli ospiti. Entrambi reduci dalle loro brave contestazioni (prima del '78, come sanno anche i bambini, c'è stato il '77), Anto è un cantautore di successo nazional-popolare che deve ritrovarsi, Fra un cantautore meno popolare dal crescente successo.
Le strade si sono divise, dicevamo, ma non solo: come succede nelle migliori famiglie, Anto e Fra sono andati oltre, coinvolgendo il pubblico nelle loro - si può dire? - piccole miserie. Così, un po' come John Lennon con Paul McCartney ("How do you sleep?", ricordate?, con Lennon che dà a Macca del dormiglione),
in "Rimmel" Fra aveva attaccato con parole e musica l'amico e compagno di un tempo, accusato in "Piano bar" di essere un "uomo di poca malinconia" che "nella punta delle dita" ha "poco jazz" e "vende a tutti quel che fa", insomma, "solo un pianista di piano bar" che suonerà e canterà "fin che lo vuoi sentire"; in "Quattro cani" è invece il bastardo "che conosce la fame e la tranquillità".
Ebbene, Anto approfitta di "Sotto il segno dei pesci", il primo album inciso per la nuova casa discografica (lasciata la Rca, dopo due anni di silenzio è approdato alla Polygram), per rispondere a Fra. E dove Fra, l'abbiamo appena visto, non aveva badato a spese, in "Francesco" - s'intitola proprio così - Anto ricuce con delicatezza: "scusa Francesco/proviamo ancora/e con le ali spezziamo il filo", "suoniamo ancora l'ultima volta/senza rimpianti, senza paura/come due amici antichi". È il Venditti anche musicalmente intimista, meno di successo e però molto più rispettabile. E di "Francesco", curiosamente l'unico brano dell'album non arrangiato da Antonello, ritroveremo qualche eco ne "La donna cannone" ("due aquiloni strappati che non volano più", Anto; "E senza fame senza sete e senza ali senza rete voleremo via", Fra) e qualche nota ne "La leva calcistica della classe '68" (ma in questo caso De Gregori si sarebbe soprattutto ispirato, o per dirla tutta avrebbe brutalmente saccheggiato "The greatest discovery", un brano del 1969 di Elton John, artista che peraltro lo stesso Antonello non ha mai fatto mistero di avere preso in qualche modo a modello).
Ma non ci sono soltanto "Francesco" e Francesco in "Sotto il segno dei pesci": ci sono canzoni meritatamente ma anche immeritatamente famose come la title track e "Bomba non bomba" (e chissà perché Sasso Marconi e Roncobilaccio fanno venire in mente il "Grande raccordo anulare"?); le cugine di "Lilly", "Sara" e "Giulia"; c'è l'ancora attuale "Il telegiornale" ("così spettacolare" e "così obbiettivamente imparziale", "tra una smentita e l'altra e un sorriso ministeriale": visto che alla fine nulla è cambiato?). Nel filone sommesso, nota di merito per la delicata "Chen il cinese" (non sarà mica la Sars quel "muto assassino"?), mentre in chiusura arriva la pretenziosa "L'uomo falco".
Il tutto è ben prodotto da Michelangelo Romano, ben copertinato da Mario Convertino, ben cantato da Antonello e ben suonato da musicisti poco conosciuti come i chitarristi Renato Bartolini, Rodolfo Lamorgese, Claudio Prosperini, Andrea Carpi e Pablo Romero, il bassista Marco Vannozzi e il sassofonista Marco Valentini, guest star il violinista Carlo Siliotto e il batterista Marcello Vento (insieme nel Canzoniere del Lazio), ma soprattutto il tastierista dei Goblin Claudio Simonetti. Alla fine del '78, "Sotto il segno dei pesci" risulterà il terzo album più venduto dell'anno, e "scusa Francesco/se ti ho rubato/rubini puri dalle tue tasche".
(Ivano Rebustini) da Rockol 11 Maggio 2003

 

Ma il 1978 è un anno in cui si fanno ancora i conti con quello che questo decennio ha portato, nel bene e nel male. a marzo c'è la strage di via Fani e il rapimento di Aldo Moro e in questo disco, pubblicato proprio in quel periodo, ci sono qua e là riferimenti più o meno velati a quanto accadeva nelle strade, al clima da incubo nel quale l'italia sembrò precipitare in quei lunghi mesi segnati dalla violenza e dal terrorismo, quando sembrò che fossero saltate le regole della convivenza civile e che la democrazia stessa e le sue garanzie venissero messe in discussione. "i miei amici lo sai sono tutti in galera, sono tutti segnati, sono tutti schedati" canta De Gregori ne La campana rievocando quei momenti.

In quel periodo mi piaceva camminare da solo per le strade del mio quartiere di mattina, comprare i giornali e starmene seduto al tavolini di un bar senza fare nient'altro che aspettare e guardare intorno. Roma, Trastevere... c'è una luce incredibile in certe mattine di fine inverno, che già non fa più tanto freddo, puoi startene fuori al sole, leggere le notizie. Certe volte mi sembrava di guardare dentro un acquario... le cose che leggevo, alcune drammatiche, e poi le persone che passavano, mamme coi bambini, poliziotti... io mi sentivo un po' in disparte, estraneo a tutto. Come se tutto quello che mi succedeva intorno e che pure mi faceva soffrire non potesse in realtà più toccarmi, come se tante cose con cui avevo dovuto confrontarmi fino a poco prima avessero perso ogni valore, le discussioni politiche, quelle private, le incomprensioni, gli addii.. è vero, si parla di galera in questa canzone, ma la galera non è solo muri e sbarre... c'è anche una galera mentale fatta di luoghi comuni, di errori, di gioventù buttata via, di fallimenti esistenziali. Era quella, la più pericolosa, la galera dalla quale si rischiava di non uscire.

                                                              

da "Contemporanea" di Paolo Vites - Corriere della Sera (2009)

 

 

 


 

 

 

 

Uno l'hanno preso ieri sera, giovane giovane, è figlio di buona donna.
Figlio di buona donna, pure ladro, con un sorriso tutto denti di cane,
si nascondeva dietro uan serie di "Che ne so?".
Poi ne hanno preso un altro padre di famiglia,
faccia scura scura, vestito grigio, camicia e cravatta,
sguardo perduto all'arrivo in questura.
Il terzo, accusato d'oltraggio, non fece in tempo a aprire la bocca
che un pugno lo mise a sedere.
Allora chiese una sigaretta e confessò in fretta
tutto quello che il commissario voleva sapere.
Il quarto si chiamava Tommaso e pregava e piangeva,

chiese di telefonare all'avvocato, ma l'avvocato non rispondeva.
Il quinto venne assunto in galera
per un indizio da niente, venne assunto in galera.
Il quinto venne asssunto in galera per un indizio da poco
e fu crocefisso col ferro e col fuoco.
Forse per un errore o forse perchè era stato scoperto,
forse per un'implicita confessione oppure soltanto lo sconforto
e tutti si domandarono di che segno era il morto.

 

Anche l'impiccato è una canzone fortemente radicata nel clima di quel periodo, un elenco di poveracci trascinati in questura, una musica martellante, un finale non si sa se beffardo o drammatico. Come riuscivi a far convivere una canzone cosi con le legittime necessità commerciali della Rca? Non subivi nessun tipo di censura o - diciamo così - qualche consiglio interessato?

Guarda che L'impiccato era la canzone del disco preferita da Ennio Melis, il capo della Rca. Melis era un uomo di poderose letture e di grande coraggio imprenditoriale. Fu lui a imporre sul mercato discografico i dischi dei cantautori, a sfidare le politiche stagnanti che imperavano allora nella musica leggera. Per dirti che tipo era, era capace di lasciare fuori dalla sua stanza per due ore il direttore delle vendite mentre lui chiacchierava e beveva grappa con Piero Ciampi. Lui censurava solo quello che gli sembrava brutto, ma lasciava lavorare gli artisti e se era il caso li difendeva. Oltretutto era un uomo legato al valori tradizionali, politicamente un moderato, ma fu in quegli anni un grande innovatore se non un rivoluzionario, discograficamente parlando.

                                                              

da "Contemporanea" di Paolo Vites - Corriere della Sera (2009)

 

 

 

 

 

 

 

 

Generale e Natale vanno su 45 giri e aprono l'album, che nella prima facciata poi schiera L'impiccato, Babbo in prigione e Renoir. E nella seconda ima diversa versione di Renoir e II '56, La campana, Raggio di sole, Due zingari. Va piuttosto bene anche come vendite. Se ne starà sei mesi in classifica arrivando a solleticare le primissime posizioni. E anche il 45 di Generale si farà valere in mezzo a pezzi come Gianna di (finalmente) Rino Gaetano e Pensiero stupendo di Patty Pravo. Nei 33 giri la concorrenza arriva dalle colonne sonore di Saturday Night Fe-ver e Grease e da UNA DONNA PER AMICO del perenne Battisti.

In luglio De Gregori ha lavorato in CANZONE D'AUTORE, disco (RCA) di Andro Cecovini, ci suona le percussioni e in un brano, Clementina, pure il pianoforte; fa il controcanto in Fabbricando case di Rino Gaetano  e i cori in Lampo di Jenny Sorrenti.

 "Francesco in quel periodo stava provando con Lucio Ma come fanno i marinai - ci racconta la Sorrenti - e nel bel mezzo di un tramezzino o di una tartina, non ricordo bene, lo invitai nello Studio A, per fargli ascoltare Lampo e chiedergli di far parte del coro. Francesco colse l'invito col timore di sfigurare, non si sentiva un cantante; ma, ascoltato il brano, capì che apparteneva a un territorio musicale familiare".

                                                                                                                                                          

Da “Francesco De Gregori. Mi puoi leggere fino a tardi” di Enrico Deregibus - Giunti Editore 2015

 

 

 

 

 

SIAMO ANCORA NEL

 

 

 

IL CONCERTO AL FLAMINIO

In quei giorni, a un anno e mezzo dagli ultimi concerti, il ritorno del Generale è anche dal vivo, con un tour di una settimana fra Emilia e dintorni. Il 3 luglio suona al Picchio Rosso di Formigine. Dopo il concerto vanno a prenderlo Lucio Dalla, Cellamare e Renzo Cremonini (il produttore di Dalla) e lo portano a mangiare nella storica trattoria Da Vito a Bologna. Hanno da parlare. Perchè l'8 luglio a Roma, allo stadio Flaminio, c'è un concerto a metà con Dalla, organizzato da Veltroni per la festa della stampa comunista: "È l'esempio della casualità più assoluta. Io e Lucio stavamo lavorando ognuno per conto proprio e, inaspettatamente, ci proposero l'opportunità di fare uno spettacolo insieme. L'idea ci piaceva e quindi accettammo subito, però eravamo impreparati a una cosa del genere, non avevamo mai provato insieme e, a un orecchio esperto, questa cosa era perfettamente percepibile. Mi ricordo che la scaletta del programma la facemmo in treno la sera prima del concerto".

 

 

 

C'è chi dice venticinquemila, chi quarantamila persone, comunque decisamente oltre le aspettative. E niente contestazioni, casini, violenza. La RCA, che la pensa come una prova generale per un tour a due, gioisce. Quando De Gregori entra è accolto da un boato, i ragazzi cantano le sue canzoni, anche le ultime: è una specie di festa di bentornato per il proprio figliolo, aggredito lassù nella capitale economica due anni prima. Il palco è diviso in due, a destra Dalla, a sinistra De Gregori, il concerto anche, due o tre canzoni a testa alternandosi. Qualche volta il bolognese si sposta per suonare il sax in qualche brano del collega, per il resto non ci sono scambi. Ma d'estate fanno un po' di vacanza assieme, alle Tremiti da Dalla. Buon segno.

                                                                                                                                                          

Da “Francesco De Gregori. Mi puoi leggere fino a tardi” di Enrico Deregibus - Giunti Editore 2015

 

 

 

 

 


 

Prima scena: siamo al Gianicolo, sulla terrazza del Fontanone, De Gregori è con Lo Cascio e inizia a canticchiare uno stralcio di canzone, divertente, compagnona. Parla di marinai. Ridono, la cantano, battono i talloni.

Seconda scena: "Quando un giorno Dalla venne a pranzo a casa mia insieme a Ron, cosa che avveniva abbastanza di frequente, mi feci trovare intento a scrivere la canzone "Ma come fanno i marinai". La finiscono insieme, al pianoforte, con i figli di De Gregori lì vicino. Forse anche per questo è così giocosa. Dalla ci mette il clarinetto all'inizio e altro ancora, la modella sulle loro due voci.

Terza scena: la registrano allo Stone Castle di Carimate, dove Dalla lavora al suo nuovo album, insieme a un'altra, Cosa sarà, in questo momento c'è persino una vaga idea di fare un disco insieme.

                                                                                                                                                          

Da “Francesco De Gregori. Mi puoi leggere fino a tardi” di Enrico Deregibus - Giunti Editore 2015

 

 

 

 

 

 

"Eravamo in un periodo di scadenza di contratto con la RCA, io, Francesco, Dalla, Baglioni, Ron, Bardotti, tutti quanti.

Io, che sono nato sindacalista, capii l'enorme importanza dell'avvenimento e tentai di mettere insieme tutti noi, in modo che si accelerasse quel processo che poi è avvenuto, e cioè quello di fare etichette indipendenti. Quando la RCA si accorse di questo prese uno per uno gli artisti, e loro uno per uno firmarono.

Io invece non mi piegai e me ne andai via. E andando via sapevo che non avrei più potuto cantare né con Francesco, né con Dalla, né con gli altri che erano i miei amici, erano tutti lì.

Francesco è una canzone d'addio, tant'è che alla fine c'è la citazione di Alice. Sperando che un giorno quando i contratti sarebbero finiti... Ma poi non è neanche detto che ci sia bisogno di un palco per suonare insieme".

(Antonello Venditti)

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Non lo ascolto mai, credo mi sembrerebbe datato. Ma questo mi succede anche con l'ultimo disco che ho appena fatto... credo dipenda dal fatto che per me la canzone che ho scritto è materiale in continua trasformazione, la versione discografica è solo una delle tante possibili , non è come per la gente che invece è legata a quell'esecuzione una volta per tutte, ed è normale che sia così.

 

(Francesco De Gregori)