SANTA VOGLIA DI VIVERE E DOLCE VENERE DI
RIMMEL
Come faccio ogni giorno, ascolto la radio per ascoltare le
notizie riguardo il numero di contagiati, i positivi, i decessi, i vaccinati, il
Recovery Found. L’ascolto perchè, proprio in questo momento mi sembra un dovere
civile, da diretto interessato, informarmi su come e quando usciremo fuori da
questa pandemia. Però, un paio di secondi prima di pigiare il tasto Radio del
sistema, mi passa qualcosa rimasta nella sezione Media, cioè le canzoni. E’
Rimmel, di Francesco De Gregori.
Che fa, potrei mai farmela scappare, solo per non perdermi
l’ultima intervista in diretta al Direttor dei direttori virologi dello
Spallanzani? Al Diavolo! Rimmel, dall’inizio alla fine e per ben due volte!
Quindi alzo il volume e vengo quasi sbalzato dal sedile da
quel potente e indimenticabile attacco, le cui vibrazioni entrano fin dentro le
costole di chi ascolta. Non ci è dato sapere chi fu a suonare quel pianoforte,
Francesco o Visentin, a picchiettare con prepotenza quel riff condito da parole
di rabbia scritte sul bordo di un letto d’albergo, in attesa di essere chiamato
da Mago Zurlì per uno spettacolo per bambini.
Immenso. L’unico aggettivo idoneo per un LP storico,
inconfondibile per quella strana carta da parati a strisce bianconere sul front,
con al centro il cammeo di una bella signora d’altri tempi. Nel periodo d’oro di
Fausto Papetti, dei night club e delle zampe di elefante simili a tende canadesi,
l'album bandiera di De Gregori fece un botto di di 500.000 copie vendute. Dopo
ho perso il conto.
Anche la società italiana cambiava e fra i volantini
ciclostilati di Lotta Continua, infilati nelle tasche degli Eskimo facevano
capolino anche altri fogli dove c'era scritto "hanno ammazzato Pablo, Pablo è
vivo", anche se si credeva ben altro .......mentre Francesco ride ancora sotto i baffi.
Però si scopriva che era pure bello canticchiarla, e magari suonarla alla
chitarra.
Rimmel è certamente il giro di boa della musica italiana.
Statuario, monumentale e ricordato soprattutto per canzoni indimenticabili come
Pablo, Pezzi di vetro suonata da Renzo Zenobi (da sempre considerata un esame
insormontabile per le dita dei ragazzi che cominciano a suonare la chitarra) e
soprattutto per Buonanotte fiorellino, ispirata da Winterlude di Dylan anche se
la versione di Bob (diversa anche musicalmente) è… “il walzer di Zimmerman che
pattina con la sua piccola mela, vagando per il Midwest coperto di neve alla
ricerca dei recessi che racchiudono le bellezze della loro sessualità e nei
quali si rifugiano per sfuggire al brutto mondo esterno”. Questo scrive Anthony
Scaduto nella biografia di Dylan. In questa pagina web dedicata a questo disco
ne approfitto per sancire definitivamente la bufala della moglie morta in un
disastro aereo, anche se un’altra figura legata davvero a questa canzone è poi
morta davvero, ma non per una catastrofe. Nonostante tutte le difficoltà per le
registrazioni effettuate in incognito nelle sale ministeriali della RCA
Italiana, grazie a Dio Rimmel fu pubblicato con la complicità di Lilli Greco,
Ennio Melis e Ubaldo Consoli.
Illuminato da una luce abbagliante “Fatima style” che
stravolse il mio pessimo scibile musicale limitato a Sandro Giacobbe nei juke
box della spiaggia, nel 1975 cominciai ad essere infettato da questa strana
malattia, recuperando anche sui dischi precedenti. Appena acquistato, tornai a
casa con un cartone quadrato dai colori irrimediabilmente ostili ad un
interista e che suscitò anche gli sfottò di mio fratello che lo vide addirittura
poggiato sul mio comodino con tutti i crismi, le accortezze e le cure che
richiedevano a quei tempi i long playing importanti.
Grazie a questo disco cambiò tutta la mia vita musicale, in
seguito facendomi scoprire tante altre cose. Già storico fan nel mitico
Rimmelclub di Daniele Di Grazia, ho poi varato nel 2005 il mio Titanic dedicato
al Principe. Sì va bene, ho dato anche io, ma da Francesco ho ricevuto molto,
molto di
più; tantissime cose che non è il caso di raccontare.
Pubblicato quasi di
nascosto negli studi RCA, Rimmel fu scritto nel 1975 e scritto a 23 anni -
perché è a quell’età che nascono i capolavori - in preda a giovanili
gelosie davanti a un bel mangiatore di fuoco, a pensieri seduti su un letto di
via del Mattonato e a Puny Rignon che chiamò Francesco vincente dopo avergli
letto quattro assi che avrebbe spedito chissà a quale indirzzo.
Nel 1975, famosa fu la frase di Giaime Pintor all’uscita del
disco: "De Gregori non è Nobel, è Rimmel". E' il contrario. Credendolo mendace
come un trucco, Francesco non si fidò di quel che gli disse la prima moglie di
De Andrè, che uno zingaro gli aveva fatto le carte definendolo vincente. Invece
mai profezia fu più azzeccata. Mai come quella volta De Gregori sbagliò le sue
previsioni, perché quel futuro invadente non l'ha distrutto e stracciato come
avrebbe voluto ma l'ha preso per mano convivendoci fin dal primo momento, fin da
quando creò un capolavoro come Alice, a soli vent'anni. Ecco perché la sua
carriera non è stato un trucco ingannevole ma una meravigliosa realtà, perché
tutto quello che ha scritto e prodotto l'ha fatto in nome dell'arte. Ecco perché
Francesco è Nobel, e non Rimmel.
Southampton Harbour. April 3, 2021
Il Nostromo
Rimmel
(LP, Album) – RCA - TPL1 1107 Italy - 1975
Rimmel (Cass, Album) – RCA - TPK1 1107 – Italy - 1975
Rimmel (LP,
Album) – RCA - TPL1 1107 – Italy - 1975
Rimmel (LP, Album) – RCA - TPL1 1107 – Italy - 1977
Rimmel
(LP, Album, RE) RCA - TPL1 1107 - Italy 1980
Rimmel (CD, Album) – RCA PD70742 – Italy 1985
Rimmel (CD, Album) RCA 74321 625132
– Italy 1998
Rimmel (CD, Album, RE) RCA TPL1 1107 Italy 1998
Rimmel (CD, Album, RE, RM, Dig) BMG
Ricordi S.p.A. 74321 765072 Italy 2000
Rimmel (CD, Album, RE) BMG Ricordi,
Sorrisi E Canzoni TV, Panorama (23) 74321625132, none, TPL 11107 Italy 2003
Rimmel (CD, Album, RE) RCA
BBCD01 Italy 2007
Rimmel (LP, Album, RE) RCA, Sony Music TPL1 1107 Europe 2013
Rimmel (CD,
Album, RE, Dig) Sony Music, RCA 88843067542 Italy 2014
Rimmel (LP, Album, RP, 180) Sony Music, RCA 88875121261 Europe 2015
Rimmel (CD, Album, RE) Panorama Magazine
PACD2802 Italy Unknown
In
quest’anno ci governa Moro con una coalizione politica DC; viene assegnato il
Nobel agli italiani Renato Dulbecco per la medicina ed Eugenio Montale per la
letteratura; libanesi cristiani e musulmani si uccidono a Beirut; alla morte di
Franco, Juan Carlos sale sul trono di Spagna; il PCI di Enrico Berlinguer
acquista maggiore peso nella vita politica del Paese: nel mese di giugno, supera
la DC nelle elezioni regionali. Si parla per la prima volta di "compromesso
storico"; Koehler e Milstein realizzano gli anticorpi monoclonali e Stephen
Schneider denuncia l’effetto serra; viene messo in commercio il primo
videoregistratore domestico; il primo miniassegno viene emesso dall'Istituto
Bancario S. Paolo di Torino il 10 Dicembre: 100 lire; nascono le prime radio
libere; i radicali Marco Pannella, Adele Faccio ed Emma Bonino lanciano la
campagna per la liberalizzazione dell'aborto provoncando il loro clamoroso
arresto; i giovani votano a 18 anni, così la finiscono una volta per tutte di
falsificare la firma dei genitori sul libretto scolastico delle assenze; un
commando delle Brigate Rosse, con un assalto alle carceri di Casale Monferrato,
fanno evadere Renato Curcio; nella manifestazione antifascista a Milano un colpo
di pistola uccide Claudio Varalli. Seguiranno rappresaglie e scontri con le
forze dell’ordine anche a Firenze dove tra la folla altri colpi di pistola
uccidono Rodolfo Boschi, militante del Pci; il Parlamento approva la riforma del
Diritto di Famiglia; si dimette il Governatore della Banca d'Italia Guido Carli
e al suo posto viene nominato Paolo Baffi; tre giovani della Roma-bene, dopo
aver invitato a un loro festino due ragazze in una villa del Circeo, le
seviziano e poi le uccidono; sul litorale romano di Ostia, in un campo incolto
in via dell'idroscalo, viene trovato il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini
per mano del giovane Giuseppe Pelosi. Con lui scompare una delle più grandi
figure della nuova cultura italiana; muoiono pure Juan Peron e Aristotele
Onassis.
Carovita:
Giornale £ 150 - Biglietto del Tram £ 100 - Tazzina Caffè £ 120 - Pane £
450 al kg, Latte £ 260 - Vino al litro £ 350 - Pasta al kg £. 480 - Riso al
kg £ 420 – Topolino (il giornalino) £ 500 - Carne di Manzo al kg. £ 4500 -
Zucchero al kg £ 430 - Benzina £ 305; l'inflazione è al 19,2%.
Nello
sport Niki Lauda vince il Mondiale di Formula Uno, Oleg Blokhin vince il Pallone
d’Oro e la domenica sera Adriano De Zan ci racconta che la Juve vince lo
scudetto con Zoff, Gentile, Cuccureddu, Furino, Morini, Spinosi, Altafini,
Causio, Gori, Capello, Bettega (All. Parola)
Il
Premio Strega va a Tommaso Landolfi con A caso e il Campiello va a Stanislao
Nievo con Il prato in fondo al mare
Di
moda vanno il boxer e il dobermann, l'accendino Dunhil, gli abiti peruviani e
gli Intillimani, il megafono, i volantini e il ciclostile, i viaggi a Soci,
Austria e Monaco, la calcolatrice Texas Instruments, la macchina fotografica
Olympus, l’orologio Tissot. Le dimensioni degli occhiali si restringono:
arrivano i Ray Ban con le stanghette laterali verso le orecchie che terminano
con una parte semimolle piegata verso il basso e che praticamente avvolge
l’orecchio da sopra obbligandoci in strane manovre.
Viaggiamo
con la Renault 5, la Simca GLS, la moto Laverda, la Vespa 125, la Fiat 850 Coupè,
la Renault4, le nuove moto giapponesi.
Si
fuma lo spinello, ma per chi non lo fuma il risultato è identico: Lucky Strike,
Camel, Chesterfield senza filtro e come donne francesi che hanno un buon profumo
e fan girar la testa: Gitanes, Gauloises, Caporal. Tutta roba per uomini duri.
Ci
intossichiamo con Girella Motta, Paciugo Tanara, Starcrem, Ciokito, Cioccovella,
Ciocorì, Biancorì, Twix Raider, Duplo, Tronky Ferrero. In
pubblicità la donna è ancora un po’ stupidina, rigorosamente casalinga,
vestita in modo molto castigato in tailleur oppure in gonna nera, camicia di
seta chiara e collana di perle, sempre impegnata a risolvere il suo unico
dilemma: quale detersivo usare. Con una messa in piega alla Brodo Knoor, tale da
farla assomigliare a Margie Simpson, svolge bene il ruolo della madre di figli
educatissimi e della moglie di un uomo virile e che non deve chiedere mai
(infatti le femministe si incazzano parecchio). Ma a volte è un po’ scemo
anche lui: si chiede tante ma tante cose, si stupisce come un idiota ad ogni
nuovo prodotto e fa il credulone ad ogni argomento propostogli. Spot
da ricordare sono Gianfranco Mulè e la tedesca Solvi Stubing di "Chiamami
Peroni: sarò la tua birra"; Denim, il profumo per l'uomo che non deve
chiedere mai ; ….in tutto il mondo, in tutto il mondo, non c’è nessuno come
Jo Condor. Gigante, pensaci tu..”, col gigante che con un’incredibile
pazienza risolve i problemi di quegli incapaci; il mitico sedere di Rosa Fumetto
dei jeans Jesus in "chi mi ama mi segua"; il digestivo Antonetto con
Nicola Arigliano che si passa la mano sulla pancia sul tram e dice "E' così
comodo che si può prendere anche in tram".
Al
cinema vediamo Frankenstein Junior, Quel pomeriggio di un giorno da cani,
L’uomo che volle farsi re, Yuppi du, Fantozzi, Profondo rosso, Qualcuno volò
sul nido del cuculo, Lo squalo, Profumo di donna, Piedone lo sbirro, L'inferno
di cristallo, Prima pagina, Scene da un matrimonio e i films polizieschi con
l’educato e composto commissario Maurizio Merli e il trasandato trasteverino
Tomas Milian.
In
televisione c’è Vita da strega, Signore e Signora con Lando Buzzanca e Delia
Scala, Flipper il delfino, Attenti a quei due, Mazzabubù, Anna Karenina, Il
fauno di marmo, L'amaro caso della baronessa
di Carini, Mazinga, Orzowei, Star Trek e …Gustavo, un cartone ungherese che
finiva con la scritta koniec "fine".
Indossiamo
trasandati giacconi di panno o di velluto a coste con il bavero alzato che ci
difendono a malapena dal freddo nei cineforum e nelle riunioni delle federazioni
politiche; jeans Levi’s e scarponcini della marca “più sporchi sono meglio
è”. Le ragazze hanno lunghe gonne a fiorellini da femminista sotto enormi
maglioni che arrivano quasi alle ginocchia. Portiamo la barba incolta e i
capelli lunghi e spettinati. La cravatta è ai minimi storici (bei tempi!), le
camicie si portano aperte ed è proprio per la necessità di far stare il
colletto bene aperto sulla scollatura dei due o tre bottoni, che nascono i
colletti di grandi dimensioni. Le giacche, invece, hanno generosi revers che
chiudono alto sul davanti, per cui i bottoni sono tre o quattro. Lo stesso
discorso vale anche per il trench.
Giochiamo
con Bruciapista Mattel e la pista Sizzler, le automobilini Dinky Toys, il
videogioco Pong (oggi più noioso di un minuto di Radio Maria).
Leggiamo
Ernesto, Padre padrone, Trattato di semiotica generale, Skorpio, Lanciostory, Il
manifesto, l’Unità, Postal Market e Confidenze, le enciclopedie I quindici,
Mille Perché, Vita Meravigliosa, Sapere, Conoscere e Capire.
L’anno
è da ricordare anche per le uscite di album come "Born To Run" di
Bruce Springsteen; "Blood On The Tracks" di Bob Dylan; "Wish You
Were Here" dei Pink Floyd; "Phisical Graffiti" dei Led Zeppelin;
"Metal Machine Music" di Lou Reed. Ma anche “Windsong” del
compianto John Denver, un disco che staziona nei primi posti delle classifiche
USA per lungo tempo, a dimostrazione del fatto che gli americani rimangono
sempre sotto l'influenza della musica country. Esplode
la musica funk: lo "street funk" di George Clinton getta le basi per
la disco music; che emette i suoi primi vagiti con l'accoppiata Moroder-Van
McCoy; "Saturday Night Live" debutta in tv; il film
"Nashville" di Robert Altman rilancia la country-music. Anche
l’Italia vanta bravi rocker: dalla PFM all’indimenticabile Ivan Graziani.
Affascinati da tutto questo ben di Dio e liberati per sempre da Orietta Berti
& Co., i ragazzi sentono un'esigenza più intima che è quella di parlare,
di raccontare la rabbia, gli umori, le ansie, gli amori e le speranze
dell’epoca. Trionfa la canzone d’autore italiana con De Gregori, Guccini,
Venditti, De Andrè, Lolli, Rosso, Fossati, Bennato e gli effetti si vedono: a
Sanremo vince Gilda con Ragazza del Sud.
Allo
Zecchino d’oro vince "La figlia del Re di Castiglia" e al
Festivalbar Drupi con “Sereno è”. Però proliferano
le prime riviste musicali come Ciao 2001 e Nuovo Sound e con esse gli italiani
cominciano a scoprire le bufale che i cantanti delle nostre Canzonissime
spacciavano per loro successi. Per loro è tempo di crisi, il canto del cigno lo
tenta pateticamente Mino Reitano che si presenta in una trasmissione pomeridiana
dedicata ai giovani con un pesante maglione nero, la barba e i capelli lunghi e
una chitarra folk. Canta “Il tempo delle more” con un arpeggio alla Cohen.
Non ha ancora capito niente!
Ascoltiamo
Una storia disonesta, Sabato pomeriggio, L'importante è finire, Piange il
telefono, Profondo rosso, Buonasera dottore, You're the first the last my
everything, Parlami d'amore Mariù, El bimbo, L'Alba, Emmanuelle, Reach out I'll
be there, Aria, Ci vuole un fiore, Il Giardino proibito, Tornerai tornerò,
Testarda io, Rock the boat, Una Paloma blanca, Stiamo bene insieme, Sei
bellissima, Stasera che sera, Manuela, Se mi vuoi, From souvenirs to souvenirs,
Overture from Tommy, Island girl. Gli
album più venduti in Italia sono Profondo rosso, RIMMEL, Can't get enough, Just
another way to say I love you, 19ma Raccolta Fausto Papetti, James Last in
concert, Sabato pomeriggio, Anima latina, Fabrizio De Andre' vol. VIII, Yuppi du,
20ma Raccolta Fausto Papetti, Del mio meglio n. 3 Mina, Borboletta, Baby Gate
Mina, L'alba, White gold, Canto de pueblos andinos, Never can say goodbye,
Incontro, Un po' del nostro tempo migliore.
Ma
cominciano a conoscere anche la musica straniera. Da una ricerca sul gusto
musicale degli italiani risulta che il 50% ascolta musica americana, il 30% la
musica inglese e solo il 20% la musica italiana. Questa
tendenza è rappresentata da dischi come Another Green World, Shakti, Born to
run, Blood on the Tracks, Physical Graffiti, Windsong, Wish You Were Here,
Horses, Atlantic crossing, ma anche dischi italiani: La luna, Io che non sono
l'imperatore, Volume VIII, Anidride solforosa, Il grande mare che avremmo
traversato, Poco prima dell'aurora, Lilly, Canzoni di rabbia. Tormentone
dell’estate: Sabato pomeriggio, di Claudio Baglioni.
http://www.rimmelclub.it/storia/storia.htm
|
"La
RCA a quel tempo, negli anni 70, era un autentico porto di mare, una
vera e propria fabbrica. C'erano uffici, studi di registrazione,
magazzini, presse per la produzione dei dischi in vinile. E poi un
grande bar, una mensa, perfino un campetto di
calcio. Era una struttura
talmente grande e piena di cose che ci portavano addirittura in gita le
scolaresche per far vedere ai ragazzi come si facevano i dischi. lo
stavo lavorando a Bufalo Bill e dopo Rimmel per forza di cose il mio
nuovo disco era molto atteso, c'era molta curiosità per quello che
stavo facendo. Entrò nello studio dove mi trovavo una scolaresca delle
medie, ragazzini che probabilmente non conoscevano le mie canzoni, il
mio pubblico era già un po' più adulto. Di me sapevano poco o niente e
rimasero molto perplessi, tipo 'ma questo è davvero un cantante?'.
Neanche quello che usciva dagli altoparlanti sembrava convincerli molto.
Dicevano: 'Se è così che si fanno i dischi, allora siamo capaci
tutti'''.
Ride, Francesco. Ride anche pensando a come nacque rimmel: "la RCA
era una specie di ministero, aveva una decina di studi fra grandi e
piccoli. lo, come tanti altri, ci bivaccavo dentro ed ero diventato
amico di questo, amico di quello, amico di molti musicisti (o
"turnisti", come si diceva allora) ... con il disco precedente
avevo avuto un sacco di problemi, io avrei voluto lavorare con una band,
ma il mio produttore insisteva per un disco più scarno, più "da
cantautore". Alla fine aveva vinto lui. Ma adesso non volevo che le
nuove canzoni che stavo scrivendo suonassero come decideva qualcun
altro. Così mi inventai che dovevo fare dei provini e per fare i
provini non c'era bisogno dell'autorizzazione di nessuno. Andavi lì, ti
mettevi nella prima sala libera con i musicisti che trovavi disponibili
e registravi. Oggi sembra impossibile, ma era davvero così, era molto
bello. Con la scusa dei provini in realtà cominciai a registrare
Rimmel".
Ma
nessuno se ne accorse? "A un certo punto, per forza di cose, Lilli
Greco (pseudonimo di Italo Greco, uno dei più importanti produttori e
discografici italiani, che ai tempi lavorava appunto con Francesco De
Gregori, nda) se ne accorse, perché vide che di provini ne avevo fatti
un po' troppi ... chiese in giro, "ma De Gregori che sta
combinando?" Sentì le registrazioni, perché comunque i nastri
rimanevano lì alla RCA, capì tutto e non la prese bene. Un pomeriggio
andai alla RCA per continuare il mio lavoro e trovai lo studio sbarrato.
Tra l'altro io lavoravo in una sala, la sala "a", dove di
solito si registravano le colonne sonore dei film, che nessuno voleva
usare perché aveva un vecchissimo banco a valvole e un registratore con
sole quattro piste: cose che oggi varrebbero una fortuna sul mercato
vintage, ma che allora erano già superate.
foto by
http://www.beatsessanta.it/
|
E'
stato il primo disco che ho potuto arrangiare e produrre per conto
mio. Naturalmente la cosa mi preoccupava un po', così avevo chiamato
qualche amico a suonare con me, tipo Renzo zenobi alla chitarra acustica
e Mario Schiano al sax. Al contrabbasso c'era Roberto Della Grotta, che
poi è diventato buddista e del quale non ho più saputo niente, e poi
tutto il gruppo dei Cyan, che prima di me aveva suonato con Riccardo (Cocciante)
ed erano nella fattispecie Alberto Visentin al pianoforte, Franco di
Stefano alla batteria, George Sims alla chitarra e Roger Smith al basso.
E in realtà sono stati loro a fare la maggior parte del lavoro. Mi
ricordo quando costrinsi Franco di Stefano a sbattere le bacchette una
sull'altra durante la registrazione di "Buonanotte
"
perché volevo un suono "tipo le nacchere".
Ancora oggi mi
domando perché mai non gli ho fatto suonare le nacchere direttamente.
...RIMMEL è stato registrato durante l'inverno 74-75 utilizzando una
macchina a 8 piste già antiquata a quell'epoca; il fonico Ubaldo
Consoli faceva i salti mortali per "entrare e uscire" su
quelle poche piste e riuscire ad avere un suono decente. Utilizzavamo un
compressore a valvole che oggi farebbe la sua figura sul mercato
dell'antiquariato e cercavamo, per quanto possibile, di suonare in
diretta.
La sera tardi, finito di lavorare, si andava tutti a mangiare
in qualche trattoria sulla via Tiburtina, di quelle frequentate dai
camionisti. Bevevamo quel particolare tipo di vino dei castelli che si
può bere solo quando si è molto giovani, e birra a fiumi. Io ero il
capo della banda."
|
I
Cyan con Lilli Greco
GLI AUGURI PER IL QUARANTENNALE DI RIMMEL DA PARTE DI CHI L'HA COSTRUITO (in
esclusiva per il Titanic)
Quel lontano giovedì o venerdì prima della registrazione mi
sono visto con Francesco.
Il primo brano programmato per il "provino" di lunedì si
chiamava "Rimmel". Ho ancora il piccolo
arrangiamento scritto alla buona per i colleghi e lo spartito per Della Grotta,
che leggeva a vista.
Nella mattinata di lunedi' ricordo che abbiamo provato un po'
insieme e poi in due o tre prese al massimo. Consoli aveva il pezzo sul nastro.
L'ambiente era molto disteso, c'era l'ottimismo e quasi l'incoscenza della
gioventu'. Renzo Zenobi era trepidante e ansioso, Francesco aveva la sicurezza
dei forti e i dubbi dei geni. Lui cantava accompagnandosi con la chitarra per
farci da guida ed i suoi toni ispiravano la nostra maniera di suonare (in
diretta).
Per ogni canzone si facevano 2 o 3 prese e se c'erano degli
errori bisognava riprendere da capo. Mi ricordo della disponibilità tranquilla
di George Sims che ha avuto da sempre un buon gusto innato. Poi Francesco
registrava la voce definitiva, senza troppe storie, con sicurezza e spontaneità.
Mi ricordo che Ubaldo Consoli si era inventato un colore nelle frequenze e nel
mix che avvolgeva il tutto e dava un tocco di magia. C'era il segreto
dei"provini" che noi abbiamo rispettato.
Il resto l'ha già detto Francesco.
(Alberto Visentin)
Ciao sono Franco di Stefano. Sono dei bei ricordi e
ho una gran voglia di tornare indietro e ripetere tutto. Un bacio a
tutti.
(Franco Di Stefano)
Sono molto orgoglioso di
aver preso parte alla nascita dell'album Rimmel.
E' stato, e sarà sempre uno
dei momenti più belli della mia vita.
(George Sims)
George ha concesso la foto al Titanic
attraverso il grandioso sito
http://www.beatsessanta.it/
Vorrei che fosse ricordato anche Ubaldo Consoli, tecnico del suono mio
collega e fraterno amico, fra i più apprezzati della RCA e sopratutto da
Francesco...anche i tecnici della RCA hanno fatto la storia di questa
grande Società...prematuramente e volutamente defenestrata.
Ubaldo era molto riservato professionalmente… difficilmente riuscivi a
capire ciò che succedeva in studio di registrazione… si prodigava molto
per l'artista, questo si, che poi, alla fine, attingeva e si
impossessava tranquillamente dei consigli del fonico (anche noi si
produceva… e come): Francesco, non ricordo su quale LP, lo cita, nei
titoli, anche come produttore. Eravamo amici, conservo veramente un bel
ricordo di Ubaldo…Un amico che vorrei avere ancora vicino.
Enzo Martella (RCA-BMG)
Rimmel fu una consacrazione inattesa.
Ho saputo solo più tardi che Ennio Melis, il boss della Rca, aveva
fortemente creduto nel progetto, al punto di inondare letteralmente i
punti vendita. Senza il suo entusiasmo forse non staremmo qui a parlare.
Ovvio: il successo, l’adulazione, il
denaro cambiano tutto quel che ti gira intorno, ma nessun disco, giuro,
è stato uno spartiacque nella mia vita. Il modo di riferirmi agli altri,
al mondo, alla discografia, al pubblico è sempre quello.
Felice? Certo. Ma mai ragionato in
termini di ville e macchinoni».
«In quel periodo, a Roma, tutti
volevamo diventare cantautori. C’era una fioritura, e un locale, il
Folkstudio, che ci offriva lo spazio adatto.
Immagino di avere un certo talento se sono arrivato fin qui
ma storicamente ho preso questo treno nel momento in cui la piattaforma
era affollata; eravamo in tanti, e c’era anche tanta attenzione da parte
del pubblico giovanile, miei coetanei che volevano cantare, essere
cantati e ascoltare.
Avevo
uno stile che ad alcuni poteva anche sembrare sgradevole, ma certamente
molto personale; un modo di scriver canzoni fortemente evocativo, brani
che lasciavano il segno, inusuali, nel bene e nel male».
Agli altri artisti piaceva
invece lavorare in studi più moderni ed ecco perché non avevo trovato
molte difficoltà a fare le mie registrazioni clandestine ... era uno
studio che non usava nessuno per fare dischi e fu lì che conobbi Ubaldo
Consoli, un fonico vecchia maniera specializzato nella registrazione in
diretta delle grandi orchestre di musica classica e proprio per questo
non molto richiesto per i dischi di musica leggera.
Invece il suo apporto tecnico fu fondamentale per il sound di rimmel e
Ubaldo fu, insieme a me, il vero produttore del disco. Comunque quel
giorno trovai lo studio sbarrato e mi sentii fregato: avevo praticamente
già registrato mezzo disco e a questo punto non sapevo più che fine
avrebbero fatto le cose che consideravo già acquisite".
Porte chiuse, dunque. ma il giovane De Gregori non si perde d'animo, e
piuttosto che starsene zitto va dritto dal grande capo della RCA, Ennio
Melis: "gli davo ancora del lei. gli dissi quello che stavo
facendo, gli spiegai che Lilli Greco aveva delle idee e io ne avevo
altre. 'Mi dica cosa devo fare, ho trovato tutto chiuso, non posso
lavorare'.
Ero pronto a fargli sentire quello che avevo fatto fino a
quel punto, ma Melis rifiutò (anche se sono convinto che qualcosa
avesse ascoltato. alla fine disse: 'Torni pure a lavorare in studio come
ha fatto finora, però se viene fuori un brutto disco se ne assume lei
la responsabilità'. Così tornai a finire alla luce del sole quello che
avevo iniziato a fare come un topo nel formaggio". No, non venne
fuori un brutto disco.
E' l'eleganza della veste sonora una delle caratteristiche che hanno
reso Rimmel un disco così unico e fuori dal tempo. Una eleganza
stilistica che fa venire alla mente certe sonorità della West Coast.
"si cita spesso Bob Dylan a proposito delle influenze che possono
avere avuto ma in realtà dentro Rimmel c'è tutto quello che divoravo a
quell'epoca, fagocitando disordinatamente stili e scritture diversissimi
fra di loro. C'erano senz'altro James Taylor, Carol King, Joni Mitchell,
c'era addirittura Elton John in certe cose.
A Renzo Zenobi devo anche la costruzione delle armonie vocali di Piccola
mela e la sua assidua presenza in studio assicurò continuità a tutto
il lavoro quando magari io partivo per andare da qualche parte a fare
una serata.
Mi rendo conto che raccontata così la registrazione di Rimmel sembra
una gabbia di matti, ma credo che la luminosità e la grazia di questo
disco nascano anche da questa apparente disorganizzazione, da questa
voglia di divertirsi che nulla però toglieva alla nostra
concentrazione" .
Tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al
Corriere della Sera
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De
Gregori, l’Italia raccontata da un «cronista» con la chitarra
«Rimmel? Riuscii
a farlo a modo mio con la scusa dei provini»
Francesco
De Gregori
MILANO — Quattordici album per raccontare una grande storia.
Quella di Francesco De Gregori. È la nuova iniziativa targata Corriere
della Sera: da oggi, e a seguire ogni martedì fino al 5 gennaio, in
edicola troverete settimana dopo settimana i cd della collana
«Contemporanea » dedicata al cantautore romano. Ciascun album è in
vendita a 10,90 euro (più il prezzo del quotidiano) ed è accompagnato
da un contributo inedito di circa 40 pagine. Interviste esclusive nelle
quali De Gregori racconta la nascita e i retroscena di ogni cd, più una
guida all’ascolto e i testi di tutte le canzoni.
Si
comincia (e come poteva essere differente?) con quello che è il suo
album più celebre e (forse) migliore: «Rimmel». Uscito nel 1975, mise
l’allora giovane musicista sotto le luci della ribalta. Non che De
Gregori fosse uno sconosciuto assoluto, aveva infatti alle spalle una
discreta gavetta. Dal 1970 era ospite fisso del Folkstudio, la mitica
cantina di via Garibaldi a Roma dove sono passate generazioni di musica
popolare e autoriale italiana. Era già stato in tour nel ’71 come
chitarrista di Caterina Bueno. E aveva registrato diversi dischi: «Theorius
Campus» in duo con un’altra giovane promessa della musica italiana
(Antonello Venditti), il suo primo da solista («Alice non lo sa», in
vendita in questa collana dal 20 ottobre) e «Francesco De Gregori »,
album d’esordio con una major discografica (la Rca italiana, dall’87
acquistata dal colosso Bmg) e penultimo appuntamento di questa raccolta.
Ma
fu «Rimmel» a farlo uscire dalla nicchia. Le vendite lo premiarono
alla grande (è stato uno dei dischi più venduti del decennio), la
tracking list diventò una sorta di colonna sonora per un’intera
generazione. La «Rimmel» che dà il titolo all’album, e poi
«Pezzi di vetro », «Il signor Hood», «Pablo » (con l’arrangiamento
di Lucio Dalla), «Buonanotte fiorellino », «Le storie di ieri»,
«Quattro cani», «Piccola mela » e «Piano bar»: nove brani che
messi uno dietro l’altro formano una pietra miliare della canzone d’autore
italiana.
E
dire che la genesi dell’album fu, come dire?, davvero bizzarra. «La
Rca era una specie di ministero — racconta De Gregori nel libretto che
accompagna il cd della collana
— aveva una decina di studi fra grandi
e piccoli. Io, come tanti altri, ci bivaccavo dentro ed ero diventato
amico di questo, amico di quello, amico di molti musicisti (o
'turnisti', come si diceva allora). Con il disco precedente avevo avuto
un sacco di problemi, io avrei voluto lavorare con una band, ma il mio
produttore insisteva per un disco più scarno, più da 'cantautore'.
Alla fine aveva vinto lui. Ma adesso non volevo che le nuove canzoni che
stavo scrivendo suonassero come decideva qualcun altro. Così mi
inventai che dovevo fare dei provini e per fare i provini non c’era
bisogno dell’autorizzazione di nessuno. Andavi lì, ti mettevi nella
prima sala libera con i musicisti che trovavi disponibili e registravi.
Oggi sembra impossibile, ma era davvero così, era molto bello. Con la
scusa dei provini, in realtà cominciai a registrare 'Rimmel'».
Dopo,
fu tutta un’altra storia. Di successi ripetuti, da «Bufalo Bill» a
«Viva l’Italia», dalla «Donna cannone» fino all’ultimo «Per
brevità chiamato Artista ». Ma anche di contestazioni addirittura
feroci e di etichette da lui per nulla gradite: tipo quella di essere
troppo «ermetico». In realtà, pochi sono riusciti a interpretare il
proprio tempo come ha fatto De Gregori. La sua storia, giunta oggi quasi
al traguardo dei 60 anni (li compirà il 4 aprile del 2011), è
diventata la nostra storia. E, un po’, anche la storia di questi
ultimi decenni.
Maurizio Pluda
06 ottobre 2009
«Con Fabrizio ci siamo conosciuti al Folkstudio dove lo portò
una sera mio fratello Luigi e ci trovammo subito simpatici. Tanto che, qualche
tempo dopo, mi invitò da lui in Sardegna, a Portobello di Gallura, per provare a
fare delle cose insieme: “Belìn — lui diceva sembre belìn —, perché non vieni da
me? Devo scrivere e non c’ho idee!”.
“Vengo di corsa”. Non c’era nessuno, era inverno, faceva un
freddo della Madonna. Mi invitò secondo me perché era curioso: gli piaceva
vedere come scrivevano gli altri. E poi, stranamente, era anche un po’ insicuro.
Di me gli interessava il versante angloamericano che lui non conosceva bene
perché si era formato sugli chansonnier francesi. Con me, figuriamoci, si
ubriacò di Dylan. Rimasi quasi un mese a casa sua, facemmo molte canzoni come La
cattiva strada, Oceano, Dolce luna, Canzone per l’estate, Amico fragile, scritta
solo da lui, e Le storie di ieri che avevo scritto io e di cui lui si era
innamorato.
Era un pezzo che doveva già finire nel mio disco precedente,
ma la casa discografica non me la fece mettere, “perché rischi di passare dei
guai” dal momento che parlava di Mussolini.
Fabrizio allora disse “La faccio io!” e la pubblicò nel disco
che venne fuori da quel nostro incontro, Volume 8.
Quando la pubblicai anch’io sul mio album Rimmel si incazzò
pure: “Belìn, me lo potevi dire che la facevi, così non la pubblicavo io!”.
“Ma io non lo sapevo che l’avrei pubblicata!”: venne infatti
sdoganata dalla Rca proprio perché era uscita sul suo disco. Fu un periodo
magico. Lì infatti nacquero anche diverse altre canzoni di Rimmel tra cui
Buonanotte fiorellino. Un giorno gliela faccio ascoltare e Fabrizio: “Belìn
bello questo: è un pezzo che fa soldi!” e ride.
La realtà è che noi stavamo lì per lavorare ma non vedevamo
l’ora di finire per andarci a divertire, quindi lavorammo intensamente, anche se
da parte sua con una certa fatica mentre per me era una cosa giocosa perché ero
già felice solo di essere là con lui, a scrivere e a fare musica. Fabrizio
invece viveva sempre la fase della scrittura con molta ansia: “È bella questa
cosa, che ne dici? È bella?”. “È bellissima!”. “Ah, belìn, non lo so!”.
Andava confortato in questo senso, anche se, naturalmente,
scriveva benissimo. Avevamo un metodo di lavoro strano: non è che stavamo lì a
parlare, a discutere dei testi delle canzoni, le scrivevamo e basta. Qualche
volta non ci incontravamo nemmeno perché anche se io mi svegliavo tardi lui
aveva quasi ribaltato il giorno con la notte.
Molti si chiedono perché non ci sono pezzi di quel periodo
cantati insieme ma l’intento non è mai stato quello: l’idea era di scrivere
testi e fare delle musiche. E così fu».
La Repubblica, 6 gennaio 2019
|
Un ritratto in una fotografia,
simile a quello incorniciato nella copertina del suo disco più noto:
"Rimmel", ovvero il cosmetico per le ciglia. Il racconto ruota
intorno alla parola trucco e a quel ritratto femminile: è un amore,
anzi un matrimonio finito. Dove come sempre colpe e ragioni non sono
mai da una parte soltanto. È la storia di una sconfitta, di una
partita persa malgrado le previsioni, malgrado il vaticinio del
futuro vincente fatta con le carte. Perché quella previsione era il
trucco di uno zingaro. E le carte con i quattro assi dello stesso
colore e il Come Quando Fuori Piove del poker sono l’emblema
dell’azzardo dei sentimenti.
Il ritratto femminile scolpito
tra gli accordi del pianoforte ci consegna una donna che si vuole
dimenticare, da cancellare dal proprio presente perché devastante.
A lui resta quella fotografia dove lei nemmeno lo guarda, anche se
la tiene tra le pagine dei suoi libri, tra le pagine di quella
storia fatta di chiari e di scuri. Un ritratto femminile che parla
del destino, della sfida; quando dopo tanto tempo i due si
rincontrano dopo essersi rifatti una vita e lei gli chiede se
conserva ancora quella foto e lui risponde sì, ce l’ho ancora. "È
tutto quello che puoi avere di me, il mio ritratto che evita il tuo
sguardo". "Rimmel" è una canzone potente, una canzone evocativa
dell’anima come l’ha definita Roberto Vecchioni. È il ritratto della
lealtà di sentimenti compromessi dai trucchi.
Giommaria Monti, autore
di "Francesco De Gregori. Dell'amore e di altre canzoni" per
https://www.rockol.it/news-735724/8-marzo-otto-donne-cantate-da-francesco-de-gregori
Tutto
è perfetto: ironia, sentimento, anticonformismo, poesia, senso storico,
fantasia. Sono presenti tutti gli elementi che saranno oggetto di
attenzione in questo campo per almeno dieci anni. E ciò investe non
solo il piano dei contenuti, ma anche quello musicale. Ci sono le
ballate folk in stile americano (Rimmel, Il Signor Hood, Le storie di
ieri, Buonanotte fiorellino), c'è la melodia italiana (Piccola mela),
ci sono linee armoniche assolutamente inedite (Pezzi di vetro, Quattro
cani, Piano bar). Vi sono tempi in due quarti, in tre quarti, in quattro
quarti, terzinati. Vi è l'uso del contrabbasso al posto del basso
elettrico, e la presenza di ottimi jazzisti, primo tra tutti il maestro
Mario Schiano. Vi è una zampata dell’amico Lucio Dalla che suggerisce
di modificare il risvolto melodico del ritomello di Pablo .
Ci
sono canzoni, nella carriera di un artista, che rimangono per sempre. lo
identificano, lo segnano e lo perseguitano anche. Sono quelle con cui il grande
pubblico lo ha conosciuto, lo ha amato. Succede un po' a tutti: cosa sarebbe un
concerto dei Rolling Stones senza 'Satisfaction', o uno di Bruce Springsteen
senza 'Born to run'? Anche se loro, gli artisti, magari ritengono più
significative altre canzoni.
E' così anche per Francesco De Gregori: Rimmel è la sua "signature
song", come dicono gli americani. ed è
davvero una canzone straordinaria: "la scrissi in due distinti momenti a
distanza di qualche tempo. In una stanza d'albergo di Milano, da solo, scrissi
le strofe stando seduto su un letto. L'inciso incredibilmente venne fuori;
qualche tempo dopo, sempre a Milano mentre aspettavo negli studi della RAI di
porta Carlo
Magno di partecipare a un programma per bambini presentato da Cino Tortorella.
No, non ho mai avuto un rapporto particolarmente difficile con questa canzone.
E' un pezzo musicalmente così aperto e solare che farlo dal vivo non può che
far bene alla scaletta del concerto. E poi piace alla gente, se lo aspettano, lo
vogliono cantare con me. lo non ho niente in contrario, solo che a volte non
andiamo insieme perché l'arrangiamento live non può essere uguale a quello del
disco, sono passati troppi anni ... Lo registrammo in quel clima di
sperimentazione, il clima dei 'provini', per intenderci. Al contrabbasso avevo
portato un giovane jazzista romano, Roberto Della Grotta, che suonò in un modo
tutto suo, irripetibile sul palco. Adesso sarà che sono passati degli anni, ma
Rimmel tende a diventare più rotonda, più dolce, musicalmente vira un po'
verso il country.
E' chiaro che Rimmel è un pezzo di vita vissuta, molte canzoni che canto lo
sono, ma questo importa fino a un certo punto, non è che rifarle sera per sera
faccia diventare la scaletta una seduta di autoanalisi. Le canzoni, soprattutto
se sono buone canzoni, trascendono la biografia di chi le scrive, scavalcano
l'episodio da cui magari sono nate. E' una vita che scrivo e canto canzoni nei
concerti, se ogni sera dovessi calarmi nella situazione che le ha ispirate
sarebbe come girare per il museo delle cere, entrare in una specie di routine
emozionale. Le mie vecchie canzoni mi accompagnano cambiando insieme a me,
assumendo per me sera per sera sfumature e toni diversi. Solo in questo modo
riesco ad avere un rapporto leale con loro, quello di un artista ancora vivo e
non di un restauratore di tabernacoli. E solo così credo di poter avere un
rapporto leale col mio pubblico, con quelli che hanno pagato il biglietto".
C'è anche un fatto musicale, legato al piacere dell'esecuzione. Un fatto che
prescinde dal testo, dalla storia della canzone in sé. Ed è la voglia di
suonare, magari improvvisando le parti qua e là, anche cambiando la linea del
canto perché una volta le note giuste erano quelle e oggi sono queste altre. E
allora? Una canzone la devi cantare per come ti va quella sera, non per come ti
è andato vent'anni prima, quello sarebbe tradire il pubblico. Anche un testo
non è mai archeologia, si può cambiare qualcosa qua e là, aggiungere una
strofa, toglierne un'altra".
Tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della
Sera
grazie a Vito Vita
|
(da
Giorgio Lo Cascio - DE GREGORI - Muzzio Editore)
Ecco Francesco nuovamente in sala di registrazione. Ci sono delle
novità? Vediamo: ha carta bianca, e qui nulla di nuovo. E' il solo
responsabile degli arrangiamenti e della produzione, e questa è una
novità. Le canzoni sono belle, e qui nulla di nuovo. Che altro dire?
Che l'obiettivo è perfettamente a fuoco? Che tutti i pianeti del
sistema solare sono allineati nelle congiunzioni più favorevoli? Che le
sei corde del cuore sono miracolosamente accordate? Sì, forse occorre
dire proprio queste cose.
RIMMEL esce con una copertina molto aggressiva: il volto dolcissimo di
una giovane donna della fine dell'800 incorniciato con carta da parati
decisamente spropositata. Tutto è perfetto: ironia, sentimento,
anticonformismo, poesia, senso storico, fantasia. Sono presenti tutti
gli elementi che saranno oggetto di attenzione in questo campo per
almeno dieci anni. E ciò investe non solo il piano dei contenuti, ma
anche quello musicale. Ci sono le ballate folk in stile americano
(Rimmel, Il Signor Hood, Le storie di ieri, Buonanotte fiorellino), c'è
la melodia italiana (Piccola mela), ci sono linee armoniche
assolutamente inedite (Pezzi di vetro, Quattro cani, Piano bar). Vi sono
tempi in due quarti, in tre quarti, in quattro quarti, terzinati. Vi è
l'uso del contrabbasso al posto del basso elettrico, e la presenza di
ottimi jazzisti, primo tra tutti il maestro Mario Schiano. Vi è una
zampata dell'amico Lucio Dalla che suggerisce di modificare il risvolto
melodico del ritomello di Pablo,
aumentandone il fascino e la presa e meritando con ciò di diventarne
coautore. Non aveva alcuna possibilità di fallire, non poteva evitare
di diventare ciò che è diventato: una costruzione concreta, cresciuta
fino a essere osservabile da grandi distanze e fino a costituirsi come
punto di riferimento. Ben diversa da quelle splendenti esplosioni di
gioia che illuminano per un attimo la nostra coscienza e poi svaniscono
poiché abbiamo altro da osservare, altro da ascoltare. Che eloquenza,
non è vero? Il disco ebbe una vendita in continua crescita, fino a
diventare un best seller, e continuò a tenere il mercato per molto
tempo. In termini di marketing si può dire che non ebbe una dinamica a
picco bensì una parabola molto allungata (fenomeno rarissimo nel campo
della discografia). Con questo disco Francesco abbandonò
definitivamente il mondo dell'adolescenza ed entrò nel mondo adulto,
dove ogni cosa è maledettamente seria.
Dunque, RIMMEL era defìnitivamente decollato e volava alto nei limpidi
cieli del nostro Paese. I discografici, chiusi nelle loro grandi
gelaterie di lampone che fumavano lente, si stropicciavano le mani e
facevano tintinnare i bicchieri; i colleghi sconcertati da questo nuovo
fenomeno si interrogavano perplessi, il pubblico si gonfiava come
un'onda d'acqua limpida, Francesco faceva il suo ingresso ufficiale
nell'incrocio dei venti. Essendo finalmente in condizione di provvedere
da solo ai propri bisogni, Francesco prese in affìtto un piccolo
appartamento nella Trastevere più antica e più incontaminata: in via
del Mattonato, accanto a falegnami, rimesse per le carrozzelle,
importatori in proprio di sigarette, osterie.
La via era una traversa di via Garibaldi e si affacciava proprio sul
vecchio locale ove risiedeva il Folkstudio prima di essere costretto a
cambiare sede a causa di un sordido tradimento e che, incapace di
ritrovare l'anima che gli era stata sottratta, cambiava continuamente
proprietario e destinazione. Era proprio un appartamentino da single:
tre piccole stanze, una cucina a vetri scavata su un balconcino interno,
moquette scura nella stanza da letto, antichi pavimenti a piastrelle
esagonali, di quei pavimenti elastici che senti ondeggiare lievemente
sotto i piedi quando cammini.
Francesco vi trasferì subito le sue poche cose: l'impianto stereo e i
dischi, un tavolo con i cavalletti, un letto. Poi acquistò i rimanenti
oggetti indispensabili e vi si installò immediatamente, abbandonando
per sempre il tetto patemo, dove i suoi genitori rimasero soli a
considerare con affetto e con grandissima preoccupazione il loro secondo
figlio che affrontava da solo il mondo armato, di un'effìmera chitarra,
anzichè del potente scudo della laurea, come invece avrebbero
desiderato.
|
Piano bar è una
canzone che deve molto a Elton John ascoltavo anche Lou Reed, gli Stones,
c'erano i gruppi rock come i Led Zeppelin.
C'era il Rod Stewart di 'Every
picture tells a story'.
Non credo che sia importante sapere esattamente a
chi è dedicata una canzone, è come quando i Beatles fanno 'Lucy in the sky
with diamonds" e ci sono schiere di diciottenni che dicono "vedi, è
L.S.D."; può essere, non essere, che ti frega, 'Lucy in the sky" è
lì, è bella o brutta indipendentemente dai suoi significati puntuali, precisi,
mi fa paura insomma vedere le cose così.
|
Prima
cosa: l'ascolto totale. Si deve sempre partire dal tutto per scendere
alle parti, si deve cioè recepire la forma totale dell'opera (gestalt)
e ascoltare dentro di noi la sensazione finale, generale che ci dà
senza preoccuparci di capire o tradurre.
In Rimmel questa forma ci è data dall'incalzare "country" di
armonie e melodia, melodia di una semplicità schematica disarmante,
primaria, tendente a non disturbare la narrazione. Questa forma ci è
data da picchi di immagini apparentemente slegati: ci troviamo storditi
e meravigliati, senza un punto d'appoggio: non riusciamo ad associare
direttamente e subito quel che ascoltiamo a quel che abbiamo visto e
siamo. Ma sentiamo una tensione dilagante in tutta la canzone,
avvertiamo che i veli e le maschere sottintendono di più di una
semplice storia d'amore. Questa forma non ci spara niente addosso di
immediatamente masticabile, niente che non siano stimoli o curiosità, o
stato febbrile d'attesa, o persino voglia di lasciarsi andare tra i
versi senz'altro voler sapere, perché la sensazione generale è così
intensa che basta da sola.
È un po' come lasciarsi portare dal mare senza chiedersi che mare sia,
se sia veramente mare, se ci sia una riva da qualche parte o no.
Poi, lentamente emergono come da un naufragio dei relitti, dei pezzi
d'immagine, delle parole. Soprattutto quelle che lì non dovrebbero mai
esserci, non han ragione di starci: QUATTRO ASSI DI UN COLORE SOLO -
COLLO DI PELLICCIA - SPEDIRE LE LABBRA - etc.
Se teniamo gli occhi ben chiusi, il quadro tende ad assumere una sua
illogica logicità. I frammenti colti ci danno la misura di un dolore
contenuto, mascherato, di una passione espressa in centimetri, mai
sollecitata, mai magnificata, antiretorica.
È sì certamente una storia d'amore ma non abbiamo il luogo, non
conosciamo i protagonisti, non sappiamo il motivo, non percepiamo la
quantità del dolore. Eh, si perché di un addio si parla: questa è
l'unica cosa chiara. Rileggiamo, riascoltiamo.
Ancora non ci interessano i particolari; ci affascinano ma non ce le
spieghiamo tutte quelle metafore: eppure cogliamo il cuore
dell'esternazione, una rassegnazione apparente, un voler nascondersi, un
senso di sconfitta legata alle cose della vita più che alle colpe di
qualcuno, una capacità straordinaria di ricordare a salti, a sbalzi,
senza fermarsi e crogiolarsi su un unico quadro e scenario, quasi
bruciassero a raccontarli troppo a lungo: tocca e fuggi. E al fondo un
po' di cinismo amaro, nessuna traccia di autoconsolazione a cui siamo
fin troppo abituati; in fondo gli errori e gli sbagli come occasioni
perse, ma perse e basta, inutile rivangare. Non c'è un "Ti
amo", un "Ti ho amato", non c'è una stella, una luna,
una lacrima, non esiste una concessione al sentimentalismo, perché
tutto questo mischiarsi senza tempo di ricordi è di per sé stesso
sentimento latente, sotterraneo, stretto all'intenzione, inespresso, ma
chiarissimo. È una cronaca. De Gregori ci dà l'essenziale
impersonandolo in oggetti e posti, situazioni e cambi di campo che sono
l'equivalente delle confessioni che non fa in modo diretto, per non
delimitare la cronaca facendola storia letta e consumata.
Ecco, questo ci basta perché questo trascende personaggi, motivi,
dolore. Si è sempre in due a lasciarsi in fondo e sempre gli stessi
sono i motivi, inutile descriverli. Questo ci basta per capire che
grande canzone evocativa dell'anima, leggibile a tutti i livelli abbiamo
davanti. La transmedialità è lampante. Il conflitto tra termini e
versi provoca un nugolo di BISOCIAZIONI che vanno oltre il già detto,
il già sentito. Sta a noi , sta a chi ascolta congiungere i poli dei
due contingui significanti. Ma la tensione che proviamo nel non
riuscirci del tutto razionalmente è molto più di capire è
"sentire" in "toto" il nugolo di stimoli che ha
portato l'autore a costruire quella e non altra BISOCIAZIONE, perché
là dentro c'è molto di più di un significato solo: ci sono
riferimenti (links) alla sua vita personale che si acculìmulano in un
verso,e quelli non potremo mai scoprirli ma, per il miracolo della
creatività, sentiamo che comunque quei riferimenti sono o potrebbero
anche appartenere a noi: riconosciamo nostra quell'universalità del
sentire umano che non si può ridurre a un behavior (comportamentismo)
di stimolo-risposta di un solo tipo, ma implica passaggi e fughe e
ritorni di molti tipi. Non serve nient'altro, ho detto. Rimmel come
tante altre canzoni di De Gregori canta per quell'emozione misteriosa
generalizzata che ci coglie in pieno.
Non serve altro ma altro c'è, perché comunque il lessico, lo stile non
sono un bluff.
L'incipit è il solito:dar per scontato che si è detto qualcosa prima,
ed entrare nella storia quando è già cominciata.
QUALCOSA RIMANE, non tutto, non una disperazione eterna o piagnistei
simili, "qualcosa", un tratto intravisto a momenti, un segno
che comunque non ti levi di dosso.
E la vita di tutti i giorni che è fatta di gioie e di dolori (METAFORA
DA CANZONE NON DA POESIA) scorre, va per i fatti suoi. Come lui stesso
fosse un negozio, una grande casa di idee da regalare e da vendere, De
Gregori cambia insegna al portone: il motivo del distacco è espresso in
un lampo: "Io accampavo scuse, fuggivo, tu avevi ragione. Ma senza
autoflagellazione, senza masochismo, buttato là come un dato di fatto.
Ammirato da tutti, coccolato, convinto di essere un vincente, si accorge
che gli affetti e gli amici ingannano spesso in buona fede. Nello
ZINGARO c'è una morfologia tutta degregoriana: questo ciarlatano che è
poi il destino lo ha illuso per "mazzoliarlo" al momento
giusto promettendogli un FUTURO INVADENTE che a lui così riservato e
nemico del chiasso e della notorietà non doveva nemmeno star tanto
bene. Zingaro e futuro non è stato capace di contenerli ed è perfetto
che dia colpa all'età (che età fisica non è, ma atteggiamento di
libertà infantile).
In
sei versi ha scritto la sua infanzia, l'impatto col successo, ha
accennato, solo accennato al grande amore. La sintesi è perfetta. Poi
arriva il presente : lei non c'è, è una sineddoche (le labbra),
l'altro uomo non c'è, è ancora una sineddoche (indirizzo nuovo), lui,
Francesco, anche lui è una sineddoche (la mia faccia), ma si permette
dopo la vaga confessione di colpa dei primi versi di tirarle una sottile
stilettata: hai barato parecchio con me ("quattro assi di un colore
solo") e le carte di colpo diventan persone, perché questo era il
senso, perché lei non bara solo con le carte, ma con gli uomini, coi
sentimenti.
Il finale è un film tra Renoir e Casablanca. Lui la ricorda truccata
(ma il "rimmel" è anche quello che cola col pianto)
introducendo il colpo di genio dell'attimo dell'addio con un botta e
risposta di una sintesi allucinante ma più espressivo di tutto un
romanzo.
Lei domanda "hai ancora quella mia foto?", Glielo domanda
mentre sono fuori e il vento sta lì a far capire che niente è come
prima, che qualcosa drammaticamente si muove. E si muove su di lei che
non è più un amore ma una "persona", un corpo, una fisicità
qualunque sulla strada: si muove su di lei che è un'ultima annoiata
sineddoche ("collo di pelliccia").
Lui non capisce il senso della domanda o forse sì ne ha un certo
sentore e risponde senza pensarci "Si, ho ancora quella foto".
"Bene, tientela, perché da oggi in poi è l'unica cosa che ti
resta di me". È un addio asettico, tagliente, spietato, comico,
diretto, impietoso, originalissimo tutt'insieme. Mai nella canzone
italiana si era vista una descrizione simile di un abbandono: non una
lacrima, una carezza, un gesto, una spiegazione, un moto di rabbia, un
senso di compassione, un ultimo ricordo. Niente. E nemmeno una
confessione diretta; nessun "ti lascio", nessun "è
finita". Solo quell'improvviso tragicomico giro di parole per non
infierire (ma sarà vero poi?), più secco di qualsiasi no.
Questo colpo di genio narrativo, e altri, altri ancora, sono alla base
di tutto il rinnovamento comunicativo nonché lessicale di De Gregori,
di cui parleremo ancora. E non sono semplicemente una "veste",
una "forma" come abbiamo detto già, ma una parte integrante
del messaggio dell'esternazione; non solo un "modo", ma anche
"il corpo", la "sostanza", a volte il contenuto
stesso. E nonostante ciò non smetterò mai di ripetere che
un'operazione capillare sul significato dei simboli e delle metafore
delle sue canzoni è un lavoro perfino inutile. Quello che conta è
"sentire" la forza delle evocazioni e goderne la bellezza,
l'opportunità, la collocazione. Quello che conta è lasciarsi prendere,
sempre, dalla totalità della canzone, perché smembrarla in parti come
abbiamo testè fatto può essere un esercizio interessante ma non
aggiunge niente alla bellezza della canzone. E a volte è persino (come
detto) impossibile, perché tante e tali sono le alternative che
bisognerebbe avere una stanza nella sua testa e nella sua memoria per
capirle.
"Rimmel" (l'album, tutto l'album) è stato un giro di boa per
tutta la letteratura in canzone, una vera rivoluzione copernicana, una
esplorazione mediale e transmediale che non ha quasi pari nella storia
recente della canzone (se si eccettua, in altro modo, Vasco).
Ma Rimmel è già un'opera, per così dire, matura, successiva. Come è
giunto, per che gradi, con quale esperienza F. De Gregori ad un
linguaggio, ad una narratività, ad uno stile così esclusivo e
scatenante? Che storia c'è alle spalle di Rimmel? Da dove è partito
tutto? (Roberto Vecchioni) |
«Amo i cani, specialmente i
randagi, sono rimasto sempre affascinato dai loro comportamenti
misteriosi. Perché rifiutarsi di credere che io abbia davvero
dedicato una canzone a quattro cani?». Detto da De Gregori, il
creatore, c'è ovviamente da crederci, anche se i suoi ermeneuti
cercano da quasi mezzo secolo di appiccicare un nome a ognuna delle
bestiole. “Il primo è un cane di guerra... vive addosso ai muri e
non parla mai”, “il secondo è un bastardo che conosce la fame... ed
il piede dell'uomo e la strada”, “il terzo è una cagna... e semina i
figli nel mondo”, “il quarto ha un padrone... ogni tanto si ferma ad
annusare la vita”. Francesco si diverte, e un po' si incazza, a
leggere sulle medagliette assegnate per procura rispettivamente i
nomi suo, di Venditti, di Patty Pravo e Lilli Greco. «Queste
interpretazioni sono apparse in Internet su blog gestiti da persone
che dicono di essere miei fan ma sono solo talebani che inventano
storie assurde e complicatissime dietro la semplicità delle
canzoni».
|
C'è un verso bellissimo di Enrico Ruggeri che dice: "punti invisibili
rincorsi dai cani', nella canzone 'il mare d'inverno'. E' come se i cani
andassero decisi verso qualcosa che non esiste. Ti domandi cosa passi per il
loro cervello".
Nell'arpeggio di Quattro cani è presente quella bella calligrafia musicale
tipica di certe cose che faceva Donovan con la chitarra acustica e questo lo
devo sicuramente alla presenza in studio di Renzo Zenobi, che di Donovan era
un grande ammiratore.
ulla fiducia dell'autore possiamo quindi rilassarci nella
gentilezza melodica di questo tributo al migliore amico dell'uomo,
spesso senza il viceversa, con piccole invenzioni di Lucio Dalla con
battimani e ululati, ma senza disturbare: “Quattro cani per strada e
la strada è già piazza e la sera è già notte, se ci fosse la luna,
se ci fosse la luna si potrebbe cantare”. De Gregori dimostra una
sensibilità particolare verso i cani, l'ultimo amore è Jose
«femmina, conosce la mia vita e sa che sono sempre in viaggio». Nel
2000 compone le parole di “Tobia”, commovente brano di Zucchero che
conclude “Shake”: «De Gregori ha avuto l'idea geniale di una storia
vista dagli occhi del cane che non sa ritrovare la strada di casa a
causa dei perduti odori». Prima ci sono stati “El can de Trieste”
(1968) di Lelio Luttazzi che fa le feste “solo davanti a un fiasco
de vin”, “Escluso il cane” (1977) di Rino Gaetano, unico conforto
dopo un amore finito e “Il pelo sul cuore” (2000) di Renato Zero:
“Quanti padroni perdonerai per non lasciarti là dove sei”. E riecco
Venditti con l'incipit di “Dimmelo tu cos'è” (1982): “Il nostro cane
non mi riconosce più...”. Quando il suo nuovo «amico» Alighiero nel
2016 si spegne, Antonello posta su Facebook una foto insieme con la
scritta: «17 anni di amore, rispetto e tanta musica vissuta insieme
come fratelli», relazione sicuramente più serena e longeva rispetto
a quella con l'ex partner di debutto Francesco, che ha già calato il
suo poker, con “quattro gatti moschettieri verso la libertà”,
peccato di gioventù opportunamente soppresso.
Tratto da
"Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera
|
Adoro i cani e il brano
esprime il mio amore per gli animali... anche se mia madre non me li faceva
tenere: un pelo un giro sarebbe stata una tragedia! Appena ho potuto ne ho preso
uno… mi dà un senso di famiglia.
Ma mi piacciono anche i
cani che trovo per strada…A volte sono una compagnia migliore degli umani, anche
perché non parlano. Nei loro occhi vedi quello che vuoi: sei al riparo dalle
delusioni.
Francesco De Gregori
(intervista di G. Pianetta,
2003)
La graphic novel ‘Figli del mondo’ è un tributo all’universo
dei cani, tanto presenti nei brani del cantautore romano quanto al centro
dell’impegno di LNDC Animal Protection. L’opera, che cita 20 brani di De Gregori
ed è tributo ai suoi 70 anni compiuti proprio ad aprile, ci porta nell’anima di
uno dei legami più forti della nostra vita, quello con i nostri fedeli amici
cani, parlando di libertà, lotta e poesia, ma anche ingiustizie e riscatti. Da
oggi è visibile e scaricabile gratuitamente sul sito dell’associazione.
Milano, 21 aprile 2021 – Una graphic novel che omaggia i
cani, tanto presenti nei brani di Francesco De Gregori quanto al centro
dell’impegno di LNDC Animal Protection. Si chiama ‘Figli del mondo’ e da oggi è
visibile e scaricabile gratuitamente.
Sono venti i brani del cantautore romano che, ripresi
attraverso citazioni e immagini, raccontano il profondo intreccio d’amore, e di
silenziosa comprensione, capace di creare non solo legami tanto intensi quanto
indissolubili, ma anche momenti di intimità unici, come quelli che segnano il
cammino delle grandi amicizie della vita. Il rapporto tra l’uomo e il cane,
quindi, può ed è tutto questo, sia nelle canzoni di De Gregori sia nelle
attività giornaliere di LNDC Animal Protection, degli oltre 3mila volontari e di
tutto il team dell’associazione che strenuamente
lavora per portare questi preziosi compagni di vita ad essere rispettati,
protetti, riconosciuti, amati, ma anche spesso salvati da morte certa. La lotta
per la vita e l’amore che ne scaturisce, infatti, è
l’altro tema al centro dell’opera, densa anche di momenti poetici e riflessivi
nei quali uomo e animale viaggiano senza ombra di dubbio sulla stessa strada,
dentro un orizzonte comune.
Da ‘Quattro cani’ fino a ‘Due Zingari e ‘Sempre per sempre’
le immagini di questa amicizia scorrono nelle pagine della graphic novel scritta
e voluta da Michele Pezone, responsabile diritti animali LNDC Animal Protection
che, con questo lavoro, ha voluto togliersi le vesti di avvocato a difesa degli
animali per indossare quelle, decisamente più romantiche, di uomo in
osservazione della vita. “La storia raccontata”, spiega Pezone, “è stata
illustrata dal mio caro amico Francesco Di Gregorio e Francesco Colafella,
valorizzata poi dal progetto grafico di Silvia Paglione. Vuole essere un omaggio
da parte di LNDC, oltre che mio, a De Gregori per ringraziarlo di tutto quello
che, senza saperlo, è stato per me e per tutte le persone che nei suoi brani
hanno ritrovato e nutrito tante parti preziose di sé. E che continueranno a
farlo, perché parole e musica non sbiadiscono, come la luce dell’antica e
intramontabile amicizia che lega uomini e animali”.
nella foto di Daniele Barraco, Francesco De Gregori
con il suo Billo.
L'uomo che inventò i cantautori.
Ecco come Ennio Melis, compianto direttore della Rca italiana, ricordava i tempi pionieristici della discografia
Con la scomparsa in febbraio di Ennio Melis, è venuto a mancare il più
illuminato dei discografici-artigiani. A lungo direttore della Rca italiana, in
questa intervista del 2002 racconta la storia della sua vita e dell'etichetta
discografica che fu casa di De Gregori, Battisti, Morandi, Zero, Venditti e
Baglioni.
"Durante un'udienza col Papa (Pio XII, ndr) il capo della Rca americana,
che era un cattolico e si chiamava Fonshon, chiese che cosa poteva fare per
Roma. Il Papa, memore del bombardamento di San Lorenzo, disse: mettete una
fabbrica lì nella zona della Tiburtina. Fino ad allora i dischi venivano
prodotti e distribuiti dalla Voce del Padrone. Lui impose questa destinazione
contro il volere di tutti gli uomini della del Rca, che dicevano che solo Milano
è la città della musica. Ci furono molte difficoltà da parte degli americani
che non vedevano bene questa cosa. Nel '54 io ero il segretario laico più
vicino al Papa. Andai a visitare la fabbrica in rappresentanza di questo signore
che lavorava in Vaticano, il conte ingegnere Enrico Pietro Galeazzi. Giudicai la
cosa attraente, potenzialmente forte, e questo signore mi disse: ci provi lei,
guardi se si può fare qualcosa. Chiusi quasi tutti gli uffici e portai tutto
nella fabbrica per ridurre le spese. Diventai ufficialmente segretario della
società il 1° aprile del '56. Abbiamo avuto anche fortuna, ci hanno aiutato i
successi di Belafonte e Presley".
Gli americani facevano pressioni.
Erano i padrini. Ma la cosa è iniziata a camminare quando io invece ho
intrapreso l'operazione del catalogo italiano con i primi Quattro Moschettieri:
Fidenco, Meccia, Fontana, Vianello. Iniziarono ad arrivare soldi, e poi
arrivarono Morandi, Paolone (Paoli), la scuola romana e tutti i cantautori
italiani che sono passati di qua.
Il suo rapporto personale con i musicisti?
Perfetto. Ho sempre voluto bene agli artisti e ai musicisti e credo che anche
loro mi abbiano voluto bene perché li ho aiutati sempre.
Ricorda un artista in particolare che non ha avuto il successo che meritava?
Renzo Zenobi, uno dei miei favoriti. Ha fatto 10 lp. Uno con Morricone glielo
l'ho fatto fare, addirittura.
Ebbe mai pressioni politiche dall'alto per fare registrare qualche artista?
Mai. No, un momento: le raccomandazioni arrivarono, ma non servivano a vendere i
dischi. Erano inutili.
Che rapporto ha avuto con la censura?
La censura era in Rai. Per mandare Lucio Dalla a Sanremo con "4 marzo
1943" ho dovuto passare ore al telefono col direttore della rete che era
Salvi, il quale era a contatto col direttore generale della Rai Bernabei: lì
c'era il problema della Madonna, di Gesù Cristo…
Quali le differenze sostanziali tra la Rca degli anni 60, dei 70 e degli 80?
Non ne vedo. Fino a quando ci sono stato io è stata una cosa abbastanza
omogenea che ha camminato con il progresso dei tempi, con la esigenza di far
fronte a un mercato che cambiava.
Cosa pensa delle multinazionali di oggi?
Sono diventate ancora più dure di quello che erano allora. Chiedono risultati a
breve termine, quindi non favorisce gli investimenti a lungo termine su un
artista. Io dico sempre che Dalla prima che prendesse veramente dei soldi gli ci
sono voluti venti anni, Renato Zero quindici, gli altri dieci, otto, sei... e io
questa cosa la facevo contro il parere degli uffici amministrativi americani che
avevano delle regole, però grazie sempre a quella mia posizione fortunata che
è alla base di tutto il successo del Rca: me ne fregavo e andavo avanti.
Naturalmente mi permettevo tutto, non solo per le raccomandazioni, diciamo, in
alto loco ma perché producevo tanti soldi, io, in prima persona, con il lavoro
creativo.
C'è chi dice che dopo lei, Rignano e Sugar, è finita l'epoca dei dirigenti
illuminati
Anche le epoche sono cambiate. Il male in tutto questo discorso è che, ormai,
in Italia è rimasta Caterina Caselli ad essere autonoma, per il resto siamo in
mano a burocrati stranieri che vogliono comandare loro, perché sono loro che
investono e che rispondono dei risultati. Alessio Colosi ed Ernesto de Pascale -
Trascrizione di Laura Mauric
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De Gregori non è
nobel, è rimmel - di Giaime Pintor (1975)
S'impone un'autocritica e delle scuse: terminando il mio
articolo sullo scorso numero (di Muzak N.d.R.) ho paragonato De
Gregori, cantautore romano, con Eugenio Montale, poeta-senatore.
Ora è vero che Montale ha vinto il Nobel e che tale premio è
paragonabile, per le soddisfazioni morali e materiali, alla
vendita di mezzo milione di copie di un disco, ma questo non basta
a un paragone che regga. Autocritica dunque per la facile battuta.
E scuse al poeta-senatore-nobel e non al cantante-romano-rimmel.
Rimmel è l'ultimo disco di De Gregori, e certamente il più
venduto e più apprezzato dal pubblico. Di questo disco mi
occuperò, disco che mi sembra può essere
considerato il
manifesto della poetica anni '60 impreziosita da alcuni
arrangiamenti barocchi e barocchetti con un occhio al rock morbido
della quarta generazione inglese (Elton John e fratelli) e
qualcosa d'altro (folklorismo da banane in testa, Dylan e Cohen
guardati con occhio miope quasi cieco, De Andrè incoerente, Gian
Pieretti, Gianni Meccia e persino Nico fidenco…), e su questo
tessuto povero-povero egli appoggia pesantemente testi in cui la
metafora ermetica campeggia vittoriosa nei suoi vestiti più
kitsch.Non dirò altro sulla musica, anche perché sono snob e le
canzonette non mi sono mai piaciute. Più interessante è invece
un'analisi un po' più attenta dei testi e dell'orizzonte
"culturale" nel quale il canto degregoriano si muove. In
Rimmel la metafora è presa a sé, non collocata all'interno di un
discorso "logico", così come teorizza l'ermetismo
pre-bellico, da Ungaretti a Quasimodo: vorrei dire, anzi, che i
nessi logici sono evitati in toto, fino ad arrivare alla
contraddizione fra alcune metafore più leggibili di altre. Così
in Rimmel, la prima canzone del disco, sembra di leggere le storia
tipica delle canzonette di un amore finito. E mentre lui cancella
"il tuo nome dalla mia facciata", lei è espressamente
autorizzata a "spedire le sue labbra a nuovo indirizzo"
(cioè, si evince, ad andare con un altro uomo, a soffrire i suoi
baci, "le labbra", ad altri) e, subito dopo, a
"sovrapporre la faccia a quella di chissà chi altro"
(cioè a baciare quell'altro continuando a pensare a
"lui"). Se il nesso logico, fra la " spedizione
delle labbra" e la "sovrapposizione della faccia"
è questo che abbiamo interpretato, allora salta tutta la
interpretazione della canzonetta come "amore finito". E
invece no, perché tra metafore incomprensibili, c'è una storia
di una fotografia zeppa di particolari (sorridevi e non guardavi,
il vento che ti passava nel collo di volpe ecc.)che lei dice
essere l'unica cosa che lui possiede di lei stessa, dunque amore
finito, almeno sembra. La metafora dunque è puro gioco delle
parole, dunque non più metafora né, tantomeno, allegoria, ma in
qualche modo evocazione, intuizione lirica, , suono che in qualche
modo rimanda: e quasi sempre rimanda ad amori sofferti, ma non
sempre. E' indubbio infatti che c'è un tentativo di introdurre
concetti politici o comunque spaccati di vita non esaurita nelle
stanche storie d'amore. E qui (in questo senso fa testo la canzone
Pablo) c'è un'evidente contraddizione (doppia, fra l'altro) fra
ermetismo e pratica, fra teoria dell'evocazione senza storia
(propria della corrente ermetica) e riferimenti storico-concreti.
Noi non siamo per il realismo, ma non è un caso da sottovalutare
(senza cadere nel peggior crocianerismo) che la fortuna
dell'ermetismo dati anni '30-'40, e cioè si collochi
programmaticamente come isolamento dal fascismo, isolamento
nell'attività pubblica e nella poesia come risposta "privatistica"
alla retorica mussoliniana. Ma doppia contraddizione perché una
poetica ermetica, dell'intuizione lirica, è una poetica
tendenzialmente idealista, dunque di destra, arretrata negli anni
'70, dunque incapace di rispecchiare tensioni, di farsi portatrici
di valori positivi e rivoluzionari. [….]Pablo, abbiamo detto: è
una canzone che narrala storia di un emigrante spagnolo in
Svizzera che muore sul lavoro (sembra di capire) "caduto per
caso" (ma dovrebbe esserci ironia, spero) con il ritornello
finale "hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo". Un
elemento è soprattutto irritante in questa che dovrebbe essere la
canzone più lontana dall'ottimismo decadentista del resto del
disco: ed è l'esotismo e il tono pastorellesco e laudatore del
buon tempo andato del testo. Infatti questo Pablo vive in una
Spagna tutta sua, in cui la moglie ingrassata che lui tradisce in
Svizzera (e vorrei anche vedere che si mantenesse casto) e un
gallo da combattimento in latteria. Una Spagna tutta inventata o
quasi, di maniera: da chi ha nei suoi dubbi riferimenti e
orecchiamenti culturali Garcia Lorca, ci si potrebbe aspettare di
meglio. E' evidente, peraltro, che l'evocazione (e la presunzione
di far poesia) faccia scivolare il canto degregoriano kitsch in
cui non tanto Gozzano è presente, quanto i baci Perugina. Chi
osasse citare il decadentismo italiano, peggio quello francese,
l'ermetismo o Lorca o persino Dylan nel caso di Buonanotte
fiorellino o di Piccola mela, commetterebbe un flagrante reato di
lesa cultura. E nemmeno Prèvert, sebbene sia il più vicino a
queste melensaggini, può essere un riferimento citato senza
ridere. Né, per altro, frasi del tipo "buonanotte fra il
telefono e il cielo" possono indurre a pensare di essere al
di là della peggiore canzonetta all'italiana. Per di più in
questa canzone il modo stesso di cantare si trasforma in uno
zuccheroso bisbiglio da cantante confidenzial-lezioso francamente
insopportabile, che sbanca chiunque parli di sottile ironia. Anche
qui, a parte il senso totale che è quello di una canzonetta
d'amore, non mancano le metafore evocative senza nessi logici, e
così c'è pure un raggio di sole, che stride e con la notte di
cui alla buonanotte, sia con il tono tutto sommato dimesso di
tutta la canzone: una metafora volontariamente priva di
contestualizzazione e per di più messa tanto per fare, quasi per
calcolo statico. Così come non è tollerabile una frase come
"i tuoi fianchi di neve" di pavesiana memoria (le
colline come i seni delle donne) ma di più stretta matrice Liala.
Se tanto spazio ho dedicato a De Gregori (e ancora un po' me ne
prendo) non è solo per essere lui il caposcuola indiscusso di
tutta la
corrente di cantautori ermetici (e il migliore, fra
l'altro, se escludiamo Guccini, che fa scuola a sé), ma perché
il suo successo di pubblico impone qualche riflessione importante.
E' indubbio, prima di tutto, che la canzonetta, proprio per il suo
carattere melodico-fischiettabile , abbia un valore grosso nella
cultura di massa: e per la sua riconoscibilità (da non
sottovalutare in periodi di crisi d'identità culturale) e per il
suo valore di socializzazione (e risposta, nei modelli culturali
di facile acquisizione, alla disgregazione). Ma questo non spiega
ancora il successo che De Gregori ha preso un pubblico tutto
sommato intelligente, giovane e di sinistra. Non lo spiega se non
con un riferimento doppio: il liceo e Dylan. La pseudo-cultura
liceale ha un peso specifico e assoluto enorme nelle canzoni di De
Gregori, vorrei dire che egli la riassume sprofondandola dei suoi
contenuti per offrirla come pura metodologia dell'approssimazione
e della cialtronaggine. Il professore di italiano che fa scrivere
agli alunni su un quaderno le "frasi più belle di
Dante" (esiste, esiste anche questo), la professoressa di
filosofia che fa imparare a memoria la definizione di sostanza di
Spinoza ("per substantìa intellego id quod est ecc")
sono i sacerdoti di una cultura inesistente che vive solo grazie a
un'erudizione appiccicaticcia e all'ideologia della cialtronaggine:
come imparare (dalla filosofia, per esempio) a non dire nulla
chiacchierando, non capire e fregarsene, non allargare al di là e
al di fuori di libri e bignamini l'orizzonte della propria
cultura. Questo è nelle canzoni di De Gregori (che poi potrebbe
essere la persona più colta del mondo, ma questa è l'operazione
delle sue canzoni), questo egli trasmette, questo sono abituati da
anni a considerare poesia gli studenti: poche evocazioni senza né
capo né coda, qualche ammiccamento qua e là a un riferimento
universale. (uno dei più squallidi epigoni di De Gregori, tal
Venditti, arriva persino a questo osceno concetto in una sua
canzone "la Divina Commedia che diventa sempre più
commedia"!) Su questo orizzonte di sottocultura spicciola e
programmatica, si inserisce Dylan e la poesia psichedelica. Il
primo, con le sue ben più robuste volgarizzazioni di Eliot e
Dylan Thomas, la seconda con la teoria mai troppa esecrata delle
"libere associazioni", versione ammodernata, di massa,
impoetica e incolta dei "mauditis" francesi (ogni
paragone continua ad essere lesa cultura). In questo calderone ha
buon gioco, se ben spinto dalla sua Casa discografica, Francesco
De Gregori a diventare un idolo di massa, nonostante qualcuno
abbia già cominciato a maltrattando cercando per lui lo slogan,
non metaforico, ma indubbiamente evocativo, "Francesco De
Gregori, mo' te tirano li pomodori!".
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Winterlude,
Winterlude, oh darlin'………,
le note della vecchia canzone di Bob Dylan si spargono gentili nell'aria dello
studio nell'abitazione di Francesco De Gregori. A cantarla,
accarezzando una
vecchia Gibson J50, è proprio lui, il cantautore romano.
"vedi?" dice come un insegnante davanti ai suoi alunni. "in
questo punto Dylan mette un accordo di settima, mentre buonanotte fiorellino
passa da minore a maggiore ... ma certo non è l'unica differenza, tutta la
melodia è diversa. Però è vero, una volta ho detto che Buonanotte fiorellino
l'avevo copiata da Winterlude, ma era un po' una provocazione, era un pezzo
minore del repertorio di Dylan che mi piaceva molto e sicuramente per l'attacco
gli devo qualcosa, ma del resto io non ho mai teorizzato l'originalità a tutti
i costi.
Ero perfettamente consapevole che Buonanotte fiorellino era una canzone un po'
zuccherosa, se non altro in superficie. L'ho scritta apposta così.
Certo, sembrò strano a molti, e per alcuni fu imperdonabile, che nello stesso
disco ci fossero due pezzi così diversi fra loro come Pablo e Buonanotte
fiorellino. Probabilmente perché questo non rientrava nel loro schema del
cantautore impegnato. Come dire ... sì, puoi anche scrivere canzoni d'amore,
però che siano almeno come Rimmel. .. non queste sdolcinatezze, non
'buonanotte, buonanotte amore mio ... '. erano i tempi in cui si diceva "il
privato è politico" e forse questa canzone era troppo intima, non era
abbastanza politicamente corretta. Invece mi era piaciuto proprio riportare il
linguaggio dell'amore a quello che a volte può essere: filastrocca, parole
leggere, tenerezza, infanzia di ritorno".
Ma siamo sicuri che buonanotte fiorellino sia proprio tutta questa saccarina? A
leggerne il testo senza pregiudizi, potrebbe suggerire anche un altro scenario,
molto meno tranquillo: "Nonostante certe parole e il ritmo un po' da ninna
nanna, Fiorellino è pur sempre la canzone di un amore finito, come Rimmel del
resto. E tutti gli addii sono una perdita, una sconfitta, anelli che rimangono
sulla spiaggia, stagioni che finiscono. E anche in questa storia niente sembra
risolto, niente viene perdonato. Mi piaceva proprio questo contrasto fra la
forma e il contenuto. Oggi ogni tanto trovo qualcuno che mi dice "lo sai
che la usavo per addormentare mio figlio?" e penso che magari è la stessa
persona che aveva storto il naso dopo averla ascoltata la prima volta perché la
trovava troppo leggera. E in tutti e due i casi non aveva capito niente".
Peraltro, Buonanotte fiorellino ebbe una anteprima di non poco conto: "la
scrissi in Sardegna mentre lavoravo con Fabrizio De André per il suo disco
Volume VIII. Gliela feci ascoltare e a lui piacque molto. disse, chissà
perché, che sarebbe piaciuta a Paolo Villaggio.
Tratto da
"Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera
Francesco De Gregori,
questa non è
un'intervista:
"Perché ho 'dylaniato'
'Buonanotte
fiorellino'"
di Luca Valtorta - La Repubblica 5
febbraio 2017
Tutti conoscono De Gregori per le parole delle sue
canzoni ma lui, che ha appena pubblicato un nuovo album live, 'Sotto il
vulcano', spiega perché invece una canzone non deve mai essere uguale a
se stessa."Ho fatto 'Buonanotte fiorellino' in mille modi: con il
violino, senza e adesso la faccio dichiaratamente in versione Dylan"
Tra le pagine chiare e le pagine scure prendono
forma immagini, frammenti di vita, pezzi di sogno, pezzi di stella,
pezzi di costellazione, pezzi di sorriso, pezzi di canzone. Le parole
diventano musica, la musica è parola. "Musica fanciulla esangue/ segnato
di linea di sangue/ nel cerchio delle labbra sinuose/ regina de la
melodia". Chiamatela poesia se vi pare, come fosse Campana, ma no
perché, appunto, "c'è la melodia!", chiamatela come volete. Certo se
Francesco De Gregori, per brevità chiamato artista, invece di scrivere
“ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo" avesse scritto
"mi sono lasciato con la mia ragazza" non staremmo parlando di lui a più
di quarant'anni anni di distanza da Rimmel, non avremmo immaginato di
volare via con La donna cannone, con quelle parole che vanno dritte al
cuore ("e non avrò paura/ se non sarò bella come dici tu") e non avremmo
in mente, scolpite, visioni dei gatti che "muoiono nel sole" e la
desolazione di Cesare (Pavese) perduto nella pioggia che aspetta il suo
amore, ballerina.
"No, poeta no", dunque. Artista sì, però ("uso
questo termine senza alcun sussiego né presunzione ma solo per indicare
il lavoro che faccio"). Comunque icona ("per carità no!") con cui siamo
cresciuti, che ogni italiano ha nel suo dna: chi non ha un ricordo
legato a una canzone di De Gregori? Canzoni d'amore (certo Buonanotte
fiorellino, tante volte 'dylaniata', ma anche psichedeliche come Dolce
amor del Bahia, non a caso rifatta da Vasco Brondi, il più 'degregoriano'
dei nuovi artisti, ma passando per i CCCP e il punk rock), canzoni
politiche senza politica (Pablo che era il mio modo per sintonizzarmi su
Radio Popolare di Milano trent'anni fa, perché la trasmettevano in
continuazione e poi, naturalmente, Viva l'Italia, che tutti hanno
cercato di fare propria senza riuscirci o il cuoco di Salò che tanta
discussione aveva suscitato), canzoni 'esistenziali' (da Il signor Hood
a La leva calcistica della classe '68). E poi quanti capolavori: Rimmel,
l'album perfetto, ma anche il disco omonimo del 1978 con Generale e
Natale, forse il successo commerciale più grande; e che dire di Titanic
che gli esegeti considerano il 'vero' capolavoro, contrapponendolo a
Rimmel? E Calypsos, che non si smetterebbe mai di ascoltare? E Sulla
strada? E il disco dal vivo italiano più bello di sempre, Banana
Republic con Lucio Dalla?
Francesco De Gregori, nella sua casa romana piena
di luce, un pianoforte in mezzo alla stanza, dalla parte opposta una
libreria, quadri, dischi, un pacchetto di Gitanes senza filtro
appoggiate su un tavolino basso che fumerà con discrezione e un certo
gusto insieme a un caffè in tazza grande. Anche l'sms che mi era
arrivato il sabato precedente l'intervista era elegante ed essenziale:
poche parole, concise, il luogo dell'incontro. A capo. 'f' minuscola.
Punto.
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Tutti conosciamo Francesco De Gregori ma lei, in
un pezzo intitolato Guarda che non sono io, dice "guarda che non sono
io/ quello che stai cercando/ quello che conosce il tempo/ e che ti
spiega il mondo". Insomma un conto è la fotografia, l’icona, un altro la
persona reale, un po' come il Magritte di Questa non è una pipa.
"L’arte è sempre qualcosa che allude. Non dà mai
risposte, nemmeno in termini di identità. Gli oggetti si trasformano:
l’Orinatoio di Duchamp può diventare tutt’altro. Il divertimento sta
proprio nello spostare i termini della questione. Questo vale anche per
il mio mestiere".
A parte il punk, che si poneva l’idea di
distruggere l’idea stessa di rockstar, non sono molte le 'icone' che
cercano di non essere considerate tali, che dicono 'preferirei di no'.
"No, ecco, appunto
icona, no! Ma non è che io ci abbia fatto un ragionamento sopra. Io
faccio uno dei mestieri più liberi del mondo: perché non devo
approfittarne?".
Lei suona con gli stessi musicisti da molto tempo
e ama molto suonare dal vivo, cambiando spesso le canzoni. È alla
ricerca del suono perfetto?
"Sono alla ricerca del mio suono. E avendo una
frequentazione ormai lunghissima con gli stessi musicisti ci capiamo al
volo. Non sono degli esecutori, partecipano tutti al processo produttivo
ma, banalmente, visto che ci conosciamo così bene, non si perde tempo.
Soprattutto conoscono le mie idiosincrasie…".
Quali sono le sue idiosincrasie?
"Certe scorciatoie che ammiccano al pop, certe
soluzioni più banali. Io tra loro sono il meno musicista, nel senso che
la mia formazione è avvenuta sul campo a poco poco, ma proprio per
questo mi capita di avere delle idee non ortodosse che poi cerco di
tradurre in musica: non è facile sintonizzarsi con la mia anarchia ma
col tempo ci siamo riusciti. Io ho iniziato a fare le prime cose con un
gruppo solo dopo aver fatto Rimmel nel '76/'77. Per me è stato
drammatico l’incontro con altri perché partivo dal testo e cercavo di
spiegargli quello che dovevano fare a partire da quello, dal senso del
brano. A quei tempi, ai musicisti del testo invece non gliene fregava
niente, non volevano nemmeno ascoltarlo. Io poi avevo preso dei giovani
che venivano dal jazz, che era proprio un altro mondo, molto elitario,
del tipo 'noi facciamo jazz poi andiamo a suonare con De Gregori perché
ci paga'. E io gli dicevo: 'Dovete suonare Atlantide, che sono tre
accordi tutti uguali'. Loro lo facevano e a me faceva schifo come
veniva. Glielo facevo notare e loro: 'Vabbè sono tre accordi!'. Certo,
sono tre accordi. Che vanno suonati in un certo modo. Io per suonarli
come volevo davvero ci ho messo vent’anni. E adesso ci riesco perché
sono diventato più bravo io e perché si è molto alzato anche il livello
culturale di chi suona: non c’è più nessuno che ti dice: 'Ah, ma no io
faccio rock, jazz etc.!'. C’è molta più consapevolezza di cosa vuol dire
suonare".
Le scorciatoie sono odiose anche nel nostro
mestiere, che è quello di divulgare dando al pubblico degli strumenti
per capire, non perché i lettori sono stupidi, ma perché non hanno il
tempo di informarsi su tutto. Ma naturalmente evitando anche qui, come
nella musica cui faceva accenno prima, gli stereotipi. Tipo 'l’elfo
islandese' quando si parla di Björk, 'la sacerdotessa del rock' per
Patti Smith e, la madre di tutti i luoghi comuni, 'il menestrello di
Duluth' per Bob Dylan…
"Uh, uh, uh! (suoni di sincera disapprovazione,
ndr). Quello dovrebbe essere proprio vietato per legge! Sono le cose per
cui quando leggi un articolo e trovi una di queste definizioni volti
pagina. Vale per tutti i settori di un giornale. L’uso di certi termini
nei titoli: la rabbia per esempio è abusata. La rabbia dei
postelegrafonici! O dei ristoratori o… intercambiabile per tutte le
categorie (ride)".
A proposito di sfidare gli stereotipi, lei a un
certo punto ha fatto una cover di Vita spericolata di Vasco Rossi.
"Perché è un pezzo che mi è sempre piaciuto.
Sembra strano?".
Abbastanza.
"È una delle più belle canzoni italiane. La cosa
incredibile è che Vasco la fece a Sanremo e notoriamente io non sono un
ammiratore del mondo sanremese, ma devo dire che ogni tanto da lì
uscivano pezzi straordinari. Ma perché sembra strano che io faccia Vita
spericolata? (ride)".
Beh, ho avuto l’impressione che anche il suo
pubblico…
"Il mio pubblico rimase esterrefatto (ride)".
Insomma... lei è il Principe.
"Che vuol dire? Il pubblico va per stereotipi: il
Principe, il maledetto, il professore… A me è sempre piaciuto cantare le
canzoni degli altri. Certo, lo ammetto, mi rendevo conto che poteva
sembrare una provocazione ma per me non lo era per niente".
Non essere mai dove gli altri pensano che tu
possa essere, anzi che tu debba essere: tutto ciò è molto punk. Anzi è
l'essenza stessa del punk: strano per De Gregori.
"Per me conta il fatto di non porsi nemmeno questa
domanda. Non voglio mai neppure lontanamente pensare a come devo essere.
Non voglio essere dove qualcuno vorrebbe che io sia. Le dirò di più:
anche se l'intero mio pubblico pensasse che io debba stare in un certo
luogo, non ci starei. La mia necessità è solo quella di essere sempre me
stesso. In un mondo dove ormai le playlist le fa Spotify mi sembra
essenziale fare sempre e solo tutto quello che mi viene in mente e
pazienza se non è quello che ci si aspetta da me. Con un solo limite".
Quale?
"Del cercare di non fare cose brutte. Per questo
cerco di lavorare molto su tutto ciò che faccio: è questa la forma di
rispetto che devo al pubblico, non il fatto di dargli quello che
vorrebbe io facessi. Per esempio, se mi va di fare una cosa con Fausto
Leali, come il duetto di Sempre per sempre, non ci penso due volte. La
spinta deve essere di totale innocenza e indipendenza".
Del resto, quando Vasco fa Generale, è un
tripudio assoluto, si diverte tantissimo.
"Certo. Per fortuna è solo ai puristi che non va
che De Gregori faccia Vasco Rossi e viceversa: ben venga Vita
spericolata quindi! Vasco poi ha uno stadio intero che lo ascolta: è
un'emozione…".
Lei però è stato il primo a riempire gli stadi.
"Sì, io e Dalla. Siamo stati i primi proprio a
farli gli stadi, in realtà. Si parla del 1978 e in effetti nemmeno gli
artisti stranieri si esibivano lì, allora. Dopo di noi forse la prima fu
Patti Smith, nel 1979, a Firenze".
Come nacque l’incontro con Dalla?
"Io stavo alla IT, una piccolissima etichetta
discografica che faceva capo a Vincenzo Micocci che Lucio, che aveva
preso da poco casa a Roma, frequentava perché c’era anche Ron. C’era un
pianoforte, lui a volte si metteva lì e suonava. Era già famoso, aveva
fatto 4 marzo 1943. A poco a poco ci siamo incuriositi l'uno dell'altro
e così capitava che suonassimo insieme e poi magari partecipavamo ai
rispettivi concerti. Era un’atmosfera un po’ da gita scolastica, tipo:
'Lucio, stasera io suono a Viterbo' 'Ok, vengo anch’io' e magari saliva
sul palco con me e faceva una cosa col clarinetto; oppure ricordo, per
esempio, che c'era Anidride solforosa, un pezzo che a me piaceva
moltissimo. Lucio mi aveva detto: 'Dai, suonaci sopra l’armonica! E così
facevamo'. Pablo infatti è firmata anche da Lucio, perché mentre io la
stavo scrivendo lui mi accompagnò a Bari e nel pomeriggio, mentre
l'ascoltava, mi disse: 'Qui nell’inciso non si muove abbastanza'. Lui
non sapeva suonare la chitarra ma io l’ascoltai perché avevo capito che
aveva ragione. Ecco, questo era il clima. E quindi Banana Republic non
fu altro che il coronamento di questa amicizia. Anzi, direi che poi con
Banana Republic si esaurì inevitabilmente. Non ci vedemmo per diversi
anni e ci rincontrammo nel 2010. La tournée che abbiamo fatto allora dal
punto di vista musicale secondo me era molto più bella della precedente,
però certo, non aveva più quel fascino della novità, dell’unione di
questi due strani personaggi in un periodo in cui i grandi concerti non
esistevano".
Musica dal vivo: lei non fatto dischi live per un
lungo periodo, poi improvvisamente ne ha fatti tantissimi. Come mai?
"Io credo dipenda dal fatto che all'inizio non
sapevamo suonare molto bene e quindi i dischi live ho iniziato a farli
uscire quando mi sembrava che ne valesse la pena. Sono stato anche molto
criticato per questo. In effetti, se vado a contare i dischi in studio e
quelli live, sono quasi una discografia parallela. Perché li ho fatti
allora? Un artista ha necessità di documentare quello che fa, nel mio
caso i concerti, proprio come un pittore fa tutti i quadri che vuole.
C’è del narcisismo? Sicuramente. Ma chi non ha piacere a mostrare una
propria opera… A parte la compulsività a pubblicare se stessi, il live è
anche rendicontare la possibilità di una canzone di trasformarsi, da
sera a sera o dall'anno prima o da vent'anni prima. Io non la forzo: io
vado appresso questa trasformazione. Cambia la mia voce da sera a sera,
non può non cambiare la canzone. E questi cambiamenti per me è
inevitabile raccontarli: è per questo che pubblico tanti dischi dal
vivo. Molti mi hanno criticato ma per me non c'è una legge da seguire,
la mia libertà sta nel fare quello che sento, la libertà del pubblico è
nel comprare o meno i dischi che faccio: non divento ricco a fare tanti
dischi live, ma perché mai non li devo fare?".
Tra l’altro, in questo nuovo album, Sotto il
vulcano, che è appunto un live e, oltretutto, doppio, lei ha rifatto un
pezzo che cantavate con Dalla in Banana Republic.
"Mi è venuta l'idea passando da Milo, in Sicilia,
dove abitava Lucio. A un certo punto mi sono scoperto a canticchiare
questa canzone e il giorno dopo, a Taormina, avevo la penultima tappa
del tour. Ho deciso lì per lì. Tra l'altro, per motivi tecnici, non
avevo la possibilità di provarla con la band per cui gli ho detto:
'Ascoltatela su YouTube, lì c'è la versione originale'. A quel punto mi
è venuta la voglia contraria rispetto a quello che ho teorizzato fino a
ora: ritornare a fare esattamente la canzone com'era, perché nel
frattempo sono state fatte talmente tante versioni a molte delle quali
ho partecipato anch'io. Non la rifacevamo mai uguale. Invece questa
volta volevo proprio il violino e la chitarra con quel riff popolaresco.
L'ho fatta solo quella sera: quella dopo avevamo un concerto in Sardegna
ma non l'abbiamo suonata".
Come mai ha scelto la versione censurata, quella
in cui il verso “ancora adesso che bestemmio e bevo vino/ per i ladri e
le puttane sono Gesù Bambino” è stato cambiato?
"Mi sono innamorato di quella versione quando l'ho
sentita a Sanremo: non so se l'originale era l'altro o se Lucio nel
corso del tempo l'abbia attualizzata. Trovo molto più delicato dire
'ancora adesso che gioco a carte e bevo vino/ per la gente del porto
sono Gesù Bambino' perché mi sembra più adatto a una canzone dedicata a
un tema importante come la maternità. Non desiderata ma comunque vissuta
con dolcezza, un tema nobile: questa giovane donna, lui che nasce e gli
viene dato quello strano nome, tutto riconduce a un'atmosfera quasi
sacra. Per cui immettere un tema che sicuramente è più realistico, come
un riferimento alla bestemmia e alle puttane, non mi affascinava, anche
se l'ho cantata tante volte insieme a Lucio anche con questo testo".
Lucio non teneva a una versione in particolare?
"No, credo che la
cantasse di volta in volta come gli veniva. Questa canzone ha qualcosa
di arcaico, non perché 'vecchia': lo era già quando è stata scritta. Fa
rifermento a degli archetipi: la maternità, la guerra, la solitudine. È
una delle canzoni più belle che abbia mai cantato Lucio. Poi non so se
qualcuno ha detto a Lucio: 'Non usare parole come bestemmia o puttane a
Sanremo'. È una canzone commovente per la sua bellezza".
Restando sul tema delle canzoni commoventi, ha
visto la performance di Patti Smith alla cerimonia del Nobel?
"In un contesto così diverso da quello normale,
così paludato non credo ci si senta a proprio agio e poi certo
l'emozione: è facile dimenticare le parole in simili circostanze...".
A lei è mai capitato?
"Come no? Su YouTube
ci sono cose impressionanti...".
Lei ha un repertorio
di più di duecento canzoni. Come fa a ricordarle?
"Questa è una bella
domanda. Me le ricordo al 99,9%. Quello che non ricordo lo invento al
momento, oppure succede il disastro. Però mi piace ricordarmele: non ho
mai usato e non uso il gobbo elettronico. Quando leggi non è la stessa
cosa, credo che il canto ne risenta. Quando abbiamo fatto il tour nel
2010 leggevamo perché Dalla preferiva così. Ma devi stare attento: le
sue parti erano segnate in rosso, le mie in bianco. Per me era un freno.
A proposito di Dylan, però, devo dire che mi è piaciuto molto il
discorso che ha mandato in occasione del Nobel".
Cosa in particolare?
"Beh, per esempio quando dice: 'Vi ringrazio per
avermi chiarito le idee sul fatto che sono uno scrittore. Io in realtà
nella vita ho sempre avuto problemi pratici, tipo trovare lo studio
giusto, il bassista adatto'. Fa tutto un ragionamento low profile e poi,
ecco la cosa che ti fulmina: 'Del resto credo che anche Shakespeare
abbia avuto lo stesso problema: doveva rispondere ai committenti,
allestire una sua tragedia, per cui si chiedeva: 'Ci saranno abbastanza
posti in platea?', 'abbiamo lo sponsor', 'dove lo trovo un teschio umano
per domani sera?'. Per cui vi ringrazio di avermi detto che faccio
letteratura perché non me ne ero mai accorto'. Capito? Prima dice di non
essere uno scrittore e poi conclude ‘proprio come Shakespeare!’".
Anche lei ama molto questa praticità del
mestiere?
"Certo: senza quella non saremmo qua né io né
Dylan. Lo dico spesso: facciamo un mestiere che per buona parte è
fisico, manuale, dove dobbiamo anche saper cambiare la valvola
dell’amplificatore. Altrimenti hai voglia a scrivere di 'Pavese perduto
nella pioggia': non arriva proprio materialmente. Viaggiamo quindi sulla
falegnameria, sulla praticità, sulle previsioni del tempo,
sull’elettricità".
Parlando di Dylan, lei ha letteralmente 'dylaniato'
uno dei suoi pezzi più famosi, Buonanotte fiorellino, un tempo
considerato da alcuni un cedimento alla decadenza borghese, troppo
smielato e al tempo stesso follemente amato dal suo pubblico. Forse
persino troppo amato.
"Certo l'ho 'dylaniata' mille volte e non solo con
Dylan: una volta c'è il violino, un'altra no, una volta è in tre quarti,
in quattro quarti non l'ho ancora fatta ma prima o poi ci arriverò. Sì,
certo, da un po' la faccio dichiaratamente in versione Rainy Day Women
(un brano molto giocoso e “stonato” di Dylan che apre il suo capolavoro,
Blonde On Blonde, ndr) è un po' la stessa operazione che fa Duchamp
quando mette i baffi alla Gioconda. Prende, ruba, cita: fa tutte queste
cose insieme. Diciamo che, fondamentalmente, si diverte. E forse mette
anche il suo pubblico nelle condizioni di divertirsi, nel senso nobile:
gli offre punti di riflessione, di arricchimento, di scoperta. La famosa
'sfasatura' che sta dentro i processi artistici".
C'è una parte del pubblico che vorrebbe cullarsi
con il ricordo della 'sua' Buonanotte fiorellino...
"C'è una parte del pubblico che è conservatore. Mi
rendo conto di cosa vuol dire perché quando io sono pubblico, anch'io
sono conservatore. Se andassi a sentire un concerto di Dylan e lui per
una volta mi facesse Like a Rolling Stone o Just Like A Woman o Blowin'
In the Wind così come le ha fatte sui dischi esclamerei: 'Ooooh!'.
Subito dopo però mi porrei il problema: è sincero mentre sta facendo
questo o sta facendo un monumento a se stesso? E penso che la risposta
sarebbe: 'Non è sincero fino in fondo'. Io a un artista sul palcoscenico
quello che chiedo è la sincerità, cioè che in quel momento lui mi
restituisca quello che sta succedendo nella sua testa. La sua testa non
può essere quella di quarant'anni prima. L'evoluzione di una canzone è
peggiore? Pazienza, mi becco la peggiore".
Manuel Agnelli degli Afterhours a un certo punto
chiedeva al suo pubblico di non cantare. Ma poi si è dovuto rassegnare.
"Ha ragione, si può creare una discrasia che ti
può far sbagliare, soprattutto se tu cambi il pezzo. Come anche battere
le mani: succede spesso che il pubblico non vada a tempo e così diventa
una cosa strana. Comunque va bene, il concerto è anche un momento di
festa, non è un saggio accademico".
Quali sono i suoi dischi dal vivo preferiti?
"Direi 4 Way Street di Crosby, Stills, Nash &
Young e sono indeciso tra Hard Rain e Before the Flood di Dylan,
escludendo la Bootleg Series dal momento che sono dischi che lui non
aveva intenzione di pubblicare in origine. Ha accettato di farlo solo
molto tempo dopo".
Come saprà è appena uscito un box di 36 cd, Bob
Dylan: The 1966 Live Recordings, che documenta tutto il tour del 1966 di
Bob Dylan, quello del passaggio dal folk al suono elettrico in cui ogni
sera c’è una battaglia con il pubblico che gli urla 'traditore'.
"Ecco, questo è proprio l'esempio giusto: un
giorno ti ascolti un disco, un giorno l'altro e senti la stessa canzone
come cambia nel giro di poco tempo. È un documento storico
importantissimo e da musicista impari molte cose. Ma è importante anche
per un non musicista, credo. È un po' come entrare nell'atelier di
Picasso e vedere cosa c'è dietro un suo quadro: gli studi, i tentativi,
gli errori anche. Diciamo che l'ascolto dei dischi live contraddice
quelli che pensano che la musica debba essere per forza patinata,
inappellabile dal punto di vista tecnico. Nei dischi live invece devi
evitare l'eccesso di perfezione, anche perché altrimenti non ti fermi
mai: puoi restare anni in studio su una canzone e non capire mai quando
è davvero finita. Al tempo stesso devi contenere l'irruenza. Vivere con
questa dualità nella testa è interessante. Io ho fatto un album
intitolato Left & Right che non è nemmeno mixato: sono solo i canali del
banco presi e masterizzati senza dire 'alzo i livelli del basso' o cose
simili, ed è uno dei miei preferiti".
Poi c'è Bootleg che si rifà all'idea della
naturalezza, credo.
"Sì, quello però è mixato. Ma è vero: andai a
Dublino a mixarlo proprio perché volevo un fonico che non capisse il
testo. Trovai uno che non solo non capiva il testo ma gli stavo anche
antipatico: per me era perfetto! (ride)".
Lei ha conosciuto molti musicisti nella tua vita.
Chi ricorda più volentieri?
"Uno di quelli che più ho amato è Leonard Cohen.
Una volta l’ho incontrato proprio a Roma, per caso, mentre camminavo:
era insieme a una mia amica che me l’ha presentato, a Santa Maria in
Trastevere. Aveva una chitarra in mano e io pure: 'Ah, anche tu suoni?',
mi chiede e ci scambiammo un po’ di pareri tecnici. La seconda volta fu
nei camerini dopo un suo concerto al Teatro Olimpico a Roma e lì feci un
po' il fan, andai in camerino dove stava mangiando da un cartone un
pezzo di pizza al taglio, coccolato dalle due coriste, e mi misi a
parlare un po'".
Le disse che vi eravate già incontrati?
"Non gli dissi nulla e per pudore non mi feci
neppure autografare il disco. Dopo di me arrivò uno che si portò dietro
l’intera discografia che Cohen firmò interamente, con grande pazienza".
Immagino che capiti spesso anche a lei il
contrario.
"Sì. Cerco di fare fino in fondo il mio dovere, ma
a volte vorresti che quelli che ti chiedono autografi non esistessero.
Memore di questo, tollero a mia volta e cerco di essere discreto ma
capisco il fan, lo sono anch’io e quindi capisco: però non ci devono
essere invasioni improprie…".
Qualche altro esempio del suo essere fan?
"Stavo mangiando con mia moglie e i bambini a
Venezia e al tavolo accanto al nostro c’era Elton John. Per me fu
stranissimo perché non sapevo che stesse a Venezia, che ne fosse
innamorato. I suoi primi dischi sono stati formativi per me e
soprattutto per Antonello Venditti, anzi ricordo che in realtà fu
proprio lui a farmelo conoscere: Tumbleweed Connection, un disco
straordinario, lui e Bernie Taupin, il paroliere: che coppia! Poi col
tempo per me ha perso interesse, pur mantenendo sempre una certa qualità
di scrittura, ma cose come Your Song sono eccezionali".
Ci parlò in quell’occasione?
"No, 'schiscio', come dite voi a Milano. Un altro
aneddoto divertente forse è quello che riguarda Lou Reed. Quando stavo
alla Rca, nel 1978-'79, venne a Roma per un concerto e volle fare il
soundcheck proprio lì negli studi dove pascolavamo tutti noi cantautori
dell’epoca. A un certo punto si sparse la voce e ovviamente eravamo
curiosi. Lui non voleva vedere né essere visto da nessuno. Quando si
mise a suonare però, a poco a poco, alla chetichella, entrammo nella
regia e… rimanemmo a bocca aperta! Sentimmo una botta di suono
impressionante: noi li conoscevamo bene quegli studi ma era come se
qualcuno improvvisamente avesse cambiato tutto lì dentro. Anche i fonici
erano lì, con gli occhi di fuori, e dicevano: 'Ma questo da dove
viene?”'. E anche al di là del vetro aveva un’aria arcigna: non ti
saresti mai avvicinato…".
Negli ultimi anni si era addolcito: Laurie
Anderson mi raccontava che dietro l’aspetto burbero era una persona
tenera, che non smetteva mai di incoraggiare i giovani artisti. Una
violinista che aveva suonato con lui durante l’intervallo di un concerto
gli chiese com’era andata. Lui rispose: 'Tutto lì quello che sai fare?'.
Così la violinista nella seconda prova fece rimanere tutti a bocca
aperta.
"Naturalmente sarà stata bravissima, ma certo, da
uomo di musica ha fatto quello che andava fatto: l’ha spinta a dare il
meglio di sé. Comunque è incredibile: anche in un pezzo come Perfect Day,
apparentemente dolce, c’è una narrazione a doppio taglio: c’è ghiaccio,
c’è distanza. La musica in realtà è quasi una presa in giro della
dolcezza, c’è il diavolo dentro! La dolcezza è solo un abito di quella
canzone".
Lucio Battisti, un altro artista dal carattere
difficile, l’ha conosciuto?
"Ci ho parlato solo una volta al bar della Rca, un
paio d’ore. Era molto timido ma al tempo stesso emanava un carisma
assoluto per cui non ti veniva voglia di andare lì, dargli una manata
sulla spalla e dirgli: “Ciao Lucio, come va?".
Cosa vi siete detti?
"Avevo appena pubblicato Alice e mi fece dei
complimenti: 'Ahò, è forte quel pezzo!'. Poi mi disse una cosa che mi
parve davvero strana: 'Tu canti benissimo”. In quel periodo mi sentivo
tutto meno che un cantante! E poi: 'Sei bravo perché tu riesci a far
capire bene il testo, quello che dici'. A me! Uno a cui tutti dicevano
che non si capiva niente di quello che scrivevo! Tornai a casa volando".
Tra i nuovi artisti chi le piace?
“Non ho molto tempo per ascoltare musica, è brutto
da dire ma è così. Però posso dirti che ho suonato una volta con
Cristina Donà, che è bravissima, mi piace tantissimo e con Vasco Brondi.
Anzi, con Vasco io ho suonato la chitarra mentre lui cantava Viva
l’Italia”.
C’è uno di questi nuovi autori, si chiama
Calcutta e in suo brano, Limonata, fa un quadro impietoso della sua
ragazza e dei suoi genitori e ti cita, non so se le è capitato di
sentirlo. Dice: “Tu spremi limonata e non ce la fai più/ salutami tua
mamma che è tornata a Medjugorje/ e non mi importa niente di tuo padre/
ascolta De Gregori/ a me quel tipo di gente no non va proprio giù”…
“Beh intanto uno che riesce a fare una rima
Medjugorje/ De Gregori è notevole. Lo trovo molto carino dai… (ride).
No, non lo conosco ma credo nel karma: credo che prima o poi una cosa se
ti deve arrivare ti arriva”.
Restando sulle cose politicamente scorrette, è
vero che lei ha conosciuto De André suonando una presa in giro de La
guerra di Piero intitolata “La cacca di Piero”?
“Sì, è vero. Avrò avuto diciott’anni: era una di
quelle cose goliardiche che si facevano ai tempi del Folkstudio”.
Ma lei sapeva che lui era lì?
“(ride) Sì… Andò così. Io credo di non averla
nemmeno mai fatta in pubblico: tra l’altro La guerra di Piero era stata
una canzone fondativa per me. Poi succede che mio fratello conosce De
André in un bar di Roma, fanno amicizia, bevono insieme e qualche giorno
dopo mio fratello lo porta al Folkstudio dove io suonavo insieme a
Venditti e altri, tutti assolutamente sconosciuti. E questo disgraziato
di mio fratello dice a De André che io avevo fatto questa ignobile cosa!
E De André, che era luciferino, insisttete perché la facessi: io non
avrei mai osato fare una cosa del genere. Sarebbe stata veramente una
cosa da idioti. E invece lui: ‘Dai belin fai sentire questa canzone!’.
Lui si divertì molto e da lì nacque il nostro rapporto, diventammo amici
tanto che tempo dopo mi invitò persino da lui in Sardegna a lavorare
insieme".
Da quel vostro incontro nacquero anche dei brani
di Rimmel…
“Non abbiamo mai cantato insieme se non una strofa
per uno in una canzone di Fossati Quei posti davanti al mare. In
Sardegna ho scritto Buonanotte fiorellino: lavoravo a Rimmel e, insieme,
al suo disco”.
Anche se lui aveva il giorno invertito con la
notte.
“Sì è vero. Cominciava a ingranare molto tardi
così capitava che stessi molto tempo durante il giorno con Cristiano che
a quei tempi era proprio un ragazzino ma suonava già uno strumento: la
batteria ed era molto bravo”.
Lei non ama la politica e nemmeno i salotti.
“Per niente. Soprattutto detesto i politici che in
un ingiustificato atto di supponenza ti passano davanti con le loro
scorte a sirene spiegate costringendoti a fermarti. Ma non è rabbia
anticasta: è proprio un dato di fatto intollerabile. Un abuso di potere
che altrove non potrebbe accadere. In Inghilterra per esempio il Primo
Ministro non ha la scorta con le sirene spiegate e si ferma normalmente
ai semafori”.
Questa idiosincrasie le racconta in vari brani.
Ma c’è un testo che mi ha colpito in maniera particolare, si intitola
Povero me e dice cose come “i simpatici mi stanno antipatici/ i comici
mi rendono triste/ mi fa paura il silenzio/ ma non sopporto il rumore”.
“Beh, è una buona descrizione di me stesso,
autocaricaturale: io non sono così cattivo e malmostoso come in quella
canzone. Dopo un po’ di tempo dall’uscita di questa canzone, incontro
un’amica che non vedevo da un bel po’ e nel frattempo era diventata
psichiatra, e mi dice: ‘Senti ho sentito quella tua canzone: è la
canzone di un depresso! (ride). No guarda, descrive tutti i sintomi
della depressione: ce li hai tutti!’ Io le dico: ‘Guarda non mi sento un
depresso’. E lei continua: ‘Eppure è la canzone di un depresso’. Che
dire? Forse aveva ragione lei. Ma vuol dire che evidentemente sono bravo
a identificarmi. Ci ho messo tutto: ‘nessuno mi vuole bene’, ‘sono tutti
migliori di me’ (ride). E appunto quello che dicevo prima: ‘ci sono i
pretoriani con la sirena’. E’ una canzone che amo molto”.
Questo dunque non è Francesco De Gregori, almeno
non tutto. Forse una piccola parte sì, ma appena vi voltate l'immagine è
già cambiata. Non è più quella della fotografia. Del resto, non è forse
così per tutti? Non siamo mai noi stessi, almeno non del tutto. Non
sempre. Non siamo il profilo Facebook, non siamo neppure il nostro libro
o la nostra canzone se abbiamo la fortuna di scrivere, non siamo il
nostro lavoro, non siamo sempre coraggiosi o sempre vili, sempre tristi
o sempre felici, non siamo quello che pensano gli altri di noi e neanche
quello che pensiamo noi di noi stessi. Camminiamo tutti sui pezzi di
vetro. E questa non è un'intervista.
http://www.repubblica.it
Le foto antiche di Francesco sono di
Renzo Chiesa, scattate nel 1975 De Gregori
durante la partecipazioni di De Gregori a una dieci giorni musicale
di cantautori RCA al Teatro dell'Arte di Milano
insieme a Ron, Renzo Zenobi e Lucio Dalla.
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BUONANOTTE FIORELLINO. FINIAMOLA
QUI, UNA VOLTA PER TUTTE, CON LA PRESUNTA
VEDOVANZA!
A parte quel che mi ricorda,
Buonanotte fiorellino è una di quelle canzoni che non smetterà mai di stancarmi.
Una delle poche che mi costringe a premere il tasto repeat quando la incrocio
all’ascolto, mentre guido sulla strada.
Prima di tutto vorrei sfatare quella leggenda
che la vuole dedicata a un'ipotetica prima moglie di De Gregori, deceduta a
causa di un disastro aereo. Qualcuno, in passato, avrà percepito male (allora
c’erano le musicassette e non doveva essere facile percepire quello che oggi si
ascolta a 320 Kbs) ed avrà evidentemente confuso la frase “buonanotte monetina”
con “buonanotte mogliettina”; subito dopo (ormai fra le nuvole, poveretta, in
folle discesa verso terra) l’ha immaginata come un volatile in picchiata
nell’ennesimo malinteso: “gli uccellini, nel vento, non si fanno mai male” con
la fantomatica versione “gli uccellini, cadendo, non si fanno mai male”. Che
fine orrenda!
Qualcun altro ha fantasticato altre supposizioni: che nel maggio del 1975 la
donna, proveniente dalla Sardegna, si schiantò sulle montagne di fronte a
Palermo mentre De Gregori, col biglietto ormai scaduto, l'aspettava
nell'aeroporto siciliano ricordando le ultime parole pronunciate .... fra il
telefono e cielo ..... "pieno di rottami cadenti". Manco ad Airport70 giravano
certe scene!
Pura fantasia e immaginazione della gente!
I disastri a Punta Raisi avvennero solo nel 1972 e nel 1978. Francesco la
scrisse nel 1974 (quindi prima del 1975), quand'era in Sardegna col Faber; un
anno dopo, quando uscì Rimmel, aveva solo 24 anni, era un timido giovanotto coi
capelli rossi che si esibiva ancora al Folkstudio mentre litigava con l’asta del
microfono fra le lunghe gambe che tremavano sotto la sua Eko. Ventiquattro anni
sono troppo pochi per essere già vedovo, anche per uno studente in Storia
moderna che aveva da poco deciso di vivere da solo, lasciando i palazzi in
costruzione a Monteverde per trasferirsi in una vecchia casa trasteverina.
Tanto per essere chiari: in vita sua, Francesco si è felicemente sposato una
sola volta, nel 1977, con Alessandra detta Chicca. Quindi, lungi dal
fantasticare storie sul testo di una bellissima musica che, come ormai vuole la
critica musicale, sia ispirata a Winterlude di Bob Dylan (New Morning, 1970),
questa è solo una storiella inventata da chi, in una canzone che rimane pur
sempre un'opera d'arte, cerca ad ogni costo di trarre inutile gossip. Non
contento, qualcuno è andato a cercare frasi di sue canzoni legate in qualche
modo alla vicenda: chiusi in una scatola nera, stella, disastro aereo sul canale
di Sicilia, ecc.; addirittura altri che, appena saputo della bufala, ci sono
pure rimasti male!
Per fortuna, tanti altri non hanno usato gli occhi per leggere ma l'orecchio per
ascoltare. Non qualche giornalista che, senza mai avere ascoltato Winterlude,
scambiò il termine “ispirazione” per “clonazione” e da lì ebbe iniziò, oltre
alla precoce e presunta vedovanza di De Gregori, anche il precoce e presunto
sospetto di un plagio che non aveva nè testa nè coda.
De Gregori ha sempre amato Dylan, fin dagli anni Sessanta, dal giorno in cui suo
fratello Luigi portò a casa il 45 giri di Peter Paul & Mary con la cover di
Blowin in the wind.
Negli anni Settanta c'era l'uso delle traduzioni di brani famosi al fine di
riadattarli in lingua italiana, conservandone però la musica. Quando cominciò
l'era del Cantautorato, molti nostri artisti ne fecero largo uso. Traduzioni non
intese nel senso più letterale del termine; sarebbe bastato un interprete e
finiva lì, con le rime pure tutte sballate. Significava, invece, traspositare il
testo originale in lingua italiana mantenendo il vero significato e trasformando
così la canzone con il proprio stile. Grandi maestri ed esempi sono stati
Giovanna D'Arco e Avventura a Durango di De Andrè o Non dirle che non è così,
sempre di De Gregori. Anche Fossati è stato un grande maestro.
Poi ci sono le cover, interpretazioni originali .... dichiarate. Invece i plagi
sono altra cosa, i plagi sono la maggior parte dei nostri successi degli Anni
Sessanta che qualche furbetto ha spacciato per molto tempo come genialità
compositiva tutta italiana.
In merito alla storiella di Buonanotte fiorellino, basta cercare qualsiasi
traduzione in rete per capire molte assonanze con Winterlude: certe parole
tradotte dall'originale come ... margheritina, al filo del telefono, dove i
fiocchi di neve coprono la sabbia.. non ricordano niente? Un altro piccolo
esempio: la neve è così fredda mia piccola mela, nel campo di grano. (trasposiz.:
il granturco nei campi è maturo, la coperta è gelata, l'estate è finita). La
stessa cosa, ma riportata in maniera
diversa. L'importante è rispettare il senso della storia, basata in questo caso
sul tentativo di riappacificarsi con l'amata perduta dedicandole la Buonanotte
con un delizioso gioiellino a tempo di valzer.
Già, il tempo di valzer. Forse l'unica cosa copiata da Winterlude. Perchè ad
ascoltarle sono completamente differenti l'una dall'altra. Anzi, secondo me, la
parte musicale di Buonanotte fiorellino è molto più bella e affascinante e la
melodia completamente diversa, come pure gli accordi. Dopo vi furono parecchie
versioni degregoriane della canzone: in blues, country, rock, l'ultima
addirittura in stile dylaniano con un attacco spudoratamente simile a Rainy Day
Women #12 & 35.
Lasciando perdere una volta per tutte le parole, sentiamola: l'inizio arriva
subito con un forte "tum pa-pa tum pa-pa", col tipico suono di pianoforte
semi-scordato degli studi RCA, interpretato a tempo di valzer da Visentin e
mantenuto fino alla fine. E' predominante, potente, deciso come l'olio Bertolli,
il suo rimbombo scuote quasi lo sterno dell'ascoltatore. Quando sulle strofe
cantate da Francesco entra il discreto contrabbasso di Roger Smith si è già
rapiti, vien voglia di invitare qualsiasi donna a portata di mano a ballare, che
sia delle pulizie, la portinaia o la nonna. E nel frattempo si danza, si danza
come un valzer musette del secolo scorso, e il rullante di Di Stefano rafforza
ancora di più il tempo ma con discrezione, quasi a chiedere scusa di esserci.
Entrano nel salone da ballo anche le nacchere, ancora dolci melodie e la
chitarra di George Sims, frivola, capricciosa, fluida e gentile (sempre Bertolli,
no?).
Alla terza strofa, dal tono di Do a quello di Re per la festa finale, ormai
tutti sudati e giù per terra con la testa che gira gira gira. I cori finali
incontrano l'ormai famosa monetina e un anello simbolo di un amore finito,
lasciato (bè, a questo punto giochiamoci sopra) sulla spiaggia di Mondello.
Alla fine, il pezzo ci saluta sfumando il suo "tum pa-pa tum pa-pa" e chiudendo
con gentilezza la porta. Quando tutto finisce e il salone da ballo è vuoto, vale
la pena riascoltarla... o no?
Una canzone addirittura terapeutica. Da quarant'anni produce migliaia di
benefiche dediche volte all'incremento demografico e, nonostante il Principe
continui a dire di non essere colui che ha asciugato il pianto di chi l'ha
amata, continua a fare bene alla salute. Di grandi e piccini.
(del Titanic, il nostromo)
www.iltitanic.com
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Francesco
De Gregori - Rimmel
di Lucio Mazzi (www.pagine70.it)
Al
terzo album (e mezzo, se si considera anche "Theorius campus"
in tandem con Venditti) De Gregori fece centro. E gli costò parecchio.
Prima di questo "Rimmel" del '75, il cantautore si era fatto
notare con "Alice" (debitamente ultima al Discoestate) e
relativo album, e aveva ribadito la sua posizione con il disco
cosiddetto "della pecora" (nessun titolo, ma un agnello in
copertina). E la sua posizione era
quella di un giovanotto innamorato di
Dylan, che pensava che per una canzone fosse essenziale a) un testo
almeno "obliquo", se non proprio ermetico b) una linea
melodica semiinesistente c)una chitarra a costituire tutto
l'arrangiamento. In questo lui non inventava nulla: tutta una
generazione di cantautori americani e inglesi (Dylan, Cohen, Guthrie,
Prine…) avevano percorso più o meno quella strada. "Però ad un
certo punto" mi confidò il collega e sodale di quei tempi Edoardo
De Angelis" lui si stancò di vendere quattro copie e decise di
cambiare". Il risultato fu "Rimmel. Un botto da 500.000 copie
vendute. Era successo che De Gregori si era fato un po' meno
intransigente, aveva "accettato" che oltre a Dylan e a Cohen
facessero cose egregie anche James Taylor, Cat Stevens o addiritura
Elton John (il primo Elton John) e aveva lavorato in questo senso. E
infatti l'album è brillantissimo innanzi tutto a livello musicale. Le
composizioni si fanno più articolate (ad esempio "Pezzi di
vetro" è da sempre la bestia nera dei chitarristi alle prime armi,
con le sue decine di accordi), gli arrangiamenti più ricchi e
decisamente più accattivanti. E se i testi non acquistano molto in
intelligibilità, sicuramente possiedono un magnetismo, prima assente,
che li fanno amare al di là del loro significato che il più delle
volte resta oscuro. Tutto ciò portò, come detto, ad un clamoroso
successo commerciale. Cosa che in quei tempi non poteva assolutamente
essere accettato dalla critica e dal pubblico "militanti" per
cui non era concepibile che un lavoro di qualità potesse anche essere
commerciale. E per cui era "ovvio" che qualsiasi cosa avesse
successo fosse immediatamente scadente. Su Linus Giaime Pintor scriveva:
"Banalità musicali da canzonetta anni '60 impreziosita da alcuni
arrangiamenti barocchi con un occhio al rock morbido della quarta
generazione inglese, Elton John e i suoi fratelli… Su questo tessuto
povero egli appoggia pesantemente testi in cui la metafora ermetica
campeggia vittoriosa nei suoi vestiti più kitsch", e più o meno
sullo stesso tono pontificava Sofri su Lotta continua. Merita ricordare
che la critica "militante" non aveva trovato proprio niente da
dire sui testi ben più ermetici di "Niente da capire",
"Bene" o "Cercando un altro Egitto", ma tant'è:
quelle canzoni non avevano venduto niente quindi tutto ok! E dietro la
critica "militante" ecco il gregge belante del pubblico
parimenti "militante", quello che arrivò ad interrompere un
concerto milanese di De Gregori per inscenare un farsesco processo al
cantautore accusato di commercialità. Insomma, "Rimmel",
ancora oggi un grande disco, costò parecchio a De Gregori: prima di
tutto fare i conti con certa ottusità di pubblico e critica con cui lui
e altri avrebbero dovuto fare i conti anche negli anni a venire.
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De
André rimase un po' male quando vide che l'avevo incisa anch'io per un mio
disco. In effetti la canzone l'avevo scritta già da un anno, sarebbe dovuta
uscire nel disco precedente però era rimasta fuori. A Lilli Greco non piaceva,
per via del testo che a un certo punto citava Mussolini. Lui era uno di
sinistra, però non amava le canzoni troppo politiche, e magari proprio non gli
piaceva la canzone in sé.
Comunque a me Le storie di ieri piaceva molto e decisi che dentro Rimmel ci
sarebbe stata benissimo, soprattutto adesso che nessuno poteva impedirmelo.
Quando la sentì mio padre (…mio padre è un ragazzo tranquillo, la mattina
legge molti giornali, è convinto di avere delle idee') mi disse: ma io che
c'entro? e io: 'papà non ti preoccupare che non c'entri ... '. per dirti come
in una canzone l'autobiografia sia importante fino a un certo punto. Non sempre
quando uno dice 'mio padre' si riferisce al proprio padre anagrafico. Al mio
comunque dispiacque un po', anche perché il disco ebbe successo, la canzone la
sentirono in tanti, c'era gente che andava da lui e gli diceva: 'Giorgio, non
sapevo che tu fossi così di destra' ... alla fine dispiacque anche a me di
averlo citato, o aver creato questo fraintendimento. "
Quando il disco fu terminato feci sentire la canzone a Lilli Greco che non
apprezzò molto l'idea di far suonare la parte finale a un jazzista come Mario
Schiano, bravissimo sassofonista free jazz della scena romana. Il suo assolo
rimane invece, per me una delle cose più belle di tutto il disco".
Tratto da
"Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera
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ROMANO - Avevi
accennato prima a "Racconto", parliamo un po' della tua attività al
di là dei dischi e del Folkstudio; "Racconto" è stato un tentativo
di teatro, di spettacolo, di discorso impegnato e di compromesso,
tutto insieme; ed è stata anche la tua prima esperienza di
palcoscenico organizzata al di fuori del Folkstudio, in cui tu e
Venditti siete stati messi insieme a Cocciante, che non c'entrava un
gran che con voi due. Un esperimento ambiguo, perchè siete andati a
fare lo spettacolo nelle discoteche, d'estate, a contatto con un
pubblico che, magari pensava a ballare e a divertirsi...
DE GREGORI - lo
decisi di farlo perchè era una cosa nuova, andare in giro a suonare
mi andava; non l'ho fatto per i soldi perchè non me ne davano molti,
l'ho fatto perchè non sapevo che fare. Rimasi un po' traumatizzato
dagli impresari, da questa gente che vedevo nei locali da ballo
d'estate, io non ero mai stato a ballare. E la prima volta che sono
entrato in un locale ci sono entrato come “un’attrazione" un mondo
completamente nuovo, un mondo brutto senz'altro, poi ci ho fatto il
callo.
ROMANO - Mi
ricordo chi, alle prove che facevate al Piper c'era questa orrenda
scenografia, che già faceva capire come era impostata la cosa, con i
lampioni di compensato, una panchina e un finto pianoforte laccato
di bianco.
DE GREGORI -
Era una cosa trucida in effetti, però ho visto anche delle cose
peggiori; se vogliamo parlare delle esperienze che ho avuto quelle
due o tre volte che sono andato in televisione, "Racconto" poteva
sembrare uno spettacolo di Luchino Visconti al confronto.
Le scenografie
riuscimmo a buttarle via quasi subito. Poi sul palco io facevo uno
spettacolo veramente senza schemi, e anche Venditti, cioè eravamo
come al Folkstudio, ingenui, probabilmente divertenti, certamente
non professionisti; era il mondo che ci gravitava intorno che era
spaventoso, i contratti, i soldi...
ROMANO - Le tue
esperienze di concerti in pubblico, si riflettono anche sul tuo modo
di cantare; c'è una certa differenza tra il disco della "Pecora" e
"Rimmel", in cui usi la voce in modo molto più libero, più
disinibito; e questo probabilmente dipende anche dal tuo incontro
con Lucio Dalla.
DE GREGORI -
Sì, durante l'estate avevo conosciuto Dalla, che per me è stata una
persona molto ìmportante, dall'incontro con lui è derivato un salto
musicale complessivo, sia nel mio modo di cantare che di scrivere la
musica, “Pablo" l'abbiamo scritta insieme; e c'è un rapporto diverso
anche con la gente che viene ai miei concerti, la voglia di
improvvisare, di inventare.
ROMANO - La
canzone "Rimmel” non si discosta molto da “Bene” o da altri tuoi
pezzi del disco precedente, di cui abbiamo già parlato: è sempre una
canzone dedicata ad una donna...
DE GREGORI -
Sì, è sempre una canzone sui fatti miei, più o meno, però credo che
ci sia una chiarezza maggiore.
ROMANO - Poi
c'è "Pezzi dì vetro".
DE GREGORI - E'
una canzone d'amore.
ROMANO - E lo
zingaro che "è un trucco, un futuro invadente", è un episodio reale?
DE GREGORI -
Sì, un giorno mi hanno fatto le carte, mi hanno detto cose molto
belle, mi hanno detto che sarei stato molto felice, mi hanno detto:
"Sarai un vincente". Però tutto sommato non è bello che uno ti dica
quello che diventerai, credere allo zingaro forse è mancanza di
fantasia, mancanza di giovinezza, del coraggio di dire "vaffanculo,
adesso io esco e chissà cosa succede! "
ROMANO - Per
questo dici "Fossi stato un po' più giovane l'avrei distrutto con la
fantasia"; questo significa che già cominci a sentirti dall'altra
parte, che non ti senti più tanto giovane?
DE GREGORI -
Dalla "Pecora" a "Rimmel" io ho avuto un sacco di traumi di vario
genere, in un anno sono invecchiato molto. Uno non si vede mai come
è veramente, però credo che dai 23 ai 24 anni c'è proprio un salto,
mi sento molto cambiato.
ROMANO - Se il
disco della "Pecora" è abbastanza ermetico, fatto per te stesso,
senza preoccuparti minimamente di come sarebbe stato interpretato da
chi ti ascoltava, in "Rimmel" c'è invece lo sforzo di essere più
comprensibile.
DE GREGORI -
Questo è vero.
ROMANO - Tranne
questo pezzo: "Il signor Hood", con questa dedica in copertina "A M.
con autonomia" questo codice, questo linguaggio cifrato, la dedica,
mi sembrano cose completamente estranee al tuo tentativo di
chiarezza.
DE GREGORI -
Sì, però "Il signor Hood" ha una chiave musicale, se non altro, se è
poco chiara dal punto di vista dei testo, musicalmente è una cosa
facile ed è già una canzone più umile - di "Bene", "Il signor Hood"
è una canzone che la gente si gode di più, credo.
ROMANO - Il
discorso è più complicato; c'è questa paura di essere ingannati, per
esempio moltissime delle lettere che arrivano su di te a "Popoff" in
sostanza chiedono: "Mi devo fidare o no? ".
DE GREGORI - Le
orecchie ce le hanno, mica gli ho promesso una candeggina migliore
di un'altra; e poi uno che scrive a te chiedendo "mi devo fidare di
De Gregori?", è una persona che qualsiasi risposta gli dai, dirà:
"mi devo fidare di Michelangelo?". E continuerà a chiedere conferma
in giro finchè non userà le sue orecchie e dirà: "No, non devo
fidarmi". Uno che mi accusa di essere di sinistra perchè così
guadagno due milioni, non merita nessun tipo di risposta, non gliela
voglio dare, mi pesa dargliela...
ROMANO -
Parliamo di "Pablo"; qui un discorso sull'emigrazione, ma spesso è
stato frainteso, c'è chi ha pensato che ti riferissi a Neruda, chi a
Picasso, nessuno ha pensato a un operaio spagnolo.
GIACCIO - Anche
perchè era morto in quei giorni Neruda, e c'era una frase che poteva
far pensare... soprattutto se in copertina non c'è scritto: "guarda,
è un emigrante spagnolo".
DE GREGORI -
"Pablo" è stata usata come motivo da discoteca per ballarci sopra,
ma anche come slogan politico, quando hanno ammazzato Pietro Bruno,
perchè su palazzo Venezia c'era scritto: “Hanno ammazzato Pietro,
Pietro è vivo". Quando uno prende una mia canzone e la usa sia per
ballare che per parlare di uno che è stato ammazzato il giorno
prima, il massimo dell'ambiguità è stato raggiunto, ed io so
benissimo che l'utilizzazione delle mie canzoni non è un fatto
controllabile da me; quindi quando vedo certe cose ti posso dire che
al limite sono giuste tutte e due, sia che si balli in discoteca sia
che sia scritta sui muri in quel modo. Forse l'una è la conseguenza
dell'altra, cioè se non fosse stata ballata in discoteca per tutta
una estate probabilmente non avrebbe avuto la sua funzionalità come
slogan.
GIACCIO -
Perchè. proprio un emigarante spagnolo?
DE GREGORI - Ma
perchè in tutte le canzoni che ho sentito sull'emigrazione c'era
sempre un'immagine abbastanza stereotipa dell'emigrante italiano,
che è giusta fra l'altro, però volendo fare un'altra canzone
sull'emigrazione, ho pensato di allargare il discorso e di parlare
anche degli altri compagni emigranti, parlare anche della Spagna che
era... che è tutt'ora, forse allora più di adesso, in una situazione
abbastanza critica dal punto di vista della democrazia, e questo tra
l'altro mi forniva lo spunto per fare il discorso vero della
canzone, che è il rapporto fra due emigranti diversi per lingua, per
tradizioni, idee, e parlare di questa loro incapacità a comunicare
realmente, a intendersi e anche a difendersi; sono due emigranti di
quelli che non tornano mai a votare, di quelli non politicizzati, di
quelli che alla fine si fanno pagare e si fanno ammazzare.
GIACCIO - Poi
c'è "Buonanotte fiorellinó" forse la canzone più nota di tutto l'LP,
che è arrivata anche ad un pubblico diverso dal tuo; c'è gente a cui
piace "Buonanotte fiorellino" e il resto del disco non lo ascolta.
DE GREGORI -
Mah, non lo so, io "Buonanotte fiorellino" l'ho scritta perchè
volevo fare una canzone apparentemente dolce, poi tutto sommato
tragica, non so se poi la gente se ne accorge. Comunque volevo anche
scandalizzare quelli che si aspettavano da me sempre le cose
impegnate, le cose pallose; volevo rivendicare il diritto di fare un
“valzer musette”; c'è solo da dire molto onestamente che forse è il
momento musicale in cui io ho rasentato il plagio più da vicino,
perchè c'è una canzone di Dylan alla quale mi sono proprio ispirato
a tavolino per la musica, che si chiama "Winterlude", da"New
Morning"; ho preso da Iì l'idea di fare il valzer.
GIACCIO - "Le
storie di ieri" è uno dei più interessanti manifesti
dell'antifascismo che la musica ha prodotto in questo periodo...
DE GREGORI -
C'è da dire di questa canzone che arriva con un anno di ritardo
rispetto a quando doveva essere pubblicata. Questa canzone era
pronta sul disco della "Pecora" e la RCA non me la fece per ragioni,
dissero loro, di inopportunità politica; dopo un anno,
evidentemente, l'antifascismo era diventato più accettabile anche
per i mass-media, e quindi la canzone venne inserita. Credo che
sarebbe stato più bello e più utile se la canzone fosse uscita con
la Pecora; nel 1973 era molto meno scontato dire in una canzone che
i capi hanno la cravatta e la faccia pulita.
GIACCIO - A
proposito di "Le storie di ieri" mi ricordo che quando ci vedemmo a
quei tempi, prima che uscisse "Rimmel" Michelangelo ed io volevamo
fare questa trasmissione alla televisione, che poi è venuta
abbastanza squallida, volevamo farla con te, Alan Sorrenti e
Venditti, ci vedemmo, tu mi desti questo testo, io lo portai alla
televisione, la televisione bocciò il testo, tornai da te e
discutemmo a lungo, tu decidesti "No, o canto questa canzone o non
vengo". Dopo di che sei andato ad una rassegna di cantautori e non,
ripresa dalla televisione, in cui hai cantato "Piccola mela" e "Le
storie di ieri"; poi al momento di trasmetterla andò solo "Piccola
mela” e tagliarono "Le storie di ieri", cosa che io già sospettavo,
conoscendo quelli della televisione, che erano gli stessi con cui
avevo parlato io...
DE GREGORI - Ti
spiego, nel caso del programma con Alan e Venditti, mi dissero in
partenza che la canzone non sarebbe passata, invece nel caso della
rassegna, sia Ravera che l'organizzava, sia l'Ufficio Stampa della
RCA, mi dissero, mi assicurarono che la canzone sarebbe andata in
onda, quindi fu un mio peccato di ingenuità credere a loro, un
peccato che non commetterò più. Ed io ci andai pensando che almeno
facevo ascoltare il sabato sera questa canzone, accanto a Cocciante,
a Mia Martini e Baglioni, quindi in un programma di grande ascolto.
Poi invece loro la tagliarono, e ancora oggi se tu vai all'Ufficio
Stampa della RCA, vedrai che ti risponderanno. che è stata tolta per
errore, cioè un tecnico ha pensato che fosse uno spezzone di nastro
da buttare via e l'ha buttato nel secchio; questa è la tesi che mi
hanno riferito quando sono andato a protestare. La conseguenza è che
adesso non faccio più spettacoli in televisione, quella è stata la
mia ultima esperienza televisiva, e adesso se faccio spettacoli in
televisione, li faccio solo in diretta, quindi non ne faccio.
GIACCIO -
"Piccola mela" come è nata?
DE GREGORI - Il
testo è tratto da una canzone popolare sarda, la musica è mia,
ricalca certe cose popolari, però non sarde, perchè le musiche sarde
sono praticamente atonali, e invece ricalca un po' la musica
toscana; mi viene da ridere quando poi vado a fare gli spettacoli
per i Circoli Ottobre e mi dicono "De Gregori non fa le canzoni
legate alle masse, tanto è vero che Piccola mela" non la capisce
nessuno". Ed è una canzone popolare: è una specie di "rispetto
amoroso"; c'è uno che si rivolge a una donna e le dice: "se non mi
ami vorrei che ti portassero in piazza, ti legassero, eccetera". Il
"Mi metto in tasca una piccola mela, mi metto in tasca un piccolo
fiore" è un riff letterario, tipo gli stornelli romani che dicono:
"fior de rosmarino, fior de pane"... non è niente di misterioso
insomma.
GIACCIO - Poi
c'è ”Piano bar” in cui ti riferisci a Venditti.
DE GREGORI -
Invece è un errore completo.
GIACCIO - Ma
allora come sono venute fuori queste interpretazioni?
DE GREGORI -
Non lo so, qualcuno che odia Venditti avrà pensato che lui fosse un
pianista di piano bar; io l'ho scritta pensando a un certo tipo di
musicista, di quelli che suonano perchè sono pagati, solo che qui
c'è il risvolto rock...
GIACCIO -
Pensando a qualcuno in particolare?
DE GREGORI - Mi
ricordo che stavo all'Hilton, perchè un pazzo mi aveva dato un
appuntamento all'Hilton per parlarmi, alle cinque del pomeriggio, e
in questa enorme hall vuota c'era uno che suonava delle musichette
terribili sul pianoforte: lui cantava e suonava, malissimo, e non
gliene fregava niente a nessuno: allora pensai di fare questa
canzone sul piano bar, poi forse scherzando avrà detto che sembrava
Venditti. E poi non credo che sia importante sapere esattamente a
chi è dedicata una canzone, è come quando i Beatles fanno 'Lucy in
the sky with diamonds" e ci sono schiere di diciottenni che dicono
"vedi, è L.S.D."; può essere, non essere, che ti frega, 'Lucy in the
sky" è lì, è bella o brutta indipendentemente dai suoi significati
puntuali, precisi, mi fa paura insomma vedere le cose così.
ROMANO -
Concludendo, come giudichi "Rimmel", che è stato il disco del
passaggio da un numero ristretto di ascoltatori ad un successo
iperbolico di circa 200.000 dischi venduti? Non credo che puoi
ignorare il fatto che "Rimmel" è stato ai primi posti delle
classifiche per più di un anno; ti giustifichi in qualche modo
questo enorme successo di vendite che ha avuto?
DE GREGORI – E’
un problema di chi lo compra anche questo, non so, penso che sia un
disco più gradevole all’ascolto di quelli che ho fatto prima. I
contenuti di questo disco mi piacciono, canzone per canzone le amo
tutte. Credo che sarebbe piaciuto anche se non avesse venduto tanto,
perché molta gente dice che è brutto solo perché è stato in
classifica.
da FRANCESCO DE
GREGORI, UN MITO
di Michelangelo Romano, Paolo Giaccio e Riccardo Piferi
-
Edizioni Lato Side – 1980
|
LE
STORIE DI IERI (La Storia, passata e recente, nella storia del testo di una
canzone)
Tutti
gli appassionati di De Gregori e di De André conoscono la vicenda della canzone
Le storie di Ieri. Lo stesso De Gregori ne
ha fatto recentemente cenno nelle web-note-di-copertina di Amore nel Pomeriggio,
in riferimento al suo soggiorno in Gallura a casa di Fabrizio De André, tra il
’73 e il ’74, e alla stesura
dell’album Volume VIII (l’album di De André scritto anche assieme a De
Gregori); scrive De Gregori che nell’album, per volontà di De André, fu
inserita Le Storie di ieri , canzone scritta da De Gregori, che la RCA (sua casa
discografica dell’epoca) si era rifiutata di fargli incidere sull’album
Francesco De Gregori del 1974,
quello che, per via della copertina, è comunemente soprannominato “La
Pecora”. Soltanto successivamente, una volta che la canzone era
stata…‘sdoganata’ da De André, De Gregori poté inciderla sull’album
Rimmel, del 1975. Dunque, Le Storie
di ieri è una canzone già scritta tra il ’73 e il ’74, non viene incisa
nel ’74 sulla “Pecora” perché non considerata sufficientemente
“politically correct” e conosce nel 1975 ben due uscite discografiche, la
prima in Volume VIII, l’altra in Rimmel.
Chiunque
ascolti le due versioni potrà accorgersi che i rispettivi testi presentano
delle differenze non trascurabili, tali da denotare atteggiamenti psicologici e
politici abbastanza diversi: se la versione di Rimmel è nettamente più
‘militante ’ e lascia intendere una condanna più marcata del fascismo e dei
suoi rigurgiti nel presente, quella di Volume VIII sembra più ‘comprensiva’
e, pur nella
condanna, mantiene una sorta di ‘umana pietà ’ nei confronti
dei vinti, che sicuramente hanno sbagliato, ma forse lo hanno fatto in quanto
sognavano un futuro diverso. La versione di Volume VIII sembra in qualche modo
anticipare l’atteggiamento della canzone Il Cuoco di Salò ( dell’album
Amore nel Pomeriggio del 2001), dove De Gregori, pur inflessibile
nell’indicare qual è “la parte sbagliata”, focalizza l’attenzione sul
fatto che pure da quella parte “si muore” e pure morendo dalla parte
sbagliata “si fa l’Italia”. In particolar modo, le differenti atra le due
versioni si colgono nei versi iniziali: in Rimmel il padre dell’io narrante
“ha una storia comune condivisa dalla sua generazione” e si sa che la storia
è una cosa pesante, che implica un’assunzione di responsabilità, la
“storia dà torto o dà ragione” come reciterà il testo di un’altra nota
canzone di Francesco De Gregori; la versione di Volume VIII si limita ad
asserire che “aveva un sogno comune”, portando il discorso nel campo
soggettivo delle passioni, delle ragioni, delle aspirazioni, dei sogni appunto,
dei singoli, che pur implicando delle responsabilità storiche oggettive, non
possono esservi ridotti del tutto. Poco più avanti, con chiaro riferimento a
Mussolini, la versione di Rimmel recita che “troppi morti lo hanno
smentito”, quella di Volume VIII che “troppi morti lo hanno tradito”.
Il significato di fondo è lo stesso, ma in Rimmel è espresso in maniera
più marcata: se qualcuno viene smentito vuol dire che si afferma il contrario
di ciò che dice, si dimostra che ha torto, addirittura si dimostra che ha
mentito; il verbo “tradire” non mantiene la stessa connotazione, anzi
generalmente chi viene tradito sta subendo un torto; chiaramente la versione di
Volume VIII è ironica e afferma le stesse cose in modo probabilmente più
tagliente, più sottile, ma, letta in maniera superficiale, potrebbe dare adito
a fraintendimenti; ebbene, magari a scapito dell’ironia e della poesia, questi
fraintendimenti in Rimmel vengono spazzati via, attraverso l’uso di un termine
(“smentito”) che non lascia spazio a nessun possibile dubbio. Nella terza
strofa, poi, sempre in riferimento a Mussolini e al fatto che “ha scritto
anche poesie”, la versione di Rimmel commenta “i poeti che brutte creature
ogni volta che parlano è una truffa”, in Volume VIII
al posto della parola “brutte”
troviamo “strane”: la seconda parte della frase fa sì che il contenuto del
verso sia inequivocabile, ma in Rimmel l’espressione “brutte creature” è
assai più esplicita. Anche qui i due testi dicono sostanzialmente la stessa
cosa, ma in Rimmel l’affermazione presenta un giudizio di valore, che in
Volume VIII è rimandato alla parte finale del verso, mentre in questa prima
parte con “strane” ci si deve accontentare dell’affermazione che Mussolini
(così come tutti i poeti) non lo si capisce fino in fondo.
LICOLA (settembre 1975)
Il ricordo è questo: io dormo tranquillo nel mio letto, è mattina presto, sento
un rumore sulle persiane, come qualcosa che urta con un colpo secco. Il sogno
svanisce lentamente mentre i rumori della realtà entrano nella coscienza.
Prendono forma la fisionomia degli oggetti che si trovano attorno a me.
Finalmente realizzo le circostanze spazio-temporali. Sono dei sassi contro la
finestra, e qualcuno chiama ridendo. Mi affaccio e vedo sulla strada Francesco
che grida: «Sveglia, pigrone! Si va a Licola!».
Vi capita mai di
vivere qualcosa che vi sembra di avere gia vissuto? lo talvolta provo questa
curiosa e inquietante sensazione.
Comunque per me
era come se mi avessero invitato a pescare, perché avulso com'ero dalla realtà
circostante, non sapevo assolutamente cosa fosse Licola: immagini di tonni
sventrati, di fichi d'India sotto il sole rovente. Licola, una spiaggia
certamente, forse teatro di sbarco di truppe alleate, confine tra la terra e il
mare.
Invece Licola
era un palcoscenico immenso, era una delle date da ricordare, un avvenimento
decisivo. Francesco e io viaggiavamo tranquilli da Roma a Napoli sulla nuova
Renault 4 blu metallizzata acquistata in sostituzione di quella verde pisello
che aveva praticamente esalato l'ultimo respiro sulle impervie colline
dell'isola d'Elba. Avevo assistito a quell'acquisto: ci eravamo recati insieme
alla principale concessionaria Renault di Roma, ed eravamo stati ricevuti da uno
dei venditori e da un tecnico francese che parlava un italiano un po' stentato
ma assolutamente chiaro. Francesco aveva deciso l'acquisto, ma fingeva di non
essere perfettamente convinto, ed esaminava la vettura con atteggiamento
ipercritico. Apriva gli sportelli e quindi li chiudeva brontolando ad alta voce
sulla approssimazione meccanica dei meccanismi. Ripeteva continuamente che
tutto era ben diverso da quanto realizzato dagli efficientissimi tecnici
tedeschi della Volkswagen. Apriva e chiudeva gli sportelli e si rivolgeva a me
dicendo: «Guarda! bisogna dare un colpo secco, quando con le vetture tedesche è
sufficiente lasciare andare lo sportello per vederlo chiudersi da solo con uno
scatto, spinto dal suo stesso peso». Potete bene immaginare quanto queste
osservazioni fossero gradite per il tecnico francese. Digrignava i denti e
faceva sforzi veramente ammirevoli per trattenere l'esplosione dei suoi
sentimenti. Alla fine di questa tortura Francesco dichiarò con un sorriso che
comunque la vettura gli sembrava accettabile, e che aveva deciso di acquistarla,
provocando una catarsi quasi tangibile. Diede istruzioni circa il tipo di
impianto stereo che desiderava che vi fosse installato, e lasciò sereno il
terreno di battaglia. Non ho la più pallida idea in merito a chi fu la vittima
oggetto dello sfogo della rabbia repressa del meccanico francese, ma immagino
che il poveretto abbia passato un bruttissimo quarto d'ora.
Fu proprio su
quel veicolo che ci dirigemmo alla volta di Licola, ascoltando nastri di Dylan
sul magnifico impianto stereo montato con rabbia e rancore. Giungemmo in
prossimità di Licola quando il sole stava già tramontando, e rimasi stupito
dalla incredibile quantità di persone che fluivano lungo la strada a piedi verso
la spiaggia. Erano talmente numerosi che noi eravamo costretti a procedere a
passo d'uomo per non correre il rischio di urtare qualcuno e fargli del male.
Altro motivo di grande stupore per me consisteva nel fatto che molti dei ragazzi
accanto ai quali passavamo in macchina riconoscevano Francesco, si avvicinavano
con un sorriso e gli facevano domande sulle sue canzoni. In particolare ricordo
che chiedevano soprattutto chi fosse veramente il Cesare della canzone Alice, e
formulavano ipotesi incredibili, comunque sempre ben lontane dalla verità, che
Francesco confermava spudoratamente con aria convinta. Altri desideravano
informarsi sul motivo che aveva indotto Francesco a dedicare una canzone a Pablo
Neruda, e questi ultimi ricevevano risposte più ironiche.
Procedemmo per
molti minuti fagocitati dal fiume di persone, e finalmente giungemmo in
prossimità del palco, dove fummo accolti con premura dagli organizzatori.
Qualcuno stava suonando, e il suono giungeva distorto dietro il palco. Mentre
Francesco discuteva appoggiato alla custodia della sua chitarra, io salii i
gradini del palco, per sbirciare, e rimasi esterrefatto nel constatare la
quantità di persone che affollavano la spiaggia. Ragazzi e ragazze tutti vestiti
di jeans, tutti attenti e presenti, tutti con la ghiandola dell'atteggiamento
critico ben gonfia. Qualcuno accorse e disse a Francesco che era giunto il suo
turno. Lui sali sul palco accolto da un applauso e cantò tre canzoni
velocemente, senza lasciare ad alcuno la possibilità di respirare e riflettere.
Alla fine della terza canzone dichiarò che sfortunatamente la sabbia della
spiaggia gli era entrata sotto le unghie rendendo molto difficile accompagnarsi
con la chitarra. Disse che comunque non c'era ragione di preoccuparsi, perché
al suo posto avrebbe suonato un carissimo amico. Quindi si voltò dietro verso di
me e mi fece cenno di raggiungerlo sul palco. Attraversai i cinque metri di assi
di legno che mi separavano dal nero abisso come se stessi attraversando il Mar
Rosso, in un silenzio irreale. Raggiunsi il microfono e cantai di un fiato un
paio di canzoni sul Cile. Quindi salutai con un inchino e lasciai il palco.
Fuggimmo insieme da Licola con la stessa allegria di due rapinatori che sono
appena riusciti a portare a termine un furto con destrezza particolarmente
gratificante.
In un secondo
tempo appresi il motivo della sensazione di pericolo che mi aveva tenuto vigile
e desto: fu il primo raduno nel quale il pubblico contestò energicamente coloro
ai quali riteneva di dover rimproverare qualche cosa. Ne fecero le spese
soprattutto il povero Alan Sorrenti, che già aveva dato un sensibile colpo di
timone alla propria forma di espressione artistica realizzando Dicitencello vuje,
e già meditava ben di peggio, dopo avere realizzato un paio di long-playing
decisamente interessanti in quanto a ispirazione e ricerca. Mi dissero che fu
oggetto di un nutrito lancio di lattine di Coca Cola e di un'ovazione di
disapprovazione. Il secondo malcapitato fu l'amico Corrado Sannucci, il quale
ebbe il coraggio o forse l'imprudenza di cantare, tra le altre tostissime
canzoni di contenuto profondamente sociale - pur vestito con la sana ironia che
lo contraddistingueva - un brano dedicato a una sua ex fìdanzata, nel quale egli
sottolineava con un sorriso taluni atteggiamenti estremizzanti allora comuni a
un certo tipo di militanza femminista. La canzone si chiamava La caffettiera, e
il momento più pregnante era quello nel quale lui e lei, dopo un chiarimento
molto esplicito circa la sfrontatezza di certi riprovevoli atteggiamenti
maschilisti, si recano entrambi in corteo in cucina per preparare insieme il
caffè che egli aveva sperato gli fosse portato a letto poiché febbricitante. Ho
chiesto più volte a Corrado cosa accadde veramente quella sera a Licola, quando
le numerosissime femministe allora presenti ascoltarono questo brano, ma
Corrado, ne ignoro il motivo, ha sempre cambiato prontamente argomento.
Tutto ciò era
evidentemente nell'aria, e sicuramente Francesco e io ce ne eravamo
inconsciamente resi conto: ecco perché sfrecciavamo con la Renault 4 alla volta
di Napoli, felici di avere affrontato la belva senza avere ricevuto alcuna
zampata.
tratto
da DE GREGORI di Giorgio Lo Cascio - Muzzio
Editore (1990)
ANALISI SU QUANTO HA INFLUITO VOLUME VIII DEL 1974 CON RIMMEL
Ci
si potrebbe chiedere quale sia il rapporto tra i due testi e cosa stia alla base
di varianti per nulla trascurabili, ma presenti in due versioni le cui uscite
discografiche non sono poi così lontane nel tempo.
Si può ipotizzare che la versione presente in Volume VIII corrisponda
effettivamente alla canzone così come concepita originariamente da De Gregori e
che Rimmel rifletta un ripensamento successivo. Oppure, che in Volume VIII il
tono della canzone sia stato attenuato per motivi di opportunità politica, in
maniera da rendere possibile l’uscita del brano senza censure; o per adattare
la canzone al temperamento di De André, più portato alla comprensione che alla
condanna dei vinti, meno allineato politicamente e meno assimilabile ad un ovile
ben definito, magari proprio per questo portato a guardare oltre le righe.
Quest’ultima ipotesi tenderei ad escluderla, a partire dalle notizie di una
versione dal vivo di De André di Via della Povertà (traduzione a quattro mani
con De Gregori, di Desolation
Row di Bob Dylan), risalente alla fine del 1974,
in cui, riprendendo una pratica
dylaniana, i nomi dei personaggi
della canzone venivano sostituiti con quelli di personaggi dell’attualità.
Ebbene, nella seconda strofa, che
presenta un riferimento esplicito ad Almirante, De André è molto meno
indulgente nei confronti dei cosiddetti
‘vinti’ di quanto non lo sia ciascuna delle due versioni di Le Storie di
ieri (per
una lettura del testo della canzone, che tra l’altro contiene
riferimenti a personaggi come Covelli, leader monarchico, all’epoca confluito
nell’M.S.I.-D.N., Paolo VI,
Berlinguer, Agnelli, Montanelli, l’allora Presidente della Repubblica
Leone, rimando all’ottimo sito, http://www.viadelcampo.com/html/canzoni1.html).Un
eventuale abbassamento dei toni della canzone Le Storie di ieri rispetto
all’originale degregoriano non deve essere dunque attribuito alla volontà o
al temperamento di De André .
Devo
dire che ascoltando le due versioni sono sempre, istintivamente, stato
dell’idea che quella di Volume VIII corrispondesse, almeno a grandi linee, al
testo originario di De Gregori e che la canzone, così come incisa in Rimmel,
rappresentasse uno stadio successivo, un’evoluzione dettata dal mutamento
delle condizioni politiche e dall’acuirsi della lotta tra destra e sinistra.
Questa, che poteva risultare soltanto un’impressione, un’ipotesi, una
congettura è diventata qualcosa di più, quasi una certezza, nel momento in cui
sono entrato in possesso di una terza versione di Le storie di ieri, eseguita da
De Gregori e risalente con tutta probabilità ad un periodo precedente le altre
due. Questa fortunata circostanza è dovuta al fatto che, grazie anche alla
potenza della rete, sono venuto in possesso di copia di due CD di inediti e
rarità di incisI da De Gregori negli anni ’70. La traccia 6 del primo CD è
appunto una versione di Le Storie di
ieri, eseguita da Francesco alla chitarra e alla voce. Non è possibile entrare
nel merito del contenuto dei due CD e della provenienza dei brani, ma tutto
lascerebbe pensare che questa traccia risalga ad un periodo precedente l’album
“Pecora” e preparatorio a questo. A partire da una serie di caratteristiche
“oggettive” (qualità del suono, timbro di voce di De Gregori, esecuzione
live o in studio, esecuzione solo chitarra e voce o con complesso strumentale,
presenza o meno di Lucio Dalla alla voce o al sax,
brani in italiano o in traduzione inglese) è possibile suddividere tutto
il materiale dei due CD in almeno quattro cinque gruppi e forse in ulteriori
sottogruppi. Tra questi, uno dei più interessanti è caratterizzato da 11
brani, editi e inediti, eseguiti in studio da un De Gregori dal timbro di voce
giovanile con soli chitarra e voce e qualità del suono piuttosto buona. I pezzi
da includere in questo gruppo sono: Mercato dei Fiori (1,1), pezzo inciso
peraltro da Patti Pravo nel 1975 sulla B side della hit Incontro (per la
copertina del 45 giri, cfr. il sito
http://www.coltempo.it/discografia/45incontro.htm),
Signora Aquilone (1,3), Le Storie di ieri (1, 6), Souvenir (1,7), Dolce
Amore del Bahia (1, 20), A Lupo (1, 21), Cercando un altro Egitto (1, 22),
Niente da capire (2,1), altri tre
brani, mai incisi da De Gregori, di cui non saprei dire il titolo (1,2; 1,4;
1,5), l’ultimo dei quali presenta come accompagnamento di chitarra il tema che
più tardi sarà utilizzato per la colonna sonora di Flirt (da notizie spulciate
in libreria in un libro su De Gregori, scritto da Marco Bonanno, il testo
sarebbe di Giorgio Lo Cascio) . Le versioni dei brani editi risultano diverse da
quelle incise
successivamente e spesso presentano delle varianti testuali. La
voce assai giovanile, il tipo di accompagnamento, i titoli dei brani editi, così
come lo stile dei testi e della musica dei brani inediti, inducono ad attribuire
con assoluta certezza i brani ad una o più sessioni databili nella prima
metà degli anni ’70.
La presenza di ben cinque brani poi incisi sulla
“Pecora”, in versioni leggermente diverse da quelle della “Pecora” (e
con arrangiamenti, sembrerebbe impossibile, più scarni) mi fa pensare che
almeno una parte del materiale in questione costituisca una serie di
‘provini’ effettuati nel periodo precedente la realizzazione del disco, da
cui poi sarebbero stati selezionati i brani effettivamente incisi, databili
quindi in un lasso di tempo tra il ’73 e il ‘74.
La notizia confermata da De Gregori che Le Storie di Ieri non fece parte
della “Pecora” in quanto scartato dalla RCA sembra un indizio piuttosto
forte del fatto che la traccia con il brano debba essere inserita in questo
gruppo e che dunque si tratti della versione originale, o quantomeno di una
versione anteriore a quelle edite. Naturalmente, siamo finora nel campo delle
congetture e, anche se si tratta di congetture piuttosto plausibili, esse si
scontrano con il fatto che finora non sappiamo nulla di certo sulla provenienza
dei brani e soprattutto sul numero di sessioni che furono necessarie a
registrarli.
Un
modo di giungere ad una conferma, per lo meno parziale, di queste congetture è
dato dall’analisi puntuale dei testi e dal confronto delle varianti delle tre
versioni (la traccia inedita e le due versioni edite di Le storie di ieri). Darò
per scontata la conoscenza del testo della canzone (che in ogni caso riporto
alla fine dell’articolo nella versione di Rimmel) e indicherò i versi in cui
sono rinvenibili elementi di discordanza tra almeno due delle tre versioni,
indicando la traccia inedita con TI, la versione cantata da De André con DA, la
versione di Rimmel con R. (In altre parole, gli unici versi che non citerò sono
quelli in cui tutte e tre le versioni sono concordi).
Un
metodo utile per giungere a una datazione dei tre testi è il computo statistico
delle concordanze e delle discordanze. Prima di mostrare i risultati indicherò
alcuni criteri che ho seguito: ho contato quelle dei vv. 1 e 2 come un’unica
variante, dal momento che l’uso di “condiviso” piuttosto che
“condivisa” costituisce una conseguenza necessaria dell’uso di “sogno”
piuttosto che di “storia”. Analogamente, ho considerato un’unica variante
quella dei vv. 24-25, visto che l’uso di “cravatta intonata” piuttosto che
“cravatte intonate” al verso 25 dipende dall’alternativa tra “faccia
serena” o “facce serene” del verso 24. Lo stesso ho fatto per i vv. 9-10,
in cui l’inizio del verso è lo stesso ripetuto (e variato nelle diverse
versioni). Per quel che riguarda il v. 13, ho computato separatamente la
concordanza di TI e DA nell’utilizzo della parola “strane”, piuttosto che
“brutte” e la concordanza di DA e R nell’omettere
l’espressione “ah” all’inizio del verso. I risultati cui sono pervenuto
sono i seguenti:
Come
si vede, il minor grado di concordanza è quello della traccia inedita (TI) con
la versione di Rimmel (RI): vi è un solo caso (più precisamente ai versi 9-10)
in cui le due versioni siano in accordo tra loro e in disaccordo con quella di
Volume VIII. Le versione cantata da De André (DA) si ritrova in una sorta di
posizione intermedia, dal momento che in quattro casi si trova in accordo con la
traccia inedita (e in disaccordo con Rimmel) e in quattro casi si trova in
accordo con Rimmel (e in disaccordo con la traccia inedita).
Vi è poi un caso piuttosto interessante, e su cui varrà la pena di
tornare in seguito, in cui ogni versione risulta autonoma dalle altre due (vv.
24-25).
Se
il computo eseguito è corretto, ne risulterà che la versione di Volume VIII
(DA), risultando intermedia a livello di testo, sarà con tutta probabilità
intermedia anche da un punto di vista cronologico e, dal momento che sappiamo
che la versione di Rimmel è più recente rispetto a quella di Volume VIII, ne
risulterà che la traccia inedita è la versione più antica delle tre.
Tutto questo non fa altro che confermare le precedenti congetture sul
fatto che la traccia inedita sia un provino risalente al periodo preparatorio
della “Pecora”, scartato dalla RCA per motivi di opportunità politica.
Se
dunque siamo in grado di attribuire un ordine cronologico più che plausibile ai
tre pezzi, diviene possibile seguire nei dettagli l’evoluzione del testo e
individuare il tipo di varianti che segnano l’evoluzione dalla traccia inedita
alla versione di Rimmel, passando per Volume VIII.
Dei
sei casi in cui DA si differenzia da TI, ben 4 costituiscono dei cambiamenti
puramente stilistici: ai vv 9-10 ( “chiude gli occhi e comincia a sognare,
chiude gli occhi e comincia a volare”) “comincia” viene sostituito con
“si mette”; dei quattro mutamenti puramente stilistici è l’unico che non
venga ripreso nella versione di Rimmel e non escluderei che la variazione possa
attribuirsi ad una scelta di De André al momento di incidere la propria
versione. Al verso 13 (in TI “ah i poeti che strane creature”)
l’esclamazione iniziale (“ah”) viene omessa in DA (e poi in R).
Altro cambiamento stilistico si riscontra al v. 26, dove “il bambino
nel cortile si è stancato” di TI, diventa “si è fermato” in DA (e in R);
questo cambiamento è di certo un miglioramento, dal momento che permette di
evitare la ripetizione dell’espressione “si è stancato”, presente
all’inizio del verso successivo. Ultimo dei 4 cambiamenti puramente stilistici
è il fatto che, diversamente da quanto succeda in DA e poi in R, il verso
finale in TI è ripetuto 2 e non 3 volte. Al
verso 21, si ritrova invece un cambiamento non solo stilistico, che però non
stravolge il contenuto della canzone: all’espressione di TI
“E anche adesso è rimasta una scritta”
DA (seguito da R) aggiunge l’aggettivo “nera” (suggestione, quella
del colore nero, del resto già presente al verso 12 in tutte e tre le versioni:
“ a giocare col nero perdi sempre”).. La variante dei vv. 24-25 è forse una
delle più interessanti dell’intera canzone: la versione di TI recita
“Almirante ha la faccia serena, la cravatta intonata alla camicia”; in DA al
posto di “Almirante” troviamo “il gran capo”: è abbastanza facile
intuire il motivo di questo cambiamento: se anche il già affermato De André
poteva permettersi di incidere una canzone come Le storie di ieri (o magari la
RICORDI, per cui venne inciso Volume VIII, era meno restia della RCA) non per
questo era possibile (o consigliabile ) citare esplicitamente il nome di un
politico (per giunta, Almirante), per cui come per diverse altre canzoni di De
Gregori censurate all’epoca (gli esempi più celebri sono quelli di Alice e
Niente da capire, ma proprio da questi CD di inediti risulta che ad un’analoga
censura furono sottoposte Signora Aquilone, Sono tuo, Souvenir), si pensò ad
una soluzione alternativa: in questo caso, l’espressione “il gran capo”
poteva sembrare perfetta, perché oltre a fornire quella che nel contesto della
canzone può considerarsi una descrizione definita di Almirante, ha la stessa
struttura metrica della parola “Almirante”.
Se
le sei varianti di DA rispetto a TI derivano quasi esclusivamente da
preoccupazioni stilistiche o di censura e in ogni caso sono tali da non cambiare
di una virgola il significato e il clima psicologico e ideologico della canzone,
per quel che concerne il passaggio alla versione di Rimmel le cose sono, come si
è visto, abbastanza diverse. Vi sono in effetti anche qui un paio di mutamenti
puramente stilistici: ai vv. 9-10, come si è detto, viene ripresa la versione
di TI “comincia a sognare”; al
v. 27, poi, “si è stancato di seguire gli aquiloni” diventa “si è
stancato di seguire aquiloni”. Le altre quattro varianti, però, modificano in
maniera sostanziale se non il contenuto l’approccio della canzone. Delle prime
tre si è già avuto modo di parlare all’inizio: al v. 1 “un sogno comune”
diventa “una storia comune”, al
v. 4 “tradito” diventa “smentito”, al v. 13 “strane creature”
diventa “brutte creature”. Ai vv. 24-25 si riscontra una curiosa variazione:
se nella primissima versione della canzone si faceva esplicito riferimento ad
Almirante e in quella successiva vi si alludeva chiamandolo “il gran capo”,
qui troviamo “i nuovi capi” e sembra che l’oggetto polemico sia cambiato,
si sia esteso, o forse sia rimasto semplicemente sul vago. Forse l’espressione
“il gran capo” andava bene per De André e per
un disco inciso dalla RICORDI, ma era ancora troppo esplicita per i
discografici della RCA? Questo tenderei ad escluderlo, se non altro per il fatto
che la versione recitante il “gran capo” era ormai nota e dunque era palese
ed esplicito a chi si riferisse la canzone. E allora?
Devo dire che la prima volta che ho ascoltato la canzone (sarà stato
intorno al ’95 o giù di lì, anzi era proprio il ’95) ebbi un’impressione
strana: sapevo che il pezzo risaliva a 20 anni prima, ma mi pareva che
l’espressione “i nuovi capi” potesse riferirsi tranquillamente
all’attualità e alla nascita del Polo delle Libertà.
Cosa pensare, allora, che De Gregori prevedesse il futuro? L’ipotesi
non sarebbe del tutto peregrina, visto che in Miramare 19/4/1989 nel brano
Bambini Venite Parvuols cantò “legalizzare la mafia sarà la regola del
2000” e adesso, da qualche mese, è passata la Legge Cirami, ma, insomma, pure
la nascita del Polo delle Libertà? O dobbiamo per forza ricordare i versi
iniziali della canzone datata 1976 Disastro
Aereo sul canale di Sicilia
(“Risulta peraltro evidente, anche nel clima della distensione, che un
eventuale attacco ai paesi arabi vede l’Italia in prima posizione”)? O
forse, anziché pensare ad un De Gregori preveggente, dovremmo andare a cercare
nella realtà politica del 1975 e del periodo immediatamente precedente,
qualcosa che per certi aspetti possa assomigliare a quella che sarà poi la
fondazione del Polo, insomma una
sorta di allargamento del fronte della destra di derivazione fascista, tale da
giustificare l’allusione all’esistenza di “nuovi capi”.
Per
capire a cosa potrebbe alludere De Gregori e in generale per cercare di
comprendere alcuni dei motivi che potrebbero stare sotto la canzone e la sua
evoluzione, sarà opportuno richiamare alla mente alcune delle vicende politiche
che coinvolsero più o meno direttamente l’M.S.I., all’inizio degli anni
’70 (Almirante era divenuto segretario dell’M.S.I nel 1969 e direi con
assoluta certezza che questo è il termine post-quem della prima versione della
canzone). Senza entrare nel dettaglio dei fatti ormai storici dell’epoca,
individuerei alcuni elementi che possano in qualche modo aiutarci: in primo
luogo, il periodo che va dal 1969-70 al 1975 e oltre è segnato dal progressivo
acuirsi dello scontro politico, non sempre soltanto verbale, tra destra e
sinistra: è il periodo degli scontri di piazza, ma anche
della ‘strategia della tensione ’ (iniziata ufficialmente nel 1969,
con gli attentati dell’agosto e poi la strage di P.za Fontana il 12 dicembre)
e del terrorismo di destra, come di sinistra. In questo contesto, e in seguito
anche alle pesanti responsabilità di parte dell’M.S:I: nell’episodio dei
moti autonomisti di Reggio Calabria (a partire dal luglio 1970), diversi
esponenti della destra vengono indagati con l’ipotesi di reato di
“Ricostituzione del partito fascista”: il
3 marzo 1972 la procura di Treviso ordina l’arresto di Pino Rauti, fondatore
di Ordine Nuovo, anche con l’accusa di coinvolgimento negli attentati del
1969. Il 28 giugno del 1972 la procura di Milano chiede alle camere
l’autorizzazione a procedere contro Almirante, sempre per il reato di
“Ricostituzione del partito fascista”; il 24 maggio del 1973 le camere
concedono l’autorizzazione a procedere; le indagini successive non porteranno
a risultati concreti e i processi non si svolgeranno mai. In questi anni, la
politica dell’ M.S.I. segna inoltre un significativo mutamento: si va
profilando sempre di più l’ipotesi del Compromesso Storico, dell’alleanza
tra DC e PCI e l’ M.S.I. cerca di appropriarsi del ruolo di baluardo
anticomunista, cercando di costituire un fronte comune che, sotto la bandiera
dell’opposizione al comunismo, inglobi settori della destra più ampi di
quella tradizionalmente missina. È così che alle elezioni del maggio ’72
l’M.S:I: si allea con il partito monarchico (il PDIUM) sotto la sigla
di Destra Nazionale , ottenendo l’8.7% dei voti. Questo tentativo di
allargamento della destra andrà avanti fino al 1975-76. L’ultima fase di
questo processo ha luogo alla fine del 1975, con la fondazione promossa da
Almirante di una organizzazione più ampia del suo partito, esterna al partito e
denominata “Costituente di destra per la libertà”.
Credo
che gli eventi qui riportati brevemente possano aiutarci a ricostruire il
contesto in cui fu concepita e si sviluppò la canzone Le Storie di ieri. In
effetti il pezzo sembra muoversi su un doppio binario: per un verso, c’è la
patina di rispettabilità dei nuovi fascisti (l’unica strofa che rimane
identica in tutte e tre le versioni è la quarta, quella che inizia con “Ma
mio padre è un ragazzo tranquillo”, vv. 16-20), per un altro il continuo
ricordare e richiamare le loro radici storiche. Tutto questo trova una
rispondenza negli avvenimenti del ’72-’73:
l’M.S:I che tenta di recuperare una base di consenso più ampia (e in
parte ci riesce); le sue radici che, anche in seguito alle indagini della
magistratura, non possono essere negate. Si potrebbe addirittura ipotizzare che
lo stimolo a scrivere la canzone sia venuto a De Gregori proprio in seguito
all’episodio di Almirante indagato e quindi si potrebbe collocare la prima
stesura tra il ’72 e il ’73. La registrazione della versione inedita
potrebbe essere collocata tra il ’73 e il ‘74. Per quel che riguarda la
versione di De André, anche se il disco Volume VIII esce nel 1975, questa
riflette nella sostanza l’orientamento della versione inedita (forse a causa
della gestazione non brevissima dell’album). Il nuovo clima del 1975 si coglie
invece nella versione di Rimmel: si è detto che l’acuirsi del clima politico
può aver determinato una sorta di irrigidimento dei toni di certe espressioni e
a questo punto si può ipotizzare che l’espressione “i nuovi capi” possa
riferirsi alla fondazione (già avvenuta o comunque prospettata) della
“Costituente di destra per la libertà”.
|
«Avevo appena finito
questa canzone (“Pablo”), capivo fosse una storia interessante. E
gliela feci sentire, eravamo a Bari. Lui mi disse:”Bella, bella.
Però qui devi cambiare, perché l’inciso si pianta”. Lui cambiò
semplicemente una nota, ma quella nota dava un senso in più».
«Lucio era sovrastante,
era molto diverso da me, era immediatamente simpatico. Io no, avevo
un altro ruolo. Lui saliva sul palco e prendeva molti più applausi
di me. Tre quarti dello stadio lo invocava e un po’ soffrivo. Dalla
era abile a giocarsela sta cosa, un po’ ti voleva fregare. Io lo
sapevo e la sua inclinazione non ha mai scalfito la nostra reciproca
ammirazione: vera, profonda, sostanziale. La rivalità esisteva. La
soffriva anche lui. Per quello che rappresentavo. Sotto
quell’aspetto, era geloso di me. Mi chiamava il principe, mi
addebitava una certa alterità».
Pablo,
ad esempio, interpretata in modi diversi da ogni tipo di ascoltatore, eletta a
inno. Si è detto di tutto a proposito di chi sia veramente il protagonista
della canzone. Addirittura, quando il disco uscì, in concomitanza con la
condanna a morte di alcuni oppositori del regime franchista in Spagna, si disse
fosse stata scritta per loro.
"No, non esiste nessuna lettura dietrologica di questa canzone, che è
semplicemente quello che è: la storia, inventata, di un emigrante spagnolo in
svizzera che incontra un emigrante italiano, del loro modo di comunicare, della
solidarietà istintiva che li lega al di là delle differenze culturali e della
lingua diversa. Ma tutto questo è scritto chiaramente nel testo! Ma perché
qualcuno deve sempre pensare di essere più furbo o più informato di quello che
la canzone l'ha scritta?
Pablo è semplicemente una canzone sull'emigrazione, il canzoniere italiano, non
solo quello tradizionale, ne è pieno. L'emigrazione è una parte importante
della storia d'Italia, non occorre averla vissuta in prima persona per
sentirsene coinvolti, è nel nostro codice genetico. La novità di Pablo,
casomai, sta nel fatto che non è la comune appartenenza sociale a unire in
qualche modo i due protagonisti: dove ti aspetteresti la parola 'compagno' trovi
la parola 'collega'. Quello che sembra avvicinarli casomai è la comunità di
ricordi legati al mondo contadino, e magari una tazza di latte bevuto insieme in
una latteria di Zurigo.
Ecco; adesso l'ho spiegata. E' più bella adesso? Lasciami aggiungere che le
parole dell'inciso (hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo) alimentarono non poco
la mia fama di ermetico, ma evidentemente non erano così incomprensibili visto
che le ritrovai scritte su un muro di Roma quando lo studente Pietro Bruno morì
durante gli scontri con la polizia davanti all'ambasciata dello Zaire (a Roma,
il 22 novembre 1975, nel corso di una manifestazione a favore della libertà
dell'Angola). Leggere le parole hanno ammazzato Pietro e Pietro è vivo' fu come
un pugno nello stomaco e mi fece capire, se mai ce ne fosse stato bisogno, che
le canzoni non appartengono a chi le scrive ma sono da subito patrimonio di
tutti.
Dicono che Woody Guthrie non si fosse scandalizzato più di tanto quando la sua
'This land is your land' venne utilizzata nella pubblicità di una marca di
latte. Ma vedere quella scritta fu per me tutt'altra cosa: non era solo la
realtà quotidiana che drammaticamente si sostituiva alla finzione, ma era una
canzone di successo scritta da me che diventava, attraverso una mano
sconosciuta, la celebrazione della morte di un mio coetaneo". E' proprio
l'inciso di Pablo che porta la firma, come collaboratore, di Lucio Dalla:
"lo avevo
scritto una linea melodica leggermente diversa. Dalla invece gli cambiò tono in
quel punto e devo dire che questo ha reso la canzone molto più efficace".
Amicizia, quella con Lucio Dalla, che risale ai tempi della It, la prima
etichetta di Francesco, quella degli esordi: "Dalla era una specie di
folletto, lo incontravi ovunque ... lavorava con Sergio Bardotti però gli
piaceva anche lavorare con altri parolieri giovani. Edoardo De Angelis, il
produttore di Alice, scrisse un testo per una sua canzone, ad esempio. Era una
persona di grande talento e sicura simpatia. Mi piaceva moltissimo il suo
lavoro, dai tempi di 'paffbum' e 'quand'ero soldato', e a lui piaceva il mio. Il
suo intervento su Pablo nacque a Bari dove ci trovavamo non ricordo per quale
Festival. Gli feci sentire il pezzo appena scritto e lui mi suggerì questo
piccolo ma sostanziale cambiamento".
Grande canzone, anche se oggi fanno un po' sorridere quegli applausi posticci
appiccicati durante il secondo ritornello: "Si sente che sono applausi
finti, non avevo nessuna intenzione di farla sembrare registrata dal vivo:
volevo semplicemente quel suono lì, come avrei potuto metterci che so, delle
campane o un organo da chiesa. L'idea era quella di un messaggero a cavallo che
arriva e dà questa notizia, che Pablo è morto, ma è vivo; e a quel punto
parte l'applauso della gente. Non chiedermi il perché. Però l'idea era questa.
Sentivo la necessità di avere il suono degli applausi. Vennero fatti da tutti
quelli che erano in studio in quel momento: musicisti, assistenti, gente che
passava di là".
Tratto da
"Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera
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"Pablo" è stata usata come motivo da discoteca per ballarci sopra, ma
anche come slogan politico, quando hanno ammazzato Pietro Bruno, perchè su
palazzo Venezia c'era scritto: "Hanno ammazzato Pietro, Pietro è
vivo".
Quando uno prende una
mia canzone e la usa sia per ballare che per
parlare di uno che è stato ammazzato il giorno prima, il massimo
dell'ambiguità è stato raggiunto, ed io so benissimo che l'utilizzazione delle
mie canzoni non è un fatto controllabile da me; quindi quando vedo certe cose
ti posso dire che al limite sono giuste tutte e due, sia che si balli in
discoteca sia che sia scritta sui muri in quel modo. Forse l'una è la
conseguenza dell'altra, cioè se non fosse stata ballata in discoteca per tutta
una estate probabilmente non avrebbe avuto la sua funzionalità come slogan.
In
tutte le canzoni che ho sentito sull'emigrazione c'era sempre un'immagine
abbastanza stereotipa dell'emigrante italiano, che è giusta fra l'altro, però
volendo fare un'altra canzone sull'emigrazione, ho pensato di allargare il
discorso e di parlare anche degli altri compagni emigranti, parlare anche della
Spagna che era... che è tutt'ora, forse allora più di adesso, in una
situazione abbastanza critica dal punto di vista della democrazia, e questo tra
l'altro mi forniva lo spunto per fare il discorso vero della canzone, che è il
rapporto fra due emigranti diversi per lingua, per tradizioni, idee, e parlare
di questa loro incapacità a comunicare realmente, a intendersi e anche a
difendersi; sono due emigranti di quelli che non tornano mai a votare, di quelli
non politicizzati, di quelli che alla fine si fanno pagare e si fanno ammazzare.
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"Canzoni, e un po’ di champagne" (1975)
di Enzo Caffarelli
Tracciamo un profilo del celebre cantautore romano
facendoci illuminare dalla sua intervista: il successo delle sue canzoni e
il suo posto nel quadro delle esperienze dei cantautori italiani; Un
incontro a Rimini, all’Hotel Belle vue: protagonisti Antonello Venditti,
Francesco De Gregori, Enzo Caffarelli
Antonello riassume in sé le contraddizioni del
cantautore italiano anni settantacinque. Adesso alterna ai festival
dell’Unità e ai concerti gratuiti nelle piazze, le aristocratiche
balere rivierasche. Nel rigore del suo marxismo spiega che è giusto così,
che è logico e necessario portare i suoi problemi, la propria lettura ed
interpretazione della realtà sociale che ci circonda ad un pubblico
diverso dal solito, magari svogliato e disattento, abituato ad altri
discorsi, smanioso di ballare
Opportunismo tattico o compromesso con il sistema?
Il fatto è che rischia di trovarsi tutti contro.
Alcuni fans lo accusano di imborghesimento, lo rinnegano. Gli avversari
non aspettano altro per tacciarlo di ipocrisia. Così nella prima estate
“romagnola” , trascorsa presso i centri che per tradizione in questa
stagione divengono la capitale della musica italiana, Antonello ha
pernottato in alberghi superlusso, ha girato con la fiammante Citroen che
ha rimpiazzato la sgangherata Volkswagen di un tempo, è apparso con la
fidanzata su giornali semiscandalistici. Ma ha anche trovato il tempo di
dirmi che non è possibile che un suo disco costi 5000 lire, che la
battaglia contro le case sarà dura ma porterà a risultati positivi, che
insomma qualcosa sta cambiando, che i cantautori sono tutti uniti in tal
senso, che i giovani stiano tranquilli e continuino a sperare. Intanto per
andarlo a vedere si paga 3000 lire “Ma qui vengono solo i figli della
media borghesia” rassicura Venditti, “gli operai non hanno soldi, loro
mi ascolteranno ai festival gratuiti o nei teatri di periferia”.
|
....Particolarmente interessante è il set di Francesco De Gregori, il più lungo tra
quelli sopravvissuti, anche perché presenta un inedito
(Roma Capitale) che testimonia una iniziale vena satirica del Principe,
un brano citato dal biografo Enrico Deregibus, ma al momento, a quanto ne
sappiamo, non presente in rete. Altro motivo di interesse è una Bufalo Bill
ancora in divenire (uscirà sul disco l'anno seguente) con una strofa aggiunta
nel finale rispetto alla versione canonica. Insomma, tutta roba che, crediamo,
solleticherà l’appetito dei lettori stratosferici.
|
1) Ballata per Claudio Varalli (Canzoniere Mantovano)
2) Bandiera rossa (prova a cantare) (Canzoniere Mantovano)
3)La strategia del qualunquismo (Canzoniere Mantovano)
4) Nina (Gualtiero Bertelli)
5) “La voce…” (Claudio Rocchi)
6) “ E’ da giorni che ci penso…” (Claudio Rocchi)
7) “Conosco uno che ricatta le mie amiche..” (Claudio Rocchi)
8) “E’ pura onestà di bilancia…” (Claudio Rocchi)
9) Pablo (Francesco De Gregori)
10) Cercando un altro Egitto (Francesco De Gregori)
11) Roma Capitale (Francesco De Gregori)
12) Bufalo Bill (Francesco De Gregori)
13) Ipercarmela (Francesco De Gregori)
14) Signor Hood (Francesco De Gregori)
15) Alice (Francesco De Gregori)
16)Domandine a proposito di Dio ("Preguntitas sobre Dios",
Atahualpa Yupanqui) (Gianluigi Tartaull)
17) ¿Que dirà el Santo Padre? (Violeta Parra) (Gianluigi Tartaull)
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per informazioni sui 4 concerti
dedicati ad Alceste Campanile e come ascoltare i CD, clicca qui sotto:
http://verso-la-stratosfera.blogspot.it/
Leggendo la scaletta del concerto di Reggio Emilia, tenuto a luglio
1975, si capisce come "Bufalo Bill" del 1976 fosse già uscito da certi
cassetti e canzoni quali Atlantide, Ipercarmela e la stessa Bufalo Bill,
furono messe rispettosamente da parte, in attesa, per far posto ai
capolavori di Rimmel.
E' interessante notare alcune variazioni testuali.
variazioni in Cercando un altro Egitto: È tutto acciaccato dalla folla
che grida, mi domando come mai non ci sono i bambini.
aggiunte varie strofe in Bufalo Bill: Ora ti voglio dire: c’è ci ruba
per avidità e c’è chi ruba perché capisce.
L’America è una bandiera fatta a stelle. Comincia più o meno dove il
giorno finisce.
Nel resto delle canzoni, in visione qui,
ci sono variazioni leggere.
(Il nostromo)
Venditti doveva tenere un recital al Castello
Sforzesco. Ma alle prime note cominciò a cadere una pioggia torrenziale.
Il pianoforte fu allora caricato su un camion e portato al Piccolo Teatro,
a qualche centinaio di metri. Il pubblico intanto si spostava verso la
nuova sede del concerto. Ma, sorpresa, non si riusciva afr entrare il
pianoforte a mezza coda sul palcoscenico(piccolo) del Piccolo Teatro. E
così il pianoforte fu sistemato nel foyer, dove presente la deliziosa
moglie Simonetta Izzo, Venditti tenne senza porsi troppi problemi un
applauditissimo recital. Niente sedie, tutti in piedi. (Commento di
Venditti: “Che bello, che gioia sentirsi il pubblico vicino, appoggiato
al pianoforte. Che emozione, che risate, che casino” )
Secondo episodio: è la sera del 30 Novembre 1976.
Poco tempo prima alcuni autonomi hanno contestato e processato Francesco
de Gregori. Venditti ama Francesco come un fratello e decide, a modo suo,
di vendicarlo. Contro il parewre di tutti decide di tenere un concerto
nello stesso Palalido. Ha una paura ladra.
“Me la facevo sotto. Letteralmente. Ma avevo
deciso che dovevo farlo. L’organizzazione fu affidata a Radio Canale 96.
Ai circoli giovanili furono concessi biglietti a 700 lire . Ciò
nonostante disturbarono il concerto. Io mi confrontai con loro, gridai più
di loro. A un certo punto dovetti interrompermi.
Certo-continua Venditti- poi dormii per due
giorni. Ma intanto avevo cantato, suonato, alla faccia dei casinari”
Ma in quell’occasione Venditti dette a tutti una
lezione: ed era quella che l’artista, per essere tale, deve essere
libero. Libero dalle pressioni dell’industria, ma anche dalle pressioni
dei giovani demagoghi(e talora teppisti) della sassata o della spranga.
E nella libertà è nato, “Buona domenica”, un
libero tuffo nella realtà d’una Italia giovanile dai mille volti,
contraddittori ma reali. Venditti l’ha dipinta a note vivaci.
L’affresco è disponibile in quattro colori diversi.
boy music, 1979, di M.Luzzatto Fegiz
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Un
ermetico chiaro per questo tempo oscuro
di Alessio Lega
Teatro Uomo, Milano 1975, concerto per A
Rivista Anarchica, Paola Nicolazzi, Francesco De Gregori, Giorgio Gaber e
Roberto Ruberti eseguono "Addio Lugano Bella".
È uscito da qualche mese un libro importante, una ricca
biografia di Francesco De Gregori, molto ben documentata nella proposizione e
nell’analisi delle fonti e innovativa nell’esposizione.
L’ha scritta uno dei migliori giornalisti musicali italiani,
Enrico De Regibus, ed è un libro di inusitato valore critico nell’editoria di
genere italiana, quasi totalmente dominata dalle agiografie pubblicitarie.
Il volume si pone l’ingrato compito di rintracciare, seguendo
l’intero percorso artistico del cantautore romano, le contemporanea Storia
italiana. Capitolo per capitolo si svolgono, come uno specchio nello specchio,
le vicende del belpaese e quelle dell’ottimo Francesco, e, quasi sempre, è
lasciata al solo lettore, con una grande sapienza di scrittura che non sconfina
mai nella forzatura, la sintesi fra le due cose.
Ovviamente l’autore non tace le proprie opinioni, anzi
battute taglienti e giudizi critici, anche molto severi, costellano ogni
passaggio, ma, fatta salva la passione (lo dico nel senso più alto del termine)
per il cantautore e l’amarezza per gli anni di passione (detta in tutt’altro
senso) dell’Italia, il libro si presenta come un’opera di insolita onestà
intellettuale. De Regibus è riuscito nell’alchimistico disegno di tenere in
perfetto equilibrio, sul filo di quasi duecentocinquanta pagine, Storia D’Italia
dal dopoguerra a oggi, vita artistica e opinioni del signor De Gregori Francesco
e proprio personale giudizio critico sull’una e sull’altro. Non è affatto
poco…anzi si può dire che, dopo questa pubblicazione, esista oggi in Italia uno
strumento critico come non ne esistono altri per la quasi totalità dei
cantautori italiani.
Teatro Uomo, Milano 1975, concerto per A Rivista Anarchica, Paola Nicolazzi,
Francesco De Gregori, Giorgio Gaber e Roberto Ruberti eseguono "Addio Lugano
Bella".
http://bfsopac.org/cgi-bin/koha/opac-detail.pl?biblionumber=27423&shelfbrowse_itemnumber=31313
Per quel che mi riguarda, la lettura di questo volume è
servita da stimolo per ripensare tutte le mie opinioni in merito a questo grande
artista. Nella mia infinita immodestia provo ad infliggervene alcune.
Ho avuto uno storia difficile con Francesco De Gregori.
Quando cominciai a interessarmi di cantautori, lui era senza
dubbio, saldamente e da anni, un punto di riferimento, una stella polare. Lo era
soprattutto dal punto di vista della costruzione di un linguaggio personalissimo
e riconoscibile, il suo linguaggio, quello che, con un’enorme dose di sciatteria
critica e malafede, era stato impropriamente definito, sin dalle origini,
ermetico.
Apriamo una parentesi. Come tutti le lingue poetiche anche
quella elaborata da De Gregori è uno strumento fatto di un connubio di
significato e musicalità, di termini tratti dal dire comune e da parole di un
proprio lessico familiare, perfettamente chiare all’apparenza, ma in realtà
cabalistiche porte aperte verso il di dentro; un linguaggio poetico è sempre la
mappa di un tesoro, con segnali disseminati e ricorrenti (pensate, appunto nel
nostro caso, quante volte nelle canzoni di De Gregori ricorra la parola
“fantasia”); il tesoro però non è mai la mappa in sé, il tesoro è per
definizione altrove, l’arte può dare delle indicazioni, ma il tesoro non è né
dell’artista né del pubblico: il tesoro è di tutti. Fine della parentesi.
Il linguaggio/strumento di De Gregori, come tutti gli
strumenti, si prestò ad infinite strumentalizzazioni (lo dice appunto la
parola!) da parte degli epigoni, che egli ha avuto in numero decisamente
impressionante fra la fine degli anni 70 e tutti gli ’80 (oggi siamo, e da un
bel po’, nell’epoca della derivazione incrociata da Conte/Waits… se non
addirittura dei loro figli dei figli). Le colpe dei padri non ricadono sulla
prole, può darsi, ma spesso avviene il contrario… sicché io quindicenne storcevo
il naso davanti a tutti i degregoriani e, di converso, un po’ anche davanti a De
Gregori stesso… la bellezza struggente di molti suoi pezzi (Santa Lucia,
Titanic, Bufalo Bill, ecc…) ovviamente mi toccava nel profondo da sempre, ma non
lo confessavo nemmeno a me stesso, e anzi mi andavo ripetendo che
l’incomprensibilità di alcune metafore serviva solo da paravento alla vuotezza
sostanziale…mi sarei reso conto che tutto questo erano vecchie storie, banalità
e puttanate, ma lo pensavo e lo confesso!
Furono proprio le riserve espresse da molti amici sui dischi
più recenti, diciamo dopo “Scacchi e tarocchi”, a convincere il mio spirito
bastiancontrario al riesame di questo personalissimo caso. La scoperta fu
luminosa: De Gregori parlava chiarissimo, tagliente come un bisturi nella carne
della malafede sociale. Finita l’epoca dell’impegno iper-esteriorizzato, da cui
lui si era ben guardato, ecco che, nella decadenza generale delle coscienze, il
cantautore diceva fuori dai denti di “sangue su sangue” nelle scatole nere di
Ustica, di vecchie uova di serpente appena dischiuse, del suo stare dalla parte
di “chi ruba nei supermercati” piuttosto che da quella di “chi li ha
costruiti…rubando”, di ragazze slave “venute allo sprofondo”, fino ai recenti
impagabili versi che aprono il disco “Amore nel pomeriggio”: “La musica
etnica/la contaminazione/l’ultimo rifugio dei vigliacchi la comunicazione”.
Pochi hanno oggi il coraggio di prendersela così frontalmente, non solo con i
responsabili dello sfascio presente, ma anche con le pessime idee guida di
questo tempo miserabile.
La personale rielaborazione della protest-song che De Gregori
propone nei suoi dischi più recenti sortisce in effetti uno dei pochi casi in
cui una canzone concepita con espliciti intenti di critica sociale (se non di
lotta) riesca ad essere sottilmente inquietante piuttosto che consolatoria, a
seminare dubbi e indignazione piuttosto che ad accarezzare con certezze date per
scontate un pubblico già acquisito ai propri ideali.
Per meglio servire questi testi aspri, De Gregori ha fatto
subire nel frattempo alla sua musica un’evoluzione che tira decisamente al Rock,
senza però rinunciare del tutto a quell’interessante e giocoso alternarsi di
accordi che nei suoi primi dischi riusciva a costituire un mondo sonoro
orecchiabile e inatteso al tempo; la strumentazione dei suoi arrangiamenti, come
dei suoi concerti, si è fatta via, via più elettrica, forse ad evitare che
l’abuso del proprio talento melodico, che dalla “donna cannone” alla bellissima
“valigia dell’attore”, è indiscutibile, renda sdolcinato il suo repertorio.
Salutari frustate, insomma, quelle che è si propone di
somministrare questo “cantautore che piace alle ragazzine”.
Due parole la merita anche la gestione del proprio
personaggio pubblico che a me pare particolarmente degna di stima: De Gregori è
quanto in Italia, fra i cantautori storici, più si avvicini al mito della
Rock-star, con stuoli di fans che lo fanno oggetto di un culto personale; con
grande coerenza però egli non si presta a nessuna piaggeria, né gioca il facile
gioco dell’antidivo, e persegue la carriera di un grande professionista dei
palchi, continuamente in concerto, ovviamente fra alti e bassi, e proprio per
questo eternamente esposto alla critica come all’apprezzamento di chi lo va ad
ascoltare, senza mai però dover leccare il culo a nessuno, e per nessuno intendo
esplicitamente giornalisti, pubblico e potentati televisivi.
Badateci, oggi tutti i concerti vengono presentati come
l’evento per antonomasia…lui, che fu uno dei protagonisti del primo evento
musicale italiano (la tournèe, in coppia con Lucio Dalla, “Banana Republic”)
oggi tira dritto e continua a proporsi come un onesto lavoratore dello
spettacolo.
La voglia di documentare questo lungo correre su e giù per i
palchi, con la pubblicazione di molti dischi dal vivo, ha però ancora una volta
attirato aspre critiche al nostro: secondo i suoi detrattori il suo sarebbe un
comodo modo di essere eternamente presente sul mercato, anche nei periodi di
crisi d’ispirazione. Per quanto mi riguarda trovo invece interessante questo
continuo ritornare sulle proprie opere, questa concentrica rielaborazione
interpretativa, che denota la filiazione da Dylan, nel senso della profonda
comprensione della radice popolare che sta alla base del miglior rock, e che
vuole che la musica non esista come opera definita una volta per tutte, ma
piuttosto come materia viva in continuo movimento; in questo senso anzi è De
Gregori stesso a confessarci che tali operazioni sono come fotografie di un
soggetto eternamente in fuga, documenti che possono tentare di riprodurre la
vita, senza essere vita essi stessi e proprio perciò necessitano di una continua
messa a fuoco.
Quello che emerge dal libro di Deregibus (“Quello che non
so, lo so cantare”, ed. Giunti, € 12,50) è insomma questo stesso De Gregori di
cui stiamo parlando: un artista complesso, con una traiettoria di non facile
identificazione e che trovò sin da subito nobili detrattori, si pensi solo al
famoso articolo di Giaime Pintor che stroncava senza appello proprio il disco
dell’esplosione del fenomeno De Gregori “Rimmel”.
Un artista fra i più rivoluzionari sul piano linguistico,
capace di influenzare, già nei primi anni di carriera, non solo gli epigoni ma
finanche i suoi stessi “maestri”: come non ricordare che persino Fabrizio De
André lo coinvolse nella scrittura a quattro mani di un intero disco, il volume
VIII, che, pur non essendo uno dei suoi più belli, resta cruciale
nell’evoluzione della scrittura deandreiana?
Un artista caparbiamente impegnato a rendere note le proprie
idee senza usarle, ma anche senza farsi usare in loro nome.
Un artista infine degno di analisi attente come appunto
quella che propone questo libro, che sarà gradito da tutti gli ammiratori del
cantautore, ma che, proprio perché non lesina spunti critici – fin eccessivi –
nei confronti della sua opera (ad esempio io non condivido la tiepidità di
giudizio sullo stupendo disco “Terra di nessuno”, e in particolare sulla canzone
“Pane e castagne” che a me pare un vero capolavoro), è assai godibile da
chiunque ne sia anche solo interessato, e, perché no, anche da chi, pur
ammirandone qualche canzone, provi una viva antipatia per lui e le sue idee…
Idee che, come abbiamo detto, De Gregori non nasconde, e che
sono anche molto distanti da quelle della maggior parte dei lettori di questo
giornale (nonché dalle mie), ma che non gli impedirono di dare nel 1975 al
Teatro Uomo di Milano un famoso concerto di sostegno proprio alla “Rivista
anarchica”, dividendo il palco con la nostra cara compagna Paola Nicolazzi.
E anche queste cose gli anarchici non le dimenticano.
http://www.arivista.org/riviste/Arivista/298/40.htm
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Non credo sia giusto parlare di una canzone come
"Pezzi di vetro" di Francesco De Gregori. Non è giusto perché
tutto ciò che si può fare con "Pezzi di vetro" è ascoltarla.
Ascoltarla, ascoltarla e ascoltarla fino a restarne
storditi, inebriati. La sua melodia è saltellante, come il ragazzo di cui
parla, che salta e salta sotto l’angolo retto di una stella. E sentirne
le parole equivale a vivere un innamoramento, o a rivivere tutti in una
volta i migliori amori passati. C’è, in "Pezzi di vetro",
tutto quello che c’è nell’innamoramento: i minuscoli, impercettibili
momenti che, messi uno sopra l’altro, fanno nascere l’amore; i magici
gesti, invisibili per tutti gli altri occhi, che la persona di cui ci
siamo innamorati ha compiuto, senza saperlo, per farci innamorare;
l’idea, giusta, che il mondo non possa offrire nulla di più e di meglio
che il sorriso del nostro amore; la sensazione, anzi la certezza che il
nostro amore è un amore diverso, speciale, migliore, invincibile, eterno,
anche nei suoi dolori. In "Pezzi di vetro" c’è tutto quello
che c’è nell’amore: dalla santità al sesso, da una capanna in cui
vivere e sognare in due a dei vent’anni che resteranno sempre vent’anni
anche quando saranno molti di più.
Ecco, innamorarsi non è altro che questo, in fondo:
entrare in un mondo nuovo costruito da noi che, appena creato, ha un odore
intenso e freschissimo che noi speriamo, già amaramente presentendo che
non sarà così, possa durare in eterno. Di solito l’odore si
affievolisce con il tempo, o forse siamo noi che non riusciamo più a
coglierne la pungente dolcezza perché troppo abituati a conviverci; altre
volte sparisce all’improvviso e non torna più; altre ancora si
allontana per un po’, magari anche per anni, e poi ritorna a farsi
sentire più forte di prima. Quelli fatti d’amore sono però mondi puri
e fragili, mondi di vetro, e si rompono con grande facilità. Ma è
proprio per questo che sono i più belli e i più preziosi. E i più
taglienti, in grado di lasciare cicatrici che non si rimarginano mai del
tutto. Ma si può spiegare, alla fin fine, che cosa sia davvero l’amore?
No, non si può. Si può provare al massimo a descriverlo, come ho fatto
io finora. De Gregori, però, ha scritto "Pezzi di vetro". E
"Pezzi di vetro", l’ho già detto, equivale a un
innamoramento. Ecco perché credo che non sia giusto parlarne e sia
necessario ascoltarla. Meglio ascoltarla se si è innamorati. E anche se
si ama senza essere corrisposti, meglio così che non amando affatto. Se
poi innamorati non lo si è proprio, ascoltare "Pezzi di vetro"
può essere una medicina meravigliosa, perché ascoltandola ci si innamora
di lei, della canzone. O, al limite di Francesco De Gregori.
Di sicuro, "Pezzi di vetro" mette addosso
una feroce voglia d’amore. Giuseppe Pollicelli
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Da Rockol.it - Francesco De Gregori - RIMMEL - BMG
Ricordi
Francesco de Gregori ha 24 anni quando la sua
carriera prende una piega tutto sommato inaspettata, tanto che da allora
l’epopea degregoriana suole essere divisa in a.R. e d.R., “avanti
Rimmel” e “dopo Rimmel”: il brutto anatroccolo arrivato ultimo al
“Disco per l’estate” 1973 con “Alice” si è trasformato nel
cigno in grado di sfornare un ellepi col botto.
Nel ’75 De Gregori è al terzo album, quarto se
consideriamo il disco d’esordio “Theorius Campus”, inciso insieme -
una facciata a testa - ad Antonello Venditti, e ha già collaborato con
Fabrizio De André per il “Vol. 8” del cantautore genovese (al quale
ha portato in dote l’amore per Dylan, testimoniato dalla versione
italiana di “Desolation row”, “Via della povertà”). È però
ancora un artista di nicchia, una nicchia oltretutto di sinistra, che
all’epoca non significa propriamente un lasciapassare per il successo di
massa.
Ma “Rimmel”…“Rimmel” è speciale:
speciale nel mettere tutti d’accordo, destri e sinistri, impegnati e non
so, tanto che alla fine dell’anno l’album risulterà il secondo più
venduto dopo (ahinoi) “Profondo rosso” dei Goblin; speciale nel
suscitare prese di posizione anche sorprendenti. Così, se l’integerrimo
giornalista Giaime Pintor scrive di “banalità musicale da canzonetta
anni Sessanta impreziosita da alcuni arrangiamenti barocchi con un occhio
al rock morbido della quarta generazione inglese” (prendere il fiato) e
testi tanto ermetici “che le sue parole non si aprono a nessuna
interpretazione”, la non ancora compagna di strada (e, inaspettatamente,
di classifica) Giovanna Marini sarà di tutt’altro parere: “Ha dei
testi molto difficili, non mi stupisce che all’epoca in cui è uscito
nessuno ci capisse niente. Ma lui non faceva calcoli, lui diceva quello
che doveva dire. Aveva bisogno di raccontarti la sua anima per salvarla.
C’era moltissima libertà nei testi e anche nella musica".
Libertà in tutti i sensi, se è vero - com’è
vero, e l’ha ammesso De Gregori in persona - che la tanto celebrata
“Buonanotte fiorellino” è quasi una cover della dylaniana
“Winterlude” da “New morning” (e pensare che Francesco si sarebbe
incazzato come una iena molti anni dopo solo perché Gianni Morandi aveva
osato inserire un frammento del walzerino in un medley). Ma i richiami
all’immenso Bob non sono solo quelli ai limiti del plagio: certi impasti
sonori di pianoforte e organo (fin dalla title track) ricordano per
esempio il Dylan della “scandalosa” svolta elettrica. Niente di male,
comunque: a ognuno i suoi maestri, e soprattutto l’importante è
imparare la lezione e metterla a frutto. Cosa che Francesco fa alla
perfezione, tanto che un brano come “Pablo”, le cui note pure sono
state scritte dal futuro partner di oceaniche adunate Lucio Dalla (la sua
voce fa capolino in “Quattro cani”), è una canzone degregoriana per
eccellenza, musicalmente evoluta e puntuale nell’introdurre temi sociali
(immigrazione, morti sul lavoro) in un album a discreto tasso sentimentale
(ma certo “amore” e “cuore” non abitano qui).
Da questo punto di vista, però, il capolavoro è
“Le storie di ieri”, bellissima inconsueta introduzione di
contrabbasso e strepitoso assolo conclusivo del troppo presto dimenticato
sassofonista Mario Schiano: per la levità (attenzione: non leggerezza)
con cui parla del fascismo, meriterebbe a pieno titolo di essere inserita
nelle antologie scolastiche. Un’autentica “canzone popolare”, di
quelle - parafrasando Fossati - che bisogna alzarsi quando passano e che
sarebbe potuta tranquillamente entrare nel “Fischio del vapore”, tra
“Sacco e Vanzetti” e “Saluteremo il signor padrone”.
Il resto… il resto è ancora storia, e allora -
non prima d’aver omaggiato la sublime “Pezzi di vetro” - proviamo a
rendere un po’ meno ermetici certi testi: per più d’uno saranno
sorprese. Il signor Hood “con due pistole caricate a salve ed un
canestro di parole” non è certo Mimmo Locasciulli, come ha buttato lì
qualcuno, bensì Marco Pannella, al quale il brano è dedicato fin dal
titolo, sia pure prendendone rispettosamente le distanze (“a M. con
autonomia”); i “Quattro cani” dovrebbero essere lo stesso de Gregori
(il cane da guerra che “nella bocca ossi non ha e nemmeno violenza”),
l’amico-nemico Antonello Venditti (il bastardo “che conosce la fame e
la tranquillità”), la divina Patty Pravo (la cagna che “quasi sempre
si nega, qualche volta si dà”) e il musicista, arrangiatore e
produttore Italo “Lilli” Greco, il padrone che “non sa dove andare,
comunque ci va, va dietro ai fratelli e si fida”.
Resterebbe il pianista di “Piano bar”: se
davvero è Venditti, la cattiveria di Francesco non ha niente da invidiare
a quella di John Lennon quando dà del dormiglione a Paul McCartney in
"How do you sleep?". Un “uomo di poca malinconia” che
“nella punta delle dita” ha “poco jazz” e “vende a tutti quel
che fa”, “solo un pianista di piano bar” che suonerà e canterà
“fin che lo vuoi sentire”. Licenze (o licenziosità?) poetiche
comunque non in grado di intaccare il valore di un disco tra i più belli
di Francesco. A proposito: a quando un album come “Rimmel”? (Ivano
Rebustini) (26 Gen 2003)
ALICE NON ABITA PIU’ QUI
Rimini, Hotel Belle
Vue. Categoria: lusso. Una
stanza doppia, tutto escluso, lire 38000 a notte. Nel registro
dell’hotel, accolto ai molti comm.(commendatore) ci sono i loro nomi, De
Gregori comp. Francesco, Venditti comp. Antonello. Comp. Sta per compagno.
Nella grande hall bevono e giocano a carte,
progettando di tornare insieme per una tournée.
Mi vengono in mente le centinaia di facce che
hanno da poco terminato di applaudire i loro concerti, Qualcuno ha
reclamato a Venditti “Bandiera rossa” e “L’internazionale”. Se
potessero, lo dipingerebbero di rosso dai capelli alla punta delle scarpe,
e gli metterebbero in testa una falce e un martello, come il bambino con
la luna e le stelle della canzone di Cat Stevens. Chiedo ad Antonello cosa
risponderebbe se quei ragazzi fossero ancora intorno a lui.
“Credi che non gliel’abbia mai spiegato? Ci ho
provato anche se non riesco a convincerli. Io non sono di quelli che
nascondono la macchina di lusso e tirano fuori il sacco a pelo quando è
il caso. Mi piace lo champagne e me lo posso permettere. E poi dati gli
orari degli artisti, abbiamo bisogno di un posto dove si possa cenare
anche alle quattro di notte. Guarda che il marxismo è una cosa, il
francescanesimo un’altra--continua Venditti – Berlinguer va forse in
giro con le toppe al culo? E Bob Dylan? Allora tutto sarebbe una
contraddizione. Meglio un compagno ricco che un fascista povero.”
Ma forse…
”Servo alla mia causa in altro modo” ribatte
immediatamente Antonello- “chiedendo compensi a prezzo politico ai
festival dell’Unità. E facendo propaganda alla fede con le canzoni. Non
pretendo, anzi non voglio, che una generazione di giovani si identifichi
in me. Io sono un artista e faccio il mio discorso. Non si cambia il mondo
con qualche canzone. E poi, chi è senza peccato scagli la prima
pietra”.
E’ la confessione di un freakkettone cioè di un
“cantautore impegnato”, secondo la definizione di De Gregori?
Francesco condivide in linea di massima questo atteggiamento. La
differenza è che De Gregori di pietre ne scaglia parecchie. E cerca di
farsi nemica la stampa per passare da eroe. “E’ stata una mossa
pubblicitaria” gli ribatte Antonello. E non ha assunto lo stesso
atteggiamento, aggiungo io, nei confronti della radio, mezzo promozionale
notoriamente più potente della stampa.
Abbiamo un breve scambio di idee con Francesco.
“Fare il giornalista è una cosa seria. Significa possedere un’arma
potentissima. Ricorda che c’è chi è morto con la penna in mano”
pontifica De Gregori. Io resto stordito, senza controbattere. Penso che
qualcuno, forse, è morto anche con una chitarra in mano. E lo guardo
sbigottito mentre gioca a poker e beve champagne all’Hotel Belle Vue di
Rimini, categoria lusso, una stanza tutto escluso lire 38000 a notte,
mentre cala il sipario.
Ma tutto questo Alice non lo sa.
- Enzo Caffarelli
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Mi
metto in tasca una piccola mela,
mi metto in tasca una piccola mela.
Ti
legassero in piazza con chiodi e catene
se davvero non sei sincera.
La
figlia del dottore è una maestrina,
la figlia del dottore è una
maestrina.
E conosce a memoria tutti i libri di Omero,
li ripassa tre
volte
la mattina.
Mi
metto in tasca un piccolo fiore,
mi metto in tasca un piccolo fiore.
Ti
legassero stretta alla quercia più vecchia,
se davvero non vuoi il mio cuore.
La
figlia del dottore sa cantare,
la figlia del dottore sa cantare.
E
mi piace poi tanto quel suo modo di fare,
forse un giorno faremo l'amore.
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HANNO
AMMAZZATO FRANCESCO, FRANCESCO E' VIVO!
Nuovo Sound del 7.11.1975 - di Franco Schipani
Quella
di Francesco De Gregori è una strana posizione. Per i settimanali della
cronaca rosa è diventato un bello da copertina, ai Festival dell'Unità
lo chiamano compagno, come sempre, altri ancora lo hanno definito
assiduo bevitore di charnpagne e noto frequentatore dei tavoli da poker.
C'è un po' di tutto insomma, tutto meno la sua arte.
De Gregori è diventato a sua insaputa un personaggio", un
argomento che aumenta le tirature dei giornali e le presenze ai
concerti, nessuno ha interesse a chiarire questa storia perchè è una
situazione che fa comodo a tutti.
Le quattordicenni dal fotoromanzo facile vedono in lui un nuovo
prototipo di principe azzurro, l'eroe stanco che ha vinto con i suoi
versi il duello della propria credibilità, un semidio diventato uomo
pronto ad accettare quell'istinto materno che una generazione intera di
sognanti teen agers gli offre a larghe mani.
I promotori della giusta e inevitabile lotta di classe vedono in lui il
compagno realizzato, il fratello dell'idea, quello che è arrivato. Per
i più distratti e quelli in malafede è un noto alcoolizzato da
champagne che continua a lasciare ingenti capitali sui tavoli da poker,
dondolandosi tranquillamente in qualche saletta appartata di alberghi
categoria lusso.
A tutto ciò corrisponde una innata coerenza artistica e professionale
dello stesso De Gregori, un comportamento che lo ha portato ad ottenere
grossi successi di pubblico e di critica, una ventata di aria fresca e
di originalità che ha fatto fare un deciso passo in avanti a tutto il
nostro ambiente musicale.
Non ha mai concesso interviste ai giornaletti delle massaie rifiutandosi
anche di farsi fotografare, limita le apparizioni in manifestazioni
politiche perchè teme di essere strumentalizzato (altri invece
continuano a non perdersene una e poi cadono in crisi!), è in rotta con
parte della stampa specializzata per motivi di ricatto promozionale e si
adopera in lunghi tour de force per andare a suonare dove il suo
pubblico lo vuole.
I suoi sforzi sono stati premiati, la sua correttezza ha avuto un giusto
riconoscimento.
Checchè ne dicano giornali e giornaletti, compagni e non, con Francesco
Gregori siamo arrivati ad una scelta qualitativamente valida a una reale
alternativa di mercato che ha deciso una svolta.
Quando questa estate vendeva il Baglioni di "Sabato
pomeriggio" e il Modugno di "Piange il telefono", De
Gregori con il suo "Rimmel" reggeva nella impari lotta con i
volponi del motivetto souvenir, unico fra tutti i reduci della passata
stagione discografica.
Il suo pubblico ha retto come la qualità della sua produzione.
In questa intervista esclusiva cerchiamo di fare con il cantautore
romano il punto della situazione.
N.S. - Il tuo "RimmeL' sta andando veramente forte e da molte
settimane resiste nei primi posti delle classifiche. Generalmente quello
che decide il successo di un LP è un pubblico eterogeneo, vecchi e
giovani, operai e borghesi, studenti e massaie per esempio; come spieghi
che tutta questa gente, di varia estrazione sociale, età e background
culturale, abbia potuto comprendere e valorizzare dei testi cosi
ermetici, difficili e a volte astratti come quelli che tu canti?
F.D.G. - Non credo che i miei testi siano difficili come tu dici, penso
invece che siano comprensibili e alla portata di tutti, massaie e
bambini inclusi. Non credo nella incomprensibilità dei miei testì.
Anche i testi dei Beatles erano incomprensibili eppure piacevano: un
certo tipo di surrealismo non è difficile, anzl.. Una volta ho
ascoltato una canzone degli "Alunni del sole", quella era una
canzone incomprensibile!
N.S. - Qualche anno fa era molto di moda leggere le poesie di J.Prevert
come oggi quelle di P.Neruda. Non pensi di aver seguito la stessa sorte,
di essere diventato "di moda", il poeta del sistema insomma?
F.D.G. - C'è questa tendenza, da parte del sistema, di assunzione di
determinati poeti che sono tuttavia al di sopra di ogni sospetto, è
innegabile. Questo fenomeno non è però nè voluto nè facilitato da
parte dei protagonisti in questione: anche a me succede la stessa cosa.
E' una situazione che il potere avrà sempre in mano come ha in mano i
mezzi di comunicazione come la Rai TV, anche io vengo inglobato e
distribuito con il mio "prodotto".
N.S. - Credi che possa esistere un movimento artistico, autogestito da
parte di chi produce "canzoni d'autore", alternativo come
discorso anche di mercato rispetto a condizionamenti di questo tipo? Una
delle proposte portate avanti nell'ultimo "Congresso della Canzone
d'Autore" di Sanremo, insomma.
F.D.G. - Credo nelle buone intenzioni, nella buona fede di chi ha
organizzato questo congresso di Sanremo, ma non credo che sia
sostanzialmente una cosa positiva: queste discussioni, i convegni, le
riunioni ecc. ecc. Non credo giusto fare queste cose adesso, momento in
cui questo tipo di canzone è promossa proprio da questi mezzi di
diffusione. Una cosa di questo genere doveva essere fatta un decennio
fa, sarebbe stato più giusto. Oggi vuol dire intellettualizzare a tutti
i costi, ci vogliono far diventare dei professori, è più importante
scrivere delle canzoni che parlarci sopra.
N.S. - Ma allora è vero che tendi a isolarti, a estraniarti da queste
iniziative o il tuo discorso può avere matrici comuni con quello di
Venditti, Lolli o Guccini che partecipano a questi dibattiti?
F.D.G. - Quando incontro Venditti o Guccini mi trovo bene con loro
perchè so di che parlare e ci trovíamo abbastanza d'accordo su molte
cose. Scrivere una canzone è una cosa diversa, è un fatto abbastanza
interiore. Non mi sembra di essere però eccessivamente isolato come tu
dici, ho scritto delle canzoni con Dalla, De Andrè. Non mi piace
chiudermi in una stanza e dire "io sono qui e gli altri sono
fuori".
N.S. - "Rimmel", musicalmente parlando, non dice niente di
nuovo rispetto al precedente album. Anche i testi sono identici per
forma e ispirazione: come spieghi questo vasto consenso di pubblico,
ora? Perchè non prima?
F.D.G. - Trovo che la gente sia più aperta, ora, più disponibile. Il
pubblico si è portato ad un livello discolto un tantino più alto: se
"Rimmel" fosse uscito l'altro anno e "Francesco De
Gregori" oggi, avrebbe venduto quest'ultimo. In questo momento
stanno vendendo tutti i miei dischi il che vuol dire che la gente
accetta oggi quello che ieri non ha accettato. E' questo pubblico che
oggi influenza gli organi di di diffusione perchè vuole ascoltare la
mia musica, quella di Guccini e non vuole più Nazzaro. Se la radio
vuole il suo alto indice di gradimento deve per forza trasmettere questo
tipo di musica.
N.S. - Non pensi che potresti diventare tu il Nazzaro della situazione e
restare indietro rispetto ad un certo tipo di discorso e di rapporto con
il pubblico?
F.D.G. - Mi auguro che possa venir fuori un artista più underground di
me, deve succedere altrimenti ci fermeremmo a De Gregori. Anche io
fermerei su me stesso. Fortunatamente sento continuamente di evolvermi.
N.S. - Questa estate dove suonava De Gregori era tutto esaurito. E' il
tuo pubblico che ti segue, hai bisogno di questo tipo di pubbIico già
sensibilizzato per fare i concerti o potresti suonare anche per il
pubblico di Marcella o Baglioni?
F.D.G. - lo credo di avere lo stesso pubblico di Baglioni, non è un
pubblico che mi rifiuta in partenza. Mi trovo più a mio agio con il mio
pubblico, è vero. ma riesco ugualmente a suonare per altri. Per i
fascisti è impossibile ma per il pubblico di Baglioni è abbastanza
accettabile, riesco lo stesso a farlo mio, a farmi capire. Il pubblico
di Baglioni, che reputo un musicísta poco impegnato ma di buon livello,
non è un pubblico di deficienti.
N.S. - E' molto di moda oggi essere un compagno, fenomeno che crea una
certa confusione a livello politico... è di moda essere vestiti in un
certo modo, adoperare certi vocaboli, ascoltare determinata musica. Non
pensi di essere diventato un "personaggio"?
F.D.G. - C'è una tendenza a spostarsi a sinistra senza avere delle
profonde convinzioni alle spalle, si diventa di sinistra perchè il
compagno di banco è di sinistra. Credo che sia una cosa molto bella
perchè a questo primo momento ne segue una profonda convinzione. Io
sono comunista, non so dirti altro, lo sono da anni. Per quanto riguarda
il discorso del personaggio non ho capito....
N.S. - La gente che viene ai tuoi concerti viene ad ascoltarti oppure a
"vederti".
F.D.G. - Sì, c'è anche della gente che viene a vedermi. Il mito è una
malattia difficile da guarire ma, mentre ieri andavano a
"vedere" Morandi e ascoltavano "Fatti mandare dalla
mamma", oggi vengono a vedere me e ascoltano "Pablo".
Questo, tuttavia, è un fenomeno di scarse dimensioni per quanto mi
riguarda. (Franco Schipani).
"E'
un'esperienza reale e positiva ovunque, finchè mi si dà la possibilità di
dire compiutamente le cose che sento". Cosa sente Francesco in questo
momento e che c'è di diverso da quello conosciuto alcuni anni fa? Lui cerca
sempre di non autodefinirsi, lascia che gli altri colgano le eventuali novità,
comunque infine laconicamente dice: "Forse sono un po' nuovo, più moderno
e meno decadente. C'è anche una diversità musicale rispetto alle prime
esperienze, ma soprattutto una nuova impostazione nella stesura dei testi. Sto
abbandonando un certo tipo di linguaggio intellettualistico ed… ermeticamente
poetico, per cercare di essere più semplice e immediato". Francesco mi
aveva invitato, precedentemente, in sala d'incisione, così mi son reso conto di
come le
sue canzoni prendano corpo. Gli arrangiamenti musicali sono i suoi, ma
lascia spazio anche agli strumentisti; oltre agli accompagnatori di studio, sono
intervenuti amici come Schiano (al sassofono) e Della Grotta (al basso). Due
interventi jazzistici nel disco di De Gregori? "Principalmente si tratta
dell'apporto di due amici che mi capiscono e poi l'originalità in questo tipo
di musica è relativa ed i suggerimenti validi possono venire da molti lati
differenti". Chiacchierando, cerco di stuzzicare Francesco con domande di
vario genere, indagando sulle sue opinioni e valutazioni sui colleghi cantautori
italiani e stranieri; lui cerca di non sbottonarsi, ritiene non si debbano far
confronti e lascia al pubblico le decisioni e le scelte, comunque… "Cohen
mi sembra un po' superato, mentre Dylan è ancora validissimo, nonostante tutto…!
In Italia un grosso esempio da seguire è Lucio Dalla, che ha un'impostazione
efficace ed attuale; c'è anche qualche giovane interessante, e poi alcune cose
da risentire, buone ma passate". Avevamo iniziato con la scusa del suo
nuovo disco che dovrebbe uscire a gennaio, e ne riparliamo adesso alla fine.
"Non c'è niente da capire" è il titolo di una canzone di Francesco,
ma è anche il modo con cui lui imposta se stesso: è tutto talmente semplice ed
evidente, che solo chi non vuol capire ha bisogno di ulteriori spiegazioni. Il
titolo del nuovo LP sarà "RIMMEL". "Sì, come il trucco che
usano le ragazze, quello per gli occhi…! Rimmel nel senso di trucco, di
qualcosa di artefatto, ma questo disco è fatto per smascherarli, per metterli
in evidenza. Almeno queste sono le intenzioni". Francesco De Gregori
comunque va al di là e cerca di svelare i trucchi e le falsificazioni di
qualsiasi tipo e livello: libero e aperto, si preoccupa principalmente di essere
vero (anche se talvolta questo è scomodo) per fare in modo che le apparenze
siano uguali alla realtà. Non è un censore, né un fustigatore di costumi, ma
uno che sente quello che canta. Forse non è un personaggio sul quale costruire
delle storie: è uno che, uscendo dal Folkstudio, ti prende sottobraccio e
sorridendo insiste sul tasto dell' "intervista" … "Che cosa
vuoi sapere della mia vita privata, t'interessa conoscere i miei amori…?".
Logicamente parliamo di queste… ed altre cose, ma l'intervista ormai è
terminata il "notes" in tasca non riesce a prendere certe confidenze e
non è proprio il caso di creare "un personaggio" mentre ci dirigiamo
a bere qualche bicchiere di vino; dopo la bevuta, certe cose si dimenticano..!
Isio Saba (Nuovo Sound)
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Il
successo di Rimmel non sembrò comunque sconvolgere più di tanto il suo autore:
"ogni settimana arrivava sul tavolo del direttore delle vendite il tabulato
delle uscite e ogni settimana continuavano a salire ...
Finito l'album, ero molto soddisfatto del risultato ottenuto, ma a tutto pensavo
meno di vendere tutti questi dischi. Ma non pensavo neanche di venderne pochi:
della casa discografica, a parte, credo per merito di Ennio Melis, una
distribuzione coraggiosamente massiccia. Non ricordo di aver visto nessuna
pubblicità,
non ci pensavo e basta. Fu davvero sorprendente anche perché non ci fu un
particolare sostegno da parte
dei giornali per promuovere Rimmel, allora nemmeno si usava. Mi chiesero di fare
due, forse tre interviste, cosa che feci probabilmente molto volentieri. Forse
andai un paio di volte in televisione. Grazie a Dio nessuno mi chiese di andare
a Sanremo, a quei tempi non si usava, il Festival viveva un momento di profonda
crisi. Mi resi conto del successo di Rimmel in un modo molto semplice: andavo in
giro a fare serate, da solo, voce e chitarra. Avevo un impresario che si
chiamava Libero Venturi, io prendevo il treno da Roma, scendevo a Bologna a
mezzogiorno, lui mi veniva a prendere con una Fulvia coupè, mettevamo la
chitarra dietro, c'entrava a malapena, e io e lui andavamo in giro. Partivo da
Roma senza neanche sapere dove avrei suonato: da Bologna potevamo andare fino a
Venezia o scendere giù ... non dico fino a Bari, ma sicuramente fino a Pescara.
suonavo ai festival dell'Unità. Oppure d'estate nei locali della riviera
adriatica.
Associo
il successo di Rimmel ai locali della riviera adriatica, perché, dove l'anno
prima o magari qualche mese prima venivano cento o duecento persone, che mi
sembravano tantissime, l'estate di Rimmel improvvisamente arrivavano migliaia di
persone.
Erano serate che funzionavano così: mettevano i dischi, la gente ballava, poi
arrivava quella che veniva definita 'l'attrazione' - ci chiamavano così - che
poteva essere Cocciante, De Gregori, Venditti, Renato Zero. L'attrazione suonava
tre quarti d'ora, cinquanta minuti. allora quelli che erano venuti solo per
ballare si ritiravano educatamente da una parte e non davano fastidio più di
tanto, tolleravano questi tre quarti d'ora, mentre i fan, due o trecento
persone, si mettevano seduti davanti alla pedana dove ci si esibiva.
Quell'estate cambiò, nel senso che nei locali non c'era più quasi nessuno che
veniva per ballare, ma per lo più la gente stava lì per ascoltare me".
La mia vita non cambiò più di tanto. Certo ero contento, ma era come se tutto
quello che accadeva rientrasse nella normalità delle cose. Avevo avuto il
successo senza averlo mai cercato, ero tranquillo con me stesso, non dovevo
dimostrare niente a nessuno. Anche il fatto di guadagnare dei soldi mi faceva
piacere, ma sentivo che non avrebbe cambiato il mio modo di guardare il mondo.
Credo che nemmeno allora decisi che fare dischi sarebbe stato il mio mestiere.
Avevo appena compiuto 24 anni, perché mettere le briglie alla fantasia?".
Tratto da
"Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera
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Il
signor Hood era un galantuomo, sempre ispirato dal sole,
con due pistole
caricate a
salve
e un canestro di parole,
con due pistole caricate a salve e un canestro pieno di
parole.
E che fosse un bandito
negare non si può, però non era il solo,
e che fosse un
bandito
negare non si può.
E
sulla strada di Pescara venne assalito dai parenti ingordi
e scaricò le sue
pistole in
aria e regalò le sue parole ai sordi
e scaricò le sue pistole in aria
e regalò
le sue parole
ai sordi.
E qualcuno ha pensato che forse è morto lì
però non era vero, ....
E qualcuno ha pensato che forse è morto lì
Mah,
il Signor Hood come personaggio rompicoglioni, come personaggio
"contro", è in realtà una parte di tutti noi. La versione degenerata
del Signor Hood, la sua versione depravata, è probabilmente Sgarbi, ma ripeto,
questa è la sua eccezione negativa. Sicuramente Pannella è un buon Signor Hood:
in fondo, politicamente è un ingenuo che però è mosso da una grande onestà
personale, che ama ancora incazzarsi e sbattere i pugni sul tavolo. Ma il Signor
Hood è anche Paperino, è Busi, lo è stato Pasolini. È tutto ciò che non è
Sgarbi: lui invece è il simbolo dell’uomo appiattito dal consenso, la sua
incazzatura non è corrosiva, è il trionfo del protagonismo malinteso,
esteriore, solo formale. E invece, mai come in questo momento, c’è bisogno di
polemica vera, di uomini che si agitano. Ecco, il mio augurio è che il prossimo
Signor Hood non sia uno, ma siamo tanti, che i cittadini si sostituiscano ai
singoli e che si alzi un bel coro di voci discordanti. Che si calpestino nuove
aiuole.
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Commento
RIMMEL - Jamonline
Trastevere come il Greenwich Village. Il Folkstudio come il Gerde’s
Folk City. Giancarlo Cesaroni, fondatore del Folkstudio, come Mike
Porco, l’uomo che gestiva il club newyorkese e che diede più di una
chance al giovane Bob Dylan. Francesco De Gregori come Bob Dylan,
allora? Non proprio, naturalmente, ma è certo che il giovane cantautore
romano muove i primi passi in un’atmosfera che ricorda quella in cui
mosse i primi passi Dylan. E quanto De Gregori abbia assorbito,
musicalmente e stilisticamente, dal cantautore americano è cosa nota
ormai a tutti.Certo è che il Folkstudio, tra la fine degli anni
Sessanta e i primi Settanta, era un luogo unico, in Italia (in cui,
peraltro, come narrano le leggende, si sarebbe esibito, nel ‘62, un
ancor sconosciuto Bob Dylan, di passaggio in Italia sulle tracce della
fidanzata). Un piccolo e buio scantinato, dove si sarebbe allevata una
generazione di cantautori destinata a cambiare le regole della canzone d’autore
italiana nel corso degli anni Settanta, passati alla storia come
«quelli della scuola romana».Fra i tanti, furono due i nomi che
avrebbero lasciato il segno più profondo, quelli di Antonello Venditti
e Francesco De Gregori. Che non a caso avevano esordito con un disco
«in comproprietà», quel Theorius Campus uscito nel 1972. Dopo di
questo disco le strade si erano divise: Venditti con la sua visione
personale, maggiormente tendente al pop, De Gregori sempre più
innamorato del songwriting di stampo
nordamericano.Prima di Rimmel c’era
stato l’acclamato Alice non lo sa (1973), che conteneva l’omonima
title-track di grande successo commerciale, grazie anche a quel tema
(allora) scabroso, quello di un matrimonio celebrato all’insegna della
verginità perduta e di una non chiara paternità.Poi c’era stato il
bellissimo disco che portava solo il suo nome e cognome, chiamato anche
«il disco della pecora» per via del dipinto in copertina: un disco
spartano, essenzialmente acustico. Un disco che conteneva una galleria
di immagini desolate e allucinate, in perfetto stile dylaniano (ma non
quello del menestrello di protesta, piuttosto quello del rocker
anfetaminico e devastato di Blonde On Blonde) e anche alcune delle
canzoni più belle mai composte dal musicista romano.Nello stesso
periodo De Gregori è però invitato da un personaggio straordinario,
Fabrizio De André, che gli chiede una mano per il suo nuovo disco. L’avventura
con De Gregori non sembra funzionare in modo ottimale: il risultato è l’album
Volume VIII, uno dei meno apprezzati del cantautore genovese, in cui è
però evidente in molti brani l’impronta visionaria di De Gregori ma
che soprattutto contiene una traduzione italiana di Desolation Row, dal
songbook dylaniano, che diventa Via della povertà, un apprezzabilissimo
lavoro di riadattamento interamente curato da De Gregori («È stata la
prima canzone di Dylan che mi ha colpito, da ragazzino. Allora non c’erano
ancora libri con le traduzioni dei suoi testi e passavo ore e ore a
cercare di capirne il testo. In quel periodo avevo una necessità ’’biologica’’
di impratichirmi con certe regole tecniche per scrivere una canzone,
quindi anche tradurre mi serviva»).De André sperava in un apporto
maggiore per il suo disco, ma evidentemente De Gregori stava ancora
maturando le splendide composizioni che di lì a poco sarebbero finite
su Rimmel.Disco, Rimmel, che segna uno spartiacque deciso sulla scena
cantautorale italiana del decennio, introducendo un nuovo linguaggio
musicale e lirico che ne avrebbe segnato il cammino fino ai giorni
nostri. Giustamente definito «il disco del perfetto cantautore» (per
la produzione equilibrata e moderna; per
l’alto livello compositivo
dei brani; per l’accompagnamento strumentale raffinato e squisito),
Rimmel è veramente un manifesto della canzone d’autore italiana
moderna. Quella, cioè, che ha saputo coniugare la nuova lezione giunta
dai cantautori americani con la melodia classica di casa nostra,
superando gli ormai stantii riferimenti alla canzone francese (come era
invece accaduto per la generazione precedente) e allo stesso tempo la
canzone dall’esclusivo contenuto politico come era maturata nella
prima metà degli anni Settanta.Profondo conoscitore della canzone
americana, non solo di quella dylaniana, De Gregori riesce a coniugare
perfettamente i ritmi e le cadenze della musica d’oltreoceano con
quelli mediterranei: James Taylor, Neil Young, John Prine (e Dylan,
naturalmente; lo stesso De Gregori avrebbe dichiarato: «Ho il sospetto
che tutto il mio album Rimmel sia stato influenzato dal suono dylaniano.
Del resto come potrebbe un romanziere di oggi prescindere dalla lezione
di Manzoni, Cervantes o Céline?»), ma anche Elton John che,
ricordiamolo, fino alla prima metà degli anni Settanta era autore di
una purissima canzone pop di matrice americana, convivono con la melodia
italiana, e il risultato finale è, insieme a quanto sta facendo
Venditti nello stesso periodo (vedi scheda di Lilly) la nascita di una
figura cantautorale nuova e originale da cui si attingerà fino ai
giorni nostri.A differenza dell’album precedente, in cui una cupa
disperazione sembrava il tema fondamentale di gran parte delle canzoni,
il De Gregori di Rimmel è più solare (o forse sarebbe meglio dire
«innamorato»), anche se non rinuncia a un linguaggio obliquo, fatto di
immagini metaforiche e visionarie che a molti critici lo faranno
definire «ermetico» al limite della
comprensibilità. Giaime Pintor,
in un numero di Linus del ‘75 scrive che De Gregori «è tanto
ermetico che le sue parole non si aprono a nessuna interpretazione».La
prerogativa di queste liriche è fondamentalmente lo spezzare l’unità
narrativa del linguaggio (esattamente come faceva Dylan dieci anni
prima) inserendo metafore di difficilissima interpretazione. Ancora oggi
ci si chiede chi è il Signor Hood, o piuttosto chi sia Pablo.Un disco
che, insieme al successivo Buffalo Bill, gli costerà la scomunica degli
ambienti più integralisti della sinistra extra parlamentare del
periodo, culminando nel famoso episodio del «processo» al Palalido di
Milano, quando un gruppo di «compagni» salirà sul palco interrompendo
l’esibizione del cantautore accusandolo di essersi venduto e di fare
solo canzonette commerciali. Curioso, visto che Rimmel contiene forse la
canzone più esplicitamente di indirizzo politico che De Gregori, almeno
negli anni Settanta, abbia composto, e cioè Le storie di ieri, in cui i
capi di governo dell’Italia del periodo vengono paragonati ai gerarchi
di epoca mussoliniana. Tant’è: lo shock di quel «processo» sarebbe
stato tale per De Gregori che si sarebbe ritirato dalle scene
concertistiche per circa tre anni.«Non ho mai fatto la canzone ‘’con
il dito puntato’’», avrebbe detto anni dopo a proposito della sua
concezione di canzone politica, «anzi, è strano che l’abbia fatto
Dylan che non è mai stato inquadrabile politicamente al contrario di me
che invece quando mi chiedono per che partito voto non ho nessun
problema a dirlo».Il disco comincia con il brano omonimo, dove sono
evidenti i richiami a Bob Dylan, con quella scala ascendente di accordi
che ricorda Like A Rolling Stone nonché l’uso di pianoforte e organo
Hammond che svisano, proprio come nel celebre brano dylaniano.
Canzone
dalla melodia impeccabile, descrive i ricordi di una relazione
sentimentale ormai terminata con immagini personalissime e delicatamente
poetiche. Insieme a Pablo e a Buonanotte fiorellino è il brano che da
sempre identifica il cantautore.Pezzi di vetro mostra la classe
superiore del cantautore romano rispetto ai colleghi del periodo: il
suono scintilante di una chitarra acustica in accordatura aperta e con
un delizioso uso del fingerpicking, tutti accorgimenti mutuati dall’intelligente
ascolto di tanti dischi di folk rock americano. «Sì», mi avrebbe
detto De Gregori anni dopo, «è una canzone autobiografica che parla
delle mie disavventure amorose giovanili». Ma certo non con il
linguaggio della canzonetta sanremese…Il signor Hood, sottotitolata A
M. con autonomia, per anni è stata identificata come una dedica a Marco
Pannella (l’«M» del sottotitolo) e presenta un brillantissimo assolo
di chitarra acustica al suo interno.Pablo, probabilmente il suo cavallo
di battaglia concertistico che lui, molto dylanianamente, dal vivo si
diverte sempre a stravolgere, vede Lucio Dalla accreditato come
co-autore. In realtà il suo contributo è assai limitato, e cioè un
consiglio sulla modulazione del ritornello, e in questo De Gregori
mostra una riconoscenza sconosciuta nell’ambiente musicale. Lucio
Dalla comunque appare alla voce nella complessa Quattro cani, l’unico
brano che sembra un po’ fuori contesto da questo disco di puro
crossover tra America e Italia. Pablo narra in modo sentito la storia di
un emigrante spagnolo arrivato in Svizzera e che muore sul lavoro, un
atto di accusa nei confronti delle cosiddette «morti bianche».«C’è
una canzone, che tra l’altro mi è venuta benissimo, in cui ho
coscientemente copiato la metrica e lo stile di un pezzo di Dylan, cioè
Winterlude», dirà De Gregori nel 1984 in una intervista all’Unità.
Si riferiva a Buonanotte fiorellino. Ma vale la pena sottolineare che se
il brano di Dylan era penosamente «zuccheroso» e piuttosto anonimo e
banale, il cantautore romano lo nobilita ripulendolo dagli orpelli che
vi ha messo Dylan e confezionando un valzer di liricismo purissimo,
dominato da una splendida performance vocale. Della voce di De Gregori
si è sempre scritto poco, eppure è uno dei pochi cantautori italiani
(insieme a Venditti) a saper «usare» la voce. Intanto perché ha una
bella voce, ma, vedi le armonie vocali da lui stesso costruite ad
esempio in Piccola mela, sempre con uno sguardo al di là del panorama
della canzone italiana: la scuola è evidentemente quella californiana
(leggasi CSN&Y o James Taylor).Le storie di ieri è un brano di
grande poesia e nonostante qualche trovata umoristica, anche di grande
significato sociale, in cui De Gregori riflette sulla generazione del
padre, quella cresciuta ai tempi del fascismo (un tema a lui caro, basti
vedere in tempi recenti Il cuoco di Salò) facendo paragoni sui
rigurgiti di fascismo nella società a lui contemporanea.Piccola mela
riprende la struttra semplicissima di Pezzi di vetro: chitarra acustica
e voce, anzi voci strutturate con un raffinato uso corale come detto di
scuola californiana.Il disco si chiude con l’ironico (e anche un po’
cinico) ritratto di un pianista di piano bar (alcune malelingue, ai
tempi, sostenevano che questo brano era dedicato all’amico Venditti,
accusato di essere già allora un po’ troppo commerciale, ma De
Gregori ha sempre smentito), un brano che ricorda per la sua struttura
certe cose di Elton John tipo Daniel.Nonostante ancora Pintor non fosse
andato leggero recensendo Rimmel («Banalità musicale da canzonetta
anni Sessanta impreziosita da alcuni arrangiamenti barocchi con un
occhio al rock morbido della quarta generazione inglese, Elton John e i
suoi fratelli (…) Su questo tessuto povero egli appoggia pensantemente
testi in cui la metafora ermetica campeggia vittoriosa nei suoi vestiti
più kitsch») il disco sarà baciato da un enorme successo commerciale
(500mila copie vendute), successo che continua tutt’oggi.De Gregori
aveva in un colpo solo spazzato via la scena musicale degli anni
Settanta. Pur proveniendo da un ambiente politicamente impegnato,
dimostrava di saper trascendere i confini ideologici del periodo per
proporre al grande pubblico una serie di canzoni che, come sempre nel
caso della musica migliore, non possono essere rinchiusi in alcun
steccato.Lo squarcio di novità che De Gregori porta con Rimmel sulla
scena musicale italiana è ben sintetizzato da Giovanna Marini
(intervistata da Giorgio Lo Cascio in De Gregori, Franco Muzzio
Editore): «Rimmel ha dei testi molto difficili, non mi stupisce che all’epoca
in cui è uscito nessuno ci capisse niente. Ha avuto successo perché
era il periodo in cui noi cantavamo ancora ‘’Cara moglie…’’.
Ma lui non faceva calcoli, lui diceva quello che doveva dire. Aveva
bisogno di raccontarti la sua anima per salvarla. C’era moltissima
libertà nei testi e anche nella musica».Una libertà che, da allora,
è rimasta sempre per la musica di De Gregori il bene e lo stimolo più
prezioso. (PV)
DOLCE
VENERE DI RIMMEL
Francesco De Gregori - Rimmel (Rca, 1975) - di Marco Novaro
A Roma c'è una cantina, il Folk Studio, luogo d'incontro verso la fine
degli anni '60 di alcuni giovani autori con l'orecchio teso alla ballata
americana (cioè a Dylan). Tra questi ci sono De Gregori, Venditti,
Locasciulli, Gaetano, Lo Cascio, Zenobi, De Angelis. Nelle loro canzoni
c'è una certa verve musicale, una tensione di ritmo che sono lontane
dalla forma struggente dei genovesi, perché Genova preferisce guardare
agli chansonnier francesi, all'esistenzialismo, ai mali dell'anima.
A Francesco De Gregori interessa soprattutto una cosa: cambiare il
linguaggio della canzone. La sua visione è pittorica, da
impressionista. Sa che la vita ha una casualità straordinaria e una
molteplicità di fatti e visioni. Cézanne dipinse più volte il monte
Sainte-Victoire perché sapeva benissimo di non trovarsi mai di fronte
alla stessa montagna.
E De Gregori fa lo stesso; cerca di portare dentro i suoi versi le
prospettive cangianti. Raccoglie la vita in linee essenziali, in
movimenti che si percepiscono solo in controluce. Prende i piani diversi
dell'esistenza e li accosta. O li mischia. E se la realtà è sfuggente,
allora anche la parola che la descrive si fa oscura e inafferrabile. Ma
intrigante.
Ogni canzone è una prosa imperturbabile in cui De Gregori bandisce i
sentimentalismi e dà solo pochi tratti per spiegare il dolore. Non vi
darà mai la sua stessa disperazione o l'immediatezza dell'addio, né il
piagnisteo retorico su cui si reggeva la vecchia canzone all'italiana. E
non spende parole che si usano comunemente per descrivere i fatti: De
Gregori vuole uscire dallo stereotipo, non essere banale, incuriosire.
Prendete Pablo; in particolare l'ultimo verso, con quell'ossimoro
potente e prodigioso: Hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo.
Può voler dire semplicemente che le idee sopravvivono agli uomini. Ma
detto così vi costringe a compiere un'acrobazia oltre quella riga, a
saltare un passaggio logico. Con la matematica non si potrebbe fare, ma
con la letteratura sì. E in questo attimo sospeso a mezz'aria nasce il
miracolo, la poesia.
Rimmel invece è una canzone di addio. Lei ha barato andandosene via.
Non ha saputo stare alle regole del gioco e ha tradito l'amore:
I tuoi quattro assi, bada bene di un colore solo, li puoi nascondere o
giocare con chi vuoi, o farli rimanere buoni amici...come noi...
La chiusura poi è un capolavoro, con quell'ultimo inganno a cui De
Gregori risponde con rassegnazione:
Tu mi domandavi se per caso avevo ancora quella foto,
in cui tu sorridevi e non guardavi e il vento passava sul tuo collo di
pelliccia e sulla tua persona, e quando io senza capire ho detto
"si", hai detto "è tutto quel che hai di me", è
tutto quel che ho di te...
Buonanotte fiorellino riequilibra le sorti sentimentali dell'album
raccontando un minuto di felicità. De Gregori rivive il ricordo allegro
di un ragazza - un'altra ragazza, è lecito supporre - e in questa sua
euforia leggera coinvolge tutto quello che vede dentro e fuori alla
stanza. Ogni cosa sembra partecipare a questa euforia leggera: il
fiorellino, la monetina, il biglietto scaduto. Tutti oggetti che non
appartengono alla tipologia classica della canzone d'amore, se tale
vuole essere. E poi ci sono quei salti, imprevedibili come sempre e
fuori da ogni norma semantica:
il granturco nei campi è maturo ed ho tanto bisogno di te, buonanotte
tra il telefono e il cielo…… tra le stelle e la stanza… tra i tuoi
fiocchi di neve e le foglie di thé, buonanotte, questa notte è per te.
Per il dulcis in fundo ho pensato a Pezzi di vetro, una dolce allegoria
lunga un racconto. Ancora due persone a scommettersi la vita, un uomo e
una donna. Ma questa volta è lui a vincere perché sa saltare sui vetri
e spezzare bottiglie senza farsi mai male. Vince sempre. L'unica cosa
che può ferirlo è l'abbandono, la partenza della compagna appena
incontrata.
Lui ti offre la sua ultima carta, il suo ultimo prezioso tentativo di
stupire quando dice "è quattro giorni che ti amo, ti prego non
andare via, non lasciarmi ferito". E non hai capito ancora come mai
gli hai lasciato in un minuto tutto quel che hai, però stai bene dove
stai.
Molte altre cose del mondo di De Gregori possono restare non risolte.
Non c'è bisogno di svelare ogni mistero, ogni gioco, ogni metafora.
Sapere se quel Pablo sia davvero il poeta a cui tutti pensano, o
smascherare l'identità dei Quattro cani piuttosto che del Signor Hood
sulla strada di Pescara, in fondo, non serve.
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poi ho perso il conto..
LE PRIME SERATE
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