Inizia a suonare come bassista a
fine anni sessanta nel Patrick Samson Set, il gruppo che accompagna
il cantante di Soli si muore, in cui milita anche, in qualità di
chitarrista, Umberto Tozzi, ed alla batteria Euro Cristiani. da Wikipedia
LUCIO
BARDI - E'
figlio del pittore Mario Bardi e fratello dell'indimenticata
cantante e attrice Donatella Bardi.
qual è stata la tua formazione musicale e quali le esperienze formative che ti hanno portato a fare i musicisti professionisti? (domande di Andrea Carpi) - fonte: Bardi, Giovenchi & Valle – Le chitarre della De Gregori Band http://fingerpicking.net/bardi-giovenchi-valle-le-chitarre-della-de-gregori-band/ Lucio: Io ho avuto la fortuna che mia sorella, Donatella Bardi, iniziava a fare il mestiere di cantautrice. E appena ne ho avuto la possibilità, che ero abbastanza grandicello, mi ha coinvolto nelle sue attività, dai piccoli locali alle scuole occupate e ai grandi raduni giovanili come i festival di Re Nudo, nei primi anni ’70. La prima cosa importante che ho fatto con lei, con il gruppo de Il Pacco insieme ad Alberto Camerini ed Eugenio Finardi, è stata proprio nella sede di Re Nudo a Milano, dove ho conosciuto Luigi Grechi, che allora si presentava con il nome di Ludwig. Poi da lì, piano piano, sono stato chiamato a suonare nei primi dischi di Finardi e Camerini, e nel ’74 – durante un festival di Radio CTA a Catania – ho conosciuto Edoardo Bennato, che dopo poco tempo mi ha coinvolto prima in studio, poi in qualche concerto dal vivo in sostituzione di Roberto Ciotti, che stava cominciando a fare i suoi primi passi nella carriera solista; in quelle occasioni io quindi suonavo la chitarra slide. Con Bennato sono andato avanti a suonare fin verso l’85-86, e nel frattempo facevo anche altri lavori con musicisti del giro milanese e romano. Poi però lui ha continuato a chiamarmi periodicamente, per esempio nel ’90 per Edo rinnegato, un disco in quartetto acustico con Roberto Ciotti e Luciano Ninzatti, e nel ’92 per Il paese dei balocchi. Comunque la mia formazione, all’inizio, è stata completamente da autodidatta. Ho cominciato a studiare musica da militare: ho fatto il militare nella fanfara dei bersaglieri e suonavo il basso tuba; così lì ho cominciato a leggere la musica, in chiave di basso. Poi, finito il militare, nell’81 mi sono iscritto a un corso privato del chitarrista classico Mauro Storti, con cui ho studiato per vari anni. In effetti mi è stato di grande utilità: tutta la tecnica, la mano sinistra, la serietà dello studio… Come hai vissuto il passaggio dalla pratica da autodidatta alla disciplina dello studio? È stato un po’ difficile. Io ero un po’ anarchico in tutto quello che facevo, quindi la disciplina non mi andava molto giù. Infatti non studiavo molto, avevo facilità e imparavo le cose al volo, a orecchio, ma il maestro se ne accorgeva! Comunque mi è stato utile… E tu suonavi sia l’acustica che l’elettrica fin dall’inizio? Che musica ascoltavi? All’inizio con mia sorella suonavamo una 12 corde Zerosette acustica, poi la mia prima chitarra personale è stata una Telecaster nel ’71. Ma il mio gusto, la mia passione, come per tutti quelli della nostra generazione, non sono stati formati tanto dalla musica acustica o dalla musica elettrica, dal folk o dal rock; perché tutto quello che arrivava era talmente ricco, talmente forte, da Dylan a Stephen Stills e Joni Mitchell, con quel modo di suonare l’acustica, oppure i Cream, Hendrix, Jeff Beck… c’era l’ira di Dio! Quindi tutti noi avevamo fame di tutto, volevamo imparare tutto, non è che ci fermavamo all’acustica o all’elettrica in particolare… Io ti associavo di più all’acustica, e Donatella mi sembrava più legata al circuito folk… Però anche lei aveva ricevuto in casa un’infarinatura musicale ad ampio raggio: mio padre [il pittore Mario Bardi] mentre dipingeva ascoltava jazz, musica classica, Mahalia Jackson oppure Edith Piaf, Brassens e tutti i francesi. E poi Donatella ascoltava di tutto, da Janis Joplin e Grace Slick dei Jefferson Airplane a Sandy Denny e al folk inglese, oppure alla musica popolare italiana. Voi tutti quindi siete arrivati a suonare con Francesco De Gregori che eravate già dei professionisti ben formati. Come potete descrivere il modo in cui si svolge il lavoro con lui? È un lavoro da turnisti, o il lavoro di una band? L.: Già nelle mie esperienze degli anni ’70, rispetto ai decenni successivi, il rapporto era di tipo più collaborativo, era più un discorso di band. Probabilmente era più diffuso questo modo di lavorare. Anche con Edoardo Bennato, soprattutto all’inizio, il rapporto era un po’ così; poi si trasformò, per esigenze di diverso tipo. Quando sono arrivato a conoscere Francesco De Gregori, era appena uscito Terra di nessuno e i rapporti nel suo gruppo erano un po’ difficili: c’era qualche attrito tra di loro, che poi venne superato. Quindi all’inizio rimasi un po’ perplesso. Però, devi sapere che io venivo da una tournée con Roberto Vecchioni, in cui lui faceva delle presentazioni delle canzoni che duravano quasi più delle stesse canzoni, per cui – in tre ore di concerto – noi musicisti eravamo spesso fermi… Invece, quando iniziai la tournée con Francesco, nell’88, mi accorsi che lui parlava pochissimo e questo era entusiasmante, mi piaceva tantissimo! Poi la musica che faceva era appassionante, i pezzi erano stupendi e i riferimenti stilistici erano molto più vicini al rock, al folk che avevo ascoltato. E Francesco amava le Martin e le Gibson, quelli strumenti lì, era uno che ci teneva tanto a quello che faceva, non delegava ad altri. Insomma mi sono appassionato a questo modo di vivere la band… Come dicevi prima, il fatto di essere un collaboratore in senso lato più che un turnista faceva già parte della cultura degli anni ’70… L.: Sì, però in Francesco molto di più, perché nessuno ci dice la parte che dobbiamo suonare, la parte da leggere: in qualche modo siamo noi che la scriviamo insieme, ci diamo dei consigli a vicenda. P.: Nel tempo si è sviluppata sempre più una libertà di Francesco di intervenire sulla musica in modo totale. Ha avuto sempre meno il bisogno e il desiderio di affidarsi a qualcuno, ha avuto sempre più la possibilità di collaborare e interagire con i musicisti… L.: Sì, possiamo dire che è assolutamente lui il produttore. Ci tiene talmente tanto, combatte per le sue idee. La figura del produttore viene a ridimensionarsi: c’è Guido Guglielminetti, il ‘capobanda’, che fa da coordinatore, aiuta Francesco magari nelle questioni tecniche, dà dei consigli; ma non è Fio Zanotti che arrangia il disco di Vecchioni… Che spazio ha nel vostro lavoro rispetto alla chitarra elettrica? Come vi scambiate le parti tra l’una e l’altra? L.: Anche se Paolo ama pure l’acustica e la suona da dio, anche se ha una grande cultura in materia, credo che sia naturalmente e caratterialmente più portato verso l’elettrica. E io invece il contrario… Anche quando l’altro chitarrista era Vincenzo Mancuso era così… L.: Sì, sì, forse un po’ per pigrizia, perché non sono mai ‘impazzito’ appresso ai pedali e ho sempre fatto una fatica incredibile a capire il processamento del suono; anche se ora sto cominciando a comprendere tante cose, grazie pure a Vincenzo e Paolo che mi hanno fatto da maestri: che fortuna ho avuto a lavorare sempre con grandi chitarristi elettrici! Ma, in ogni caso, c’è già una naturale divisione dei compiti. Poi credo che la chitarra acustica abbia nell’avventura di Francesco De Gregori un’importanza fondamentale. A parte alcune canzoni che nascono dal pianoforte, la stragrande maggioranza nascono con l’acustica… Poi in quasi tutti i pezzi c’è una particolare attenzione su quali corde usare, che chitarra, che modello, di quale anno; un’attenzione quasi maniacale… e meno male! Questo da parte dello stesso Francesco, seguito da Paolo che sa tutto, è un’enciclopedia vivente delle chitarre. E una simile attenzione mi appassiona da morire, perché imparo anche tante cose che non sapevo. Inoltre non c’è questa vecchia orrenda tradizione della musica ‘leggera’ italiana, secondo cui sembra quasi che la chitarra acustica ci debba essere ma non si deve sentire… L.: Muove tutto, ma non si deve sentire: questa è follia! Pensando a un appassionato di Grossman, di Stills, di Dylan stesso… A questo punto, voi siete legati da anni al lavoro con De Gregori: come riuscite a far convivere questo impegno principale con eventuali altre esperienze parallele, se le portate avanti e se ne sentite l’esigenza? L.: Tutti noi l’abbiamo comunque fatto, nonostante sia difficoltoso, perché quando l’artista con cui principalmente vogliamo lavorare decide che si parte, si parte e dobbiamo mollare tutto. Però, a dispetto di questo, un po’ per lavoro, un po’ per passione, un po’ perché è quasi l’unica cosa che sappiamo fare, quindi ci adoperiamo per altri progetti. E per quanto riguarda cose più personali? L.: Sì, credo che ognuno di noi scriva delle cose. Come mi diceva Luigi Grechi una volta: «Anche a te capita di avere sempre musica nella testa? E da qualche parte la devi mettere questa musica, perché altrimenti ti riempe la testa!» Poi da tanti anni sto seguendo un progetto, molto lentamente: con Donatella suonavo con un gruppo, che poi è proseguito dopo la sua scomparsa e con il quale abbiamo registrato due dischi [Moti Shkon, 2005, e Arberìa, 2015] con Francesco Mazza, un cantante di madrelingua albanese. Il gruppo si chiama Ensemble, è un gruppo molto acustico, e questi dischi sono stati realizzati in lingua arbëreshe [la lingua parlata dalle minoranza etno-linguistiche albanesi d’Italia.] per conto della Regione Calabria, dove ci sono alcune comunità di origine albanese, in vista della salvaguardia della loro lingua.
PAOLO GIOVENCHI
- Chitarrista,
che in più di 30 anni di attività, trascorsi in clubs, teatri,
piazze, stadi nonché studi di registrazione, balere e qualche
ristorante… (battutaccia!!!)…ha avuto il piacere di collaborare in
studio e live con numerosi artisti italiani come: Gabriella Ferri,
Goran Kuzminac, Claudio Lolli, Mimmo Locasciulli, Alessandro Haber,
Andrea Bocelli, Michele Zarrillo, Luca Barbarossa, Luigi Grechi,
Giovanna Marini e naturalmente Francesco De Gregori, con il quale
partecipa inoltre a: "Intour", con Pino Daniele, Fiorella Mannoia,
Ron. da Rimmelclub
qual è stata la tua formazione musicale e quali le esperienze formative che ti hanno portato a fare i musicisti professionisti? (domande di Andrea Carpi) - fonte: Bardi, Giovenchi & Valle – Le chitarre della De Gregori Band http://fingerpicking.net/bardi-giovenchi-valle-le-chitarre-della-de-gregori-band/
Paolo: Io sono di diversi anni più giovane di Lucio e, tutto sommato, devo dire che un po’ mi dispiace, nel senso che Lucio è entrato molto presto nell’ambiente, mentre io ho cominciato più ‘dal basso’; sempre molto giovane anch’io, ma non avevo nessun aggancio in famiglia, nessuna conoscenza nel mondo musicale. Però tutta la parte che Lucio ha descritto, delle influenze musicali, delle passioni che ci hanno acceso, appartiene anche a me. Avevo comunque un cugino più grande che ascoltava molta musica, e che mi ha fatto ascoltare molta musica. In realtà, mi sarei voluto iscrivere al conservatorio, perché fin da bambino, da quando mi hanno regalato il primo giocattolo-chitarra, non ho più voluto sapere di nient’altro. La mia famiglia però era la tipica famiglia di una volta, per cui il conservatorio andava bene, ma solo se facevo il liceo musicale, dove c’era il numero chiuso e in pratica non si poteva entrare a chitarra; inizialmente c’era solo posto per l’oboe. Così mi sono iscritto al Centro Romano della Chitarra, qui a Roma a via Arenula, dove si preparavano gli studi per il conservatorio. C’erano bravi insegnanti, come il mio maestro Lucio Dosso, un grande concertista. Ho frequentato per un po’ e anch’io, come Lucio, avevo facilità, ma non mi andava molto di studiare e imparavo le cose a memoria piuttosto che approfondire la lettura… Poi hanno cominciato a piacermi altre cose, la chitarra elettrica, Hendrix, e quella scuola mi è diventata stretta. Non me la sentivo di sottopormi a tutta quella disciplina per arrivare magari a suonare Bach, che mi piaceva moltissimo ascoltare suonato da altri, ma poi – se andavo in cantina a suonare con gli amici – suonavo tutt’altro e quello era il momento che mi dava più soddisfazione. Quindi la musica per me ha preso un’altra direzione. D’altra parte, per una serie di circostanze, avevo cominciato già da piccolo a fare feste di piazza, concerti con cantanti come Gianni Nazzaro e la sorella Anna Maria; quello che mi capitava, insomma. Poi, in seguito, con gli amici abbiamo formato un gruppo e messo su un progetto di canzoni originali, con un orientamento progressive, trovando il favore di un produttore; che però, contemporaneamente, faceva anche colonne sonore e collaborava con diverse trasmissioni Rai, finendo per prendere soprattutto questa strada. Così ha lasciato cadere le produzioni che aveva messo in piedi, alcune delle quali interessanti, con il risultato che noi siamo rimasti parcheggiati per quasi dieci anni. Però ci aveva messo a disposizione il suo studio, dove facevamo provini ma anche turni per le sue cose, sonorizzazioni, sigle, dischi di altri artisti. E capitavano anche cose molto belle, per esempio un disco con Gabriella Ferri. Quindi abbiamo avuto l’opportunità di farci le ossa, di imparare tante cose. È stata da una parte una perdita di tempo, ma dall’altra un periodo formativo importante. Quando poi, arrivati intorno ai vent’anni, abbiamo realizzato che il nostro progetto come gruppo non aveva sbocco e che quella strada non ci avrebbe portato da nessuna parte, si sono sciolte le righe e ognuno ha pensato di cercare lavoro in modo autonomo; sempre nel campo della musica, perché giunti a quel punto ci era più facile fare quello piuttosto che qualsiasi altra cosa. Così, piano piano, ho cominciato a lavorare con altri artisti come Michele Zarrillo, Luca Barbarossa, Mimmo Locasciulli, e da lì poi è nato l’aggancio con Francesco De Gregori. Nel frattempo facevo tanti turni, suonavo molto nei locali, come Lucio non mi tiravo mai indietro. Per quanto riguarda la formazione, dopo il breve periodo al Centro Romano della Chitarra, un’altra cosa che è stata molto importante per me è stato l’incontro verso il ’79-80 con Maurizio Bonini, che all’epoca era molto appassionato di country blues: suonava in quello stile col basso continuo, che io non sapevo nemmeno cosa fosse e che mi fece letteralmente impazzire. Poi a casa sua mi faceva sentire dei dischi allora introvabili, come Bukka White e Robert Johnson. Lui mi ha trasmesso qualcosa che forse è ancora più importante dello studio musicale in sé: la ricerca delle fonti, che ti porta a capire da dove avevano attinto Clapton o Hendrix, dai quali magari sei stato influenzato, riuscendo a scomporre il loro stile per arrivare alla radice e poter ricostruire una tua elaborazione personale. Oggi un ragazzo che fa blues spesso fa dieci frasi di Stevie Ray Vaughan, che spesso e volentieri sono a loro volta citazioni vere e proprie di dieci altrettanto grandi bluesman del passato. Allora, se mi limito a suonare la copia della copia, finisco semplicemente per suonare come Vaughan; se invece suono una sua frase sapendo che viene per esempio da Buddy Guy, mi si aprono tante possibilità. Ecco, questo è quello che io considero il mio percorso musicale più importante.
Importante poi è stato anche il lungo rapporto di collaborazione con Mimmo Locasciulli, che è molto esigente dal punto di vista musicale: poiché la musica non è la sua professione principale, visto che lui è un medico, ha sempre vissuto il lavoro del musicista in maniera molto autonoma e libera, un po’ anche per gioco e passione; e quindi, paradossalmente, finiva per essere molto più esigente di altri artisti, che lavoravano tutto sommato in modo più canonico, anche perché forse più vincolati a tabelle di marcia e volontà dettate dai produttori e dalle case discografiche. Ed io, che pure ero abituato a fare un po’ di tutto in studio, mi sono ritrovato con lui ad affrontare un approccio musicale del tutto nuovo. Inoltre lavorava spesso con Luciano Torani, fonico e musicista molto preparato, con l’orecchio assoluto, ma a sua volta pignolissimo. E tutti e due insieme erano veramente tosti, per un povero chitarrista ‘sprovveduto’ come me, che arrivava lì venendo da tutt’altro tipo di esperienze. Però alla fine anche quella è stata un’esperienza importante, nella quale ho avuto modo di imparare tanto. Perché Mimmo mi spingeva ad andare sempre oltre tutte le cose che pensavo di saper fare: «Questo è troppo blues, questo è troppo rock, questo è troppo pop, questo è troppo country», tutto era ‘troppo’. I suoi musicisti di riferimento erano musicisti che, sinceramente, in molti casi neanche conoscevo, come Marc Ribot per esempio, oppure vecchie registrazioni un po’ ‘anarchiche’ di Bob Dylan. E tutto questo è stato molto formativo per me. Tra l’altro, oltre che nei suoi dischi, ho anche lavorato in dischi che lui produceva, di Goran Kuzminac, Claudio Lolli, Alessandro Haber. Tu, Paolo, in Vivavoce figuri anche come produttore in alcuni pezzi… P.: Beh, mi sono trovato soltanto di passaggio in quel ruolo. Quei pezzi per i quali figuro come produttore venivano da una lavorazione diversa rispetto al contesto generale del disco: erano stati realizzati in un’altra sessione di registrazione, dove effettivamente m’ero rimboccato le maniche io per un’esigenza particolare di fare un lavoro abbastanza veloce, e c’erano parecchi contenuti miei che avevo inserito; addirittura ho suonato il basso in certi brani. Lì il mio ruolo è stato più vicino a quella che è la figura classica del produttore. Ma nelle altre situazioni lavoriamo assolutamente tutti quanti assieme, con Francesco che dà il maggior numero di indicazioni possibili e noi – attraverso la conoscenza di anni – le interpretiamo con lo strumento; perché chiaramente a lui manca il linguaggio per esprimersi più tecnicamente. E, alla fine, otteniamo un suono che ci fa sembrare una band, anche se non nasciamo come una band. Ma lo diventiamo perché lavoriamo con lo stesso approccio di una band, dove ognuno mette del suo e tutti comunque sono al servizio dell’artista, sempre però con le proprie personalità. Adesso siamo in dieci, e trovare gli spazi per tutti non è facile. Però in qualche modo riusciamo a portare a casa il risultato. In questa direzione, un momento importante è stato l’album Pezzi [2005], che doveva rappresentare non dico un punto d’arrivo, ma di ‘fissazione’ del lavoro musicale portato avanti da quando ero entrato io in Amore nel pomeriggio [2001] e poi soprattutto dal vivo; un lavoro proprio ‘dylaniano’ se vogliamo chiamarlo così, un lavoro di destrutturazione e ristrutturazione dei brani, di svolta rock. Il discorso della band è nato qui. E all’inizio è stato un lavoro estremo, perché Francesco ha fatto delle cose che molti ‘degregoriani’ hanno fortemente disapprovato: ha ‘aggredito’ le sue cose, le ha stravolte volutamente. Voleva cambiare, voleva trovare una sua strada autonoma. Infatti da allora non ci sono stati più produttori esterni. Gli ultimi sono stati Fio Zanotti [con Mira Mare 19.4.89, 1989] e Corrado Rustici [con Prendere e lasciare, 1996]. Che spazio ha nel vostro lavoro rispetto alla chitarra elettrica? Come vi scambiate le parti tra l’una e l’altra? P.: Tra l’altro è importante dire – e questo lo devi scrivere! – che Francesco è un gran chitarrista! Nel senso che – avendo sempre avuto un certo tipo di rapporto con la chitarra, a parte quello con Dylan – quando lui mi fa vedere con lo strumento un pezzo o qualcosa che ha in testa, io in qualche modo riesco a capire quasi tutto quello che ha in mente, dalla batteria all’assolo. Il suo modo di suonare, che è molto ‘rudimentale’ per così dire, però è autosufficiente, come nella tradizione dei folksinger del genere. Quando canta e si accompagna da solo, non senti il bisogno di nient’altro ed è tutto sottinteso nel suo modo di accompagnarsi; anche se non è un modo ‘raffinato’, però ci sono gli accenti, gli accenti della voce, c’è la dinamica… Poi c’è il fatto del ‘movimento’, quello che noi chiamiamo ‘muovere il pezzo’. Infatti io spesso cerco di convincerlo a suonare e lui non vuole, si sminuisce da solo, dice: «Ah, voi siete i chitarristi, io non sono capace!» Ma poi in realtà, quando una cosa la fa lui, dà esattamente il senso di come deve essere. E per quanto riguarda cose più personali? P.: Negli ultimi anni a me ha appassionato molto curare la produzione per altri artisti: ho prodotto Reds! di Andrea Tarquini e c’è la collaborazione con Luigi Grechi, per il quale spero che ci sia presto nuovo materiale su cui lavorare; siamo già in fibrillazione. Per il resto, l’attività di turnista non è più come una volta, tutti gli artisti hanno le loro band. Al di là che probabilmente non ci poteva capitare di meglio che collaborare con un artista come Francesco, il nostro non è più un lavoro nel quale puoi fare tre tour diversi all’anno con artisti diversi. Una volta era così, adesso è molto cambiato. Per cui la nostra attività tende a spostarsi in altre situazioni, nello studio, nella composizione, nelle colonne sonore, cosa che non mi dispiacerebbe. Oggi i giovani, anche grazie alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie, vivono subito la fantasia di incidere il loro proprio disco. Voi non ce l’avete questa fantasia? P.: Mah, io ho fatto un percorso diverso: per quanto riguarda la musica originale, ho avuto la mia esperienza con il gruppo di cui parlavo prima, dove ero comunque un elemento di una band. Non ho mai avuto la velleità di essere un chitarrista solista e fare il mio disco solista. Anche perché, quasi sempre, ti rendi conto che più della metà di questi dischi sono inutili, e l’altra metà per la maggior parte non è che la copia di qualcos’altro. È pur vero che fare un tuo disco ti può portare un certo indotto lavorativo, così che un bravo strumentista si può creare un suo circuito, fare le sue serate, dare lezioni, scrivere sulle riviste. Ma personalmente, quando penso a un’attività di scrittura, penso soprattutto a una colonna sonora, a una canzone per qualche altro artista piuttosto che al disco del chitarrista; anche perché la musica che ascolto è difficilmente il disco del chitarrista solista, per quanto bravo possa essere…
Nonostatnte la sua giovane età, è dal 2001 il pianista e tastierista di Francesco De Gregori. Quindi, un curriculum di tutto rispetto per un giovane musicista. E se è ancora lì, ogni sera, a suonare le note della Donna Cannone prima dell'inchino del suo Capo, ci sarà un motivo. Ciao Ale.
ALESSANDRO
VALLE -
Polistrumentista specializzato in chitarre slide, inizia la sua
carriera professionale nel '90 come chitarrista, lavorando in studio
e in tour con diversi artisti italiani per poi scoprire la passione
per la Pedal Steel e le sonorità della country music. Negli anni ha collaborato con: Francesco de Gregori, Enrico Ruggeri, Luigi Grechi, Alan Sorrenti, Vernice, Little Tony, Chris White (Dire Straits/Robbie Williams), Steve Philips (Nothing Hillbillies), Sons of the Desert (Germany), Richard Bennet (Mark Knopfler) dal suo sito ufficiale
qual è stata la tua formazione musicale e quali le esperienze formative che ti hanno portato a fare i musicisti professionisti? (domande di Andrea Carpi) - fonte: Bardi, Giovenchi & Valle – Le chitarre della De Gregori Band http://fingerpicking.net/bardi-giovenchi-valle-le-chitarre-della-de-gregori-band/ Alessandro: Io ho iniziato suonando la chitarra e da ragazzino ho formato una band con i miei compagni di scuola. Poi ho continuato a suonare e studiare chitarra, anche elettrica, in una scuola popolare di Genzano con Lello Panico e Fabio Cerrone, fino all’età di vent’anni. Ho anche cominciato a fare qualche lavoro, in particolare sono stato in tour come chitarrista con Alan Sorrenti nei primi anni ’90. Poi sono partito per il servizio militare a Vercelli e lì è avvenuto un episodio chiave. Frequentavo un pub vicino alla caserma, che faceva anche musica dal vivo, e il gestore del pub un giorno mi disse: «Guarda che tra due giorni c’è un concerto fantastico, con un chitarrista bravissimo che suona una chitarra strana, sembra un tavolino». All’epoca ero un chitarrista metallaro, e l’idea di andare a un concerto di chitarra hawaiana non mi attirava molto; però potevo usufruire del permesso ‘termine spettacolo teatrale’ e rientrare all’una di notte, così mi decisi ad andare. Al concerto vidi subito un paio di cose: una chitarra piena di string bender, che avevo già visto su un articolo di Chitarre scritto nientemeno che da Luigi Grechi; e poi quel tavolino pieno di corde con i pedali: era una pedal steel guitar, ma all’epoca non sapevo cosa fosse; quando leggevo sulle riviste americane «pedal steel», pensavo si trattasse di un pedale per chitarra, ma quella sera capii che i suoni che cercavo di emulare con il bending sulla chitarra, erano appunto i suoni di quello strano strumento. Insomma quello era il concerto del Branco Selvaggio di Ricky Mantoan, e così nacque il mio amore per la pedal steel guitar. Da lì ho cominciato a rompere le scatole a Mantoan, che mi dava delle lezioni per telefono, finché un giorno ci siamo incontrati a casa mia, quando lui era in giro con Luigi Grechi per il tour di Girardengo e altre storie [1994]. Io ero contentissimo, ma avevo dimenticato che lui è mancino, per cui non poteva suonare la mia pedal steel! Poi ogni estate andavo in tour con qualche band, come il gruppo pop dei Vernice e i Pane & Vino, finché nel ’97 ho deciso di andare per un periodo negli Stati Uniti a studiare seriamente, con tappe a Washington per delle lezioni private con Mike Auldridge, a Nashville per il Jeffran College of Pedal Steel di Jeff Newman, e a St. Louis per la Scotty’s International Steel Guitar Convention. A Nashville avevo lezione dalle otto di mattina alle sei del pomeriggio in una cabin in montagna, poi Newman mi segnava su una mappa tutti i club dove la sera potevo andare a sentire dei concerti: fantastico! Al mio ritorno ho iniziato a lavorare con Little Tony, visto che il fratello e chitarrista Enrico Ciacci cercava un suonatore di pedal steel. Poi, nel 2003, Luigi Grechi stava per registrare Pastore di nuvole, ma Ricky Mantoan era occupato e non poteva suonarci, così è iniziata la mia collaborazione con Luigi. E da lì è nato anche il contatto con Francesco, iniziato nel 2005 con l’album Pezzi. Immagino che la tua specializzazione in uno strumento così particolare come la pedal steel ti abbia aiutato nella professione di musicista. È vero, uno strumento meno suonato può dare più possibilità di lavoro. Ma d’altra parte, se è meno suonato, è anche vero che c’è meno richiesta. In ogni modo sì, aiuta sicuramente, perché in Italia ci sono un sacco di chitarristi bravi; anche se non è facile inserire uno strumento così caratterizzante in un repertorio pop italiano… Al tempo stesso è uno strumento comodo, che può fare le veci degli archi, di quello che una volta era il Mellotron… Sì, infatti la storia è partita dalla steel guitar, che con l’accordatura di DO6 copiava le parti degli ottoni nelle orchestre Dixie, nella musica hawaiana e nel primo jazz. Poi la pedal steel si è sviluppata nel corso degli anni, con il passaggio dall’accordatura di DO6 a quella di MI9 nella country music nashvilliana e nella musica californiana. Oggi, come nell’esempio di Paul Franklin all’interno dei Dire Straits, è diventata a pieno titolo uno strumento moderno. Il lavoro con De Gregori è una cosa particolare. Ma comunque, in generale, nella musica pop è difficile che ci sia qualcosa di scritto per quanto riguarda i nostri strumenti: le parti scritte le ha chi lavora in orchestra, non chi lavora in una band. La fortuna della band di De Gregori è che tutti i musicisti sono molto preparati, e tutti quanti ascoltano gli altri. Così nessuno mette mai la nota ‘fuori posto’, tutti lavorano per il suono della band. Sì, l’ho notato in particolare nell’ultimo disco dedicato a Dylan, che suona secondo me come i dischi americani, nel senso che suonate tutti ‘poco’, si sentono distintamente gli interventi di ciascuno. A.: Sì, c’è una grande differenza: in Europa si cerca sempre di ‘orchestrare’, quindi si trovano tanti strumenti con suoni ‘piccoli’; invece molte produzioni d’oltreoceano prevedono pochi strumenti, ma con i suoni ‘grossi’. A questo punto, voi siete legati da anni al lavoro con De Gregori: come riuscite a far convivere questo impegno principale con eventuali altre esperienze parallele, se le portate avanti e se ne sentite l’esigenza? A.: Incastrare altri lavori con quello di De Gregori è difficilissimo. Ora, parlando del mestiere di musicista, c’è da dire che sì, è un mestiere, ma qualcosa diventa un mestiere… quando sei costretto a pagare le tasse. Altrimenti non è un mestiere, fondamentalmente è una passione. Nessuno decide di diventare professionista: il professionista è un musicista che trasforma la passione in lavoro, è un ‘mago’ o uno fortunato. Quindi avere un lavoro così grande è ai limiti dell’ingombrante, è un lavoro che ti prende tutta la vita: torni a casa e pensi a prepararti al prossimo impegno, a come migliorare certe cose, a come eliminarne altre. E il tempo che ti rimane, cerchi di dedicarlo ad altre cose che ti piacciono. Ma non è così facile: tante volte, quando ti chiamano per fare un lavoro, sei costretto a dire di no. Comunque a me capita di fare altre cose, in particolare con l’etichetta Appaloosa/IRD, che organizza minitour in Italia di artisti americani, generalmente del genere Americana: è divertente ed è anche una grande scuola.
Nato a Roma nel 59 , suona la
batteria da quando aveva 10 anni e già pochi anni dopo si esibiva
pubblicamente tenendo concerti di genere rock-jazz con quello che è
stato il suo primo gruppo e dove il gap di età fra lui e i suoi
colleghi era mediamente di 7-8 anni. http://digilander.libero.it/helsapoppin/stefano.html
Musicista a 360 gradi, Elena si è diplomata in Violino e Canto Lirico presso il Conservatorio di Musica “G. Puccini” di La Spezia. Ha conseguito inoltre il 5° anno di Pianoforte, strumento col quale si è avvicinata alla musica fin da piccola. Sia come violinista che come cantante, ha collaborato con grandi artisti dei più diversi generi musicali. Per la classica e la lirica: Cristiano Rossi, Andrea Farulli, Massimo Quarta, Marzio Conti, Katia Ricciarelli e Andrea Bocelli. Per il Jazz: Enrico Rava, Mauro Grossi, Stefano Bollani, Petra Magoni, Rossana Casale e Armando Corsi. Per la Leggera: Francesco Renga, Morgan, Mario Biondi, Mauro Ermanno Giovanardi, Renato Zero e Sting. Nel 2008 ha registrato violino solista e cori nel disco “Per brevità chiamato artista” di Francesco De Gregori e da aprile 2011 è parte della Band dell’artista in qualità di violinista-corista. Per due stagioni consecutive è stata cantante, violinista e pianista della trasmissione “Vivere Meglio” sulle reti Mediaset. Nel 2012 ha pubblicato “Quel Fiore”, il suo primo Album solista. È insegnante di canto leggero e lirico dal 1997 e ha elaborato una propria tecnica di apprendimento e insegnamento del canto, alla base del Metodo Play the Voice utilizzato nella nostra Accademica di Canto. Informazioni sempre aggiornate su Elena sono disponibili sulla sua pagina Facebook e sul suo Blog.
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CHI FA MUOVERE LA CAROVANA
di Douglas Cole https://soundlite.it/live-concert-3/item/702-de-gregori.html
Quando abbiamo visitato lo studio Terminal 2 a Roma, l’anno scorso, era in fase di completamento il disco inaugurale dello stesso studio: il nuovo disco di Francesco De Gregori, “Sulla Strada”. Uscito in novembre del 2012, già nel marzo di quest’anno si era guadagnato un disco d’oro. Per le registrazioni più recenti, è stata aumentato l’ensemble storico che accompagna l’artista, con un gruppo di dieci musicisti che lo ha seguito in una tournée teatrale primaverile poi evolutasi per le piazze estive. Visto che noi della redazione siamo abituali frequentatori dei Festival francescani, è stata una sorpresa fortuita scoprire che la penultima data della recente tournée di Francesco De Gregori si sarebbe svolta all’aperto a Rimini – cioè, a due passi da noi – e, addirittura, proprio come parte di un Festival francescano. Così, ci siamo messi in cammino verso Piazza Malatesta per poterci godere un concerto de “Il Principe” della canzone, mentre congregavamo con i compagni emulatori de Il Principe della Pace. È certo segno dei tempi che quest’estate abbiamo visto una grande parte delle tournée nazionali di artisti importanti enumerare più musicisti sul palco che persone nelle squadre tecniche e di produzione messe insieme. C’è una grande differenza tra trovare il palco e il facchinaggio sul posto e dover trovare quasi tutto sul posto, e parecchie produzioni stanno scegliendo questa seconda soluzione per rispondere alla realtà economica del mercato degli eventi estivi. Chiaramente questa modalità può essere assolutamente vincente quando la tipologia di artista la permette e lo show può reggersi in piedi già quasi esclusivamente sulla forza della musica e sul carisma dell’artista. Infatti in tutte le produzioni di questo tipo a cui abbiamo assisto questa estate, il pubblico non ci è mai parso accusare la mancanza di maggiori mezzi, anzi, magari l’esperienza del concerto è stata addirittura aumentata dall’atmosfera più intima e gradevole. È certamente il caso di questa serata con De Gregori. Lo spettacolo è una produzione F&P Group, con materiale in tournée fornito da Agorà (della serie “poco ma buono”). In occasione della data di Rimini, il service Team E20 di Savignano sul Rubicone (FC) ha fornito l’audio e le luci residenti: PA Axiom e parco luci misto tra testemobili Robe, LEDWash DTS e generici.
La produzione
Sul posto incontriamo Giovanni Chinnici, direttore di produzione per questo tour “aerodinamicizzato”. “La produzione – ci racconta Giovanni – è stata curata dal mio capo, Orazio Caratozzolo, per conto di F&P Group; io ricopro il ruolo di direttore di produzione. Il tour è partito agli inizi di luglio, dopo un ottimo successo sia dal punto di vista tecnico che di pubblico in una fase primaverile nei teatri. Continua Giovanni: “Dall’anno scorso è stata fatta la scelta di andare con la mezza produzione, che comprende banchi, regie audio sala e palco, regia luci, monitor e backline. Ci troviamo abbastanza bene, grazie anche all’aiuto e grande lavoro di Gianmario Lussana, il nostro fonico, che fornisce una collaborazione importante. Infatti, pur trovando una situazione diversa in ogni location, abbiamo operato con la massima tranquillità e serenità, senza aver nessun tipo di problema e lasciando il pubblico sempre soddisfatto per l’ascolto. “Ovviamente c’è un importante lavoro di produzione: chiediamo e ci facciamo mandare la scheda tecnica dal service locale, io e Gianmario la valutiamo, per telefono o in presenza, e se non ci soddisfa chiediamo un’integrazione; devo dire che c’è sempre stata un’ottima collaborazione dalla parte dei promoter locali nel rispetto delle nostre richieste. Una formula quindi vincente per questo tour. Com’è composta la squadra in tour? Voglio subito fare un grandissimo plauso ai tecnici in tour, perché sono dei grandi professionisti con cui collaboro da anni, in grado di risolvere i problemi e non di crearli; a cominciare dai due backliner, Salvo Fauci e Alessandro Morella. Il fonico di palco è Simone di Pasquale, mentre, come accennavo, per l’audio in sala abbiamo Gianmario Lussana. Alle luci abbiamo Andrea Coppini perché, anche con la mezza produzione, abbiamo al seguito il nostro datore luci con un piccolo set di proiettori: parliamo di cinque bauli che ci permettono di avere comunque una nostra base con la quale è possibile comunque fare lo show anche se trovassimo qualcosa di inutilizzabile. Poi c’è Marcellino, che è il nostro driver, e che fa parte della famiglia. Forse è una domanda già scontata, ma quali sono le motivazioni per cui un artista come De Gregori usa la formula della mezza produzione? È inutile girarci intorno, la motivazione è economica, dettata da una serie di motivi. Io sono siciliano e faccio un esempio con la mia terra che, storicamente, era una delle patrie delle feste comunali e patronali. Questi eventi si sono ridotti moltissimo, senza esagerare almeno del 60 o 70 percento. Quindi c’è una realtà economica a cui le agenzie si stanno adattando, infatti non siamo certo i soli ad andare in giro con la mezza produzione. A mio parere è proprio il mercato estivo delle feste di piazza ad aver subito maggiormente questa problematica. C’erano dei comuni importantissimi che avevano “x” budget da investire in concerti ed eventi, budget che quest’anno è stato più che dimezzato. La mezza produzione è quindi un modo per poter andare avanti comunque con le tre o quattro date in Sicilia, in Calabria o in altri posti. Avete trovato sulle piazze della tecnologia adatta e dei service preparati, o qualche volta non è andata proprio benissimo? La media è decisamente positiva. Non abbiamo trovato delle casse vuote, per intenderci. Certo, non sempre abbiamo trovato in giro il materiale che ci possiamo aspettare con Agorà o con Lombardi o con gli altri service con i quali siamo abituati a girare con le produzioni intere; quindi anche la mentalità del tecnico nel confrontarsi con questo materiale deve essere piuttosto elastica. Però vi posso garantire che non ci siamo mai lamentati di quello che abbiamo trovato: c’è una qualità anche nelle realtà locali che può soddisfare le esigenze di questa tournée.
L’audio
Dopo un soundcheck notevolmente intenso, chiediamo a Gianmario Lussana, il fonico FoH, del suo lavoro con De Gregori. Spiega Gianmario: “Ricopro questo ruolo dal tour del 2001, inotre seguo Francesco nella registrazione e nel mix delle produzioni discografiche in studio. “In tanto bisogna subito dire che la differenza tra quello che succede in studio e quello che succede dal vivo con Francesco è molto evidente, perché lo spettacolo è un continuo evolvere. Per esempio, alla penultima data del tour, abbiamo provato due o tre canzoni che facevamo da diversi mesi... più che una scaletta c’è un repertorio che poi, di volta in volta, va a formare la scaletta della serata. Quindi, in realtà, anche l’arrangiamento di questi brani varia di volta in volta secondo le esigenze dell’artista. Questo aspetto viene coordinato da Guido Guglielminetti, il produttore artistico, capo banda e responsabile della parte artistica. Ovviamente al pomeriggio facciamo dei lunghi soundcheck durante i quali proviamo tutte queste variazioni ed io – e quel pover uomo di Andrea Coppini alle luci peggio di me – facciamo delle memorie a d’uopo; diciamo che rivediamo le memorie di qualche mese prima”. Si cerca di riprodurre i brani del concerto in modo fedele alle registrazioni? Effettivamente, nei brani dell’ultimo lavoro che si eseguono stasera si è cercato di riportare quanto registrato in studio; ma questo viene un po’ da sé, perché il modo di registrare che usiamo è molto simile a quello di un concerto, nel senso che abbiamo bisogno di uno studio con delle sale molto grandi e, magari, due o tre booth separati per poter registrare tutti contemporaneamente o quasi. Così noi montiamo come se fosse un live, con la batteria nel drumbooth, gli amplificatori per chitarra nei booth, possibilmente Lucio Bardi con la sua chitarra acustica da un’altra parte, e si suona tutti insieme. L’arrangiamento del pezzo nasce suonando tutti insieme, un po’ alla maniera degli anni ’70: Francesco si trova molto bene così, con Guido sempre a coordinare il lavoro. Pertanto è una situazione prettamente suonata e soggetta a qualsiasi improvvisazione? Assolutamente sì, non esistono sequenze in questo show. Tutto è suonato e ci sono 11 musicisti sul palco: batteria, basso, due chitarre che si alternano tra acustica ed elettrica, un chitarrista che suona la pedal steel, chitarra elettrica, il mandolino country, ogni tanto la dobro e lap steel. Poi abbiamo sassofono, tromba e trombone una novità di questa estate che ha voluto aggiungere Francesco: questo inverno infatti abbiamo registrato un pezzo con dei fiati in studio, il sound è piaciuto così tanto a Francesco che ha voluto portarli in tournée. Quale setup audio che gira con la produzione? Portiamo al seguito tutto quello che c’è sul palco: tutta la strumentazione, il backline ed il monitoraggio. Abbiamo anche le console, sia la D‑Show, che uso io, sia la DiGiCo SD8 che Simone usa sul palco; insomma tutto quello che riguarda l’audio fuorché il PA, che troviamo di volta in volta sul posto. Sul palco c’è un monitoraggio tradizionale, con 16 wedge monitor, i tre chitarristi hanno quattro o cinque amplificatori per chitarra, a volume smodato, e tutto questo, come immagini, chiaramente rende molto semplice fare il mix al front of house, soprattutto nei posti ad ambientazione quasi teatrale. In realtà, la sensibilità del musicista è tale da capire quando è che deve abbassare il volume sul palco perché sa che collaboriamo e riconoscono che, quando il fonico ha una richiesta del genere, è perché non sta lavorando contro di lui, ma sta lavorando insieme a lui. Dal palco ti arrivano quindi molti segnali? Abbiamo strumenti a corda di ogni tipo, dimensione, numero di corde e tonalità... passiamo dal basso elettrico a cinque corde al contrabbasso elettrico, poi chitarre acustiche, elettriche, pedal, mandolini... poi abbiamo una batteria Ludwig jazz kit anni ‘60, quindi solo un tom ed un timpano. Poi c’è una postazione tastiere abbastanza tranquilla: solo suoni di pianoforte, Hammond e Fender Rhodes; una fisarmonica, molti cori: quasi tutti i musicisti, anche se in pochi pezzi, fanno i cori... per esempio su Il Bandito e il Campione cantano tutti. C’è anche Elena Cirillo che fa sostanzialmente cori, seconda voce e violino. Comunque riusciamo a stare sempre sotto i 48 canali. Com’è il setup del microfonaggio e della regia? È tutto più o meno standard: Shure Beta52 sulla cassa, gli AT4050 Audio‑Technica sugli amplificatori per chitarra, C414 AKG come overhead – niente di strano. Io sulla console ho il pacchetto Waves 7, perché utilizzo su i gruppi Air Compressor C4 ed L2 sui gruppo delle percussioni, sul gruppo delle chitarre, sul gruppo tastiere e sul gruppo fiati, anche se vengono comunque trattati singolarmente. Il master stesso è poi ricompresso nello stesso modo con delle EQ passive, sempre in plug-in. Di outboard non ho nient’altro, a parte un Avalon 737 sulla voce che è un mio vezzo. In realtà non lo uso neanche più come preamplificatore, ma solo in insert per avere un controllo in più, qualsiasi cosa succeda. Come ti trovi lavorare con un impianto diverso ad ogni data? Quello di cui ho sentito la mancanza non è tanto la tecnologia, che ho trovato sempre a livelli medio-alti (magari qualche volta bisogna litigare per avere qualche cassa in più!), ma una spalla fidata su cui piangere durante il concerto. Normalmente questo è il ruolo ricoperto dal mio PA man preferito che è Luca Nobilini, il quale di solito mi aiuta a far quadrare il cerchio. Detto questo, e senza togliere niente a chi fa questo lavoro nelle realtà locali, non ho avuto grossissimi problemi e ho anche avuto delle belle sorprese da degli impianti magari non blasonatissimi che, alla fin-fine, proprio grazie alla qualità del personale che ci metteva le mani, hanno dato degli ottimi risultati. Consiglierei comunque a chi fa una tournée del genere, di portare, se possibile, sempre un PA man di fiducia al seguito. Perdi molto tempo nell’ottimizzazione dell’impianto quando arrivi sul posto o eviti di mettere le mani e cerchi di fare il possibile con mezzi tuoi? Cerco sempre di ottimizzare il più possibile quello che esce dall’impianto anche se, come ben sapete, spesso e volentieri i problemi si hanno al momento del montaggio. Con i line array a garantire la riuscita della serata è colui il quale fa il progetto, decide i gradi di apertura e come distribuire la pressione sull’area. Da lì in poi, andare a mettere in fase i sub o i front-fill o equalizzare a piacimento è, in realtà, il minimo. Sul quello, sicuramente, c’è da lavorare tanto. Certo, però, se arrivo sul posto e vedo un impianto messo... non so, con un cluster un metro più alto dell’altro – cosa che comunque non è mai successa – allora qualcosa magari la dico... però si cerca sempre di portare a casa capra e cavoli, diciamo... alle fine non stiamo salvando il Pianeta, insomma. Quali sono le vostre richieste nella scheda tecnica? La scheda tecnica che arriva al service locale è quella standard di un PA line array di potenza e di copertura adeguata alla venue. Questo, purtroppo, a parte quando si riesce a vedere la planimetria del posto, non si riesce mai a controllare se quanto richiesto è poi effettivamente quello che si troverà. Poi, sulla scheda, ho indicato quelle tre o quattro marche di impianto più diffuse, ma più ce al marchio miriamo alla copertura ed alla potenza.
Le luci
Quando finisce di aggiungere gli ultimi ritocchi, Andrea Coppini ci racconta velocemente dell’aspetto luci. “Questa produzione – ci racconta Andrea – era partita con l’idea di portare solo l’operatore luci senza alcun materiale al seguito. Io però ho chiesto, e la produzione mi ha accontentato, di portare in tour un piccola parte di fari che io monto da solo, per essere sicuro di avere almeno il minimo indispensabile per portare a casa lo spettacolo in qualsiasi condizione. In aggiunta, di volta in volta, integro con motorizzati, incandescenza ed altro che trovo sul posto. In effetti la produzione non richiede né specifica materiale luci, ma spesso suoniamo nei festival, quindi c’è già un allestimento precedente. Normalmente trovo una serie di wash e di spot da utilizzare” È vero che è il luciaio a soffrire di più nella formula della mezza produzione? In questa produzione, essendo io l’unico addetto alle luci in tour, oltre a fare l’operatore – quindi quando arrivo farmi dare i patch del parco residente, ed adattare la programmazione ai proiettori che trovo – devo anche montare quei pochi fari che porto dietro. Diciamo che copro anche il ruolo di tecnico. In realtà è piuttosto impegnativo. Come fai a programmare uno spettacolo senza sapere che proiettori troverai in giro? A parte la difficoltà già iniziale di avere avuto una notte sola di programmazione, ho preso lo spettacolo che avevamo fatto in teatro, che aveva un allestimento ben definito e diverso da questo, e in una notte ho riadattato tutto. Fortunatamente mi ero già preparato in virtuale con il computer a casa. Ho impostato la programmazione dello spettacolo in maniera molto basilare, perché, chiaramente, non sapendo cosa trovo di volta in volta, non potevo fare degli specials sul singolo cantante o tante rifiniture perché, magari, non avrei avuto i pezzi necessari per realizzarle. Cosa portate dietro in tutto? Ho in dotazione sei Robe Robin 300 Wash, che uso montati di taglio, tre a destra e tre a sinistra su delle piccole wind-up della Manfrotto per avere il faro all’altezza giusta. Sono leggeri e facili da montare. Poi ho sei Alpha Beam 700 Clay Paky che monto a terra sul palco che servono per dare un po’ di movimento durante lo spettacolo. Il controllo è una Jands Vista che ho provato per la prima volta nella tournée primaverile e che ho confermato anche nell’estiva. Per comodità ho un modulo Art-Net che monto sul palco e che mi pilota i fari da là. Il mio multicore quindi non è più su cavi DMX, ma è un cavo Ethernet.
Lo show
A giudicare dalla scaletta di questo concerto, anziché Sulla Strada, forse un nome più indicativo per la tournée sarebbe stato “Francesco De Gregori e la Sulla Strada Band”. Il concetto di tour come promozione al disco è ormai praticamente superato dalle non vendite dei dischi stessi, così, vista l’importanza del repertorio dell’artista, il concerto è chiaramente, e giustamente, un “best of”. I brani dell’ultimo disco infatti vengono dosati regolarmente nel corso del concerto, ma sono i classici a dominare la serata. Parecchi di questi ultimi, come Generale o Alice, magari con arrangiamenti nuovi che sfruttano i nuovi elementi della band, ma anche alcuni spogliati all’essenziale. Per quanto riguarda l’audio, la piazza – che è essenzialmente un parcheggio confinato su diversi lati in modo irregolare da muraglie antiche – aveva tutte le potenzialità per essere una location problematica ma, fortunatamente, lo spazio del pubblico si stendeva indietro sempre in asse con l’impianto. Perciò in tutta la zona d’ascolto in cui c’era pubblico, sembrava veramente ascoltare il concerto in diretta sui monitor da studio con l’aggiunto di parecchio rinforzo nelle frequenze sub-bass. Complimenti a Gianmario per il mix molto nitido, nonostante il numero di strumenti elevato e per la voce non esageratamente avanti. Anche l’impianto Axiom di TeamE20 continua a dimostrarsi un attrezzo assolutamente valido, se nelle mani giuste, in applicazioni di questa scala. Avevamo visto lavorare Andrea Coppini fino a 20 minuti prima del downbeat, sistemando elementi d’incandescenza del parco luci residente. Anche se i momenti di punto nell’illuminazione sono stati basati fortemente sui proiettori Robe e Clay Paky portati dalla produzione, Andrea ha sfruttato il parco presente in modo intensivo. Ovviamente le luci non diventano mai protagoniste in un concerto di un artista come De Gregori, ma i momenti di disegno in aria, i quadri di colori forti non sono mancati e la parte illuminotecnica dello spettacolo è stata sorprendentemente creativa ed efficace. Senza dubbio una bella serata. Ma consigliabile arrivare già in coppia: rimorchiare al Festival Francescano può risultare difficile. Ma non è detto!
ATTUALI COMPONENTI DELLA CAROVANA
Sq. Luci: Andrea Coppini, Gianni Vetrugno, Nicola Caccamo - Sq. Audio + Fonico Foh: Lorenzo Tommasini, Stefano Guidoni - Sq Backliner + Fonico monitor: Simone Di Pasquale, Salvo Fauci, Alessandro Morella - Autista bilico: Mimmo Griffa - Autista Artista: Maurizio Degni - Assistente Artista: Vincenzo Lombi (Chips) - Direttore di Produzione: Giovanni Chinnici - Assistente di Produzione: Fenia Galtieri
VIDEO
Intervista a Francesco De Gregori
(Francesco Pacifico)
(Torniamo a parlare del problema
“cantautore”.)
Prendiamo il Never Ending Tour di Bob Dylan
per capire questa estrema possibilità del…
Quando la serata va male, il pubblico è
distratto, con che spirito tiri avanti?
le foto della band sono di Valeria Bissacco
Set fotografici presenti su Flickr riguardanti alcuni concerti di Francesco De Gregori.
I GRANDI FOTOGRAFI DI FRANCESCO
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