CARAVAN / SONY 2017 EAN: 0889854093112 Registrato al Teatro Antico di Taormina il 27 agosto 2016 - Data di pubblicazione: 3 febbraio 2017 Disponibile anche in 3 LP con etichetta Sony
Prodotto da Guido Guglielminetti
tutti i brani sono di Francesco De Gregori, tranne i riadattamenti di Servire qualcuno (Gotta Serve Somebody), Un angioletto come te (Sweetheart Like You), Come il giorno (I Shall Be Released) di Bob Dylan e 4.3.1943 (Pallottino-Dalla)
I TESTI, NELLE VERSIONI DEL DISCO grazie a Samuele Romano
La passione, gli incontri, il Principe e l’arte di arrangiare di Valeria Bissacco
È un privilegio intervistare per L’Isola che non c’era Guido Guglielminetti, bassista, arrangiatore, compositore e produttore italiano tra i più noti ed importanti della scena musicale degli ultimi quattro decenni. Il musicista torinese collabora ed ha collaborato in passato con alcuni fra gli artisti italiani più rappresentativi, tra i quali Umberto Tozzi, Lucio Battisti, Mia Martini e Loredana Bertè, Ivano Fossati e naturalmente Francesco De Gregori, con il quale lavora senza interruzione da più di trent’anni. Conosco Guido personalmente da tempo, complice la passione per De Gregori e Fossati che mi ha portato ad assistere a parecchi loro concerti. Estremamente serio e attento sul palco, fuori dalle scene ha sempre un sorriso sincero ed una gentilezza splendida e disarmante; è un professionista ma anche, e soprattutto, un vero signore. Non nascondo un po’ di soggezione ora, nel salutarlo e nel dargli con grandissimo piacere il benvenuto sulla nostra Isola, ma lui riesce a mettermi immediatamente a mio agio con grande disponibilità. Siamo contenti e curiosi di rivolgergli alcune domande, in occasione dell’uscita prevista per domani venerdì 3 febbraio del nuovo disco di Francesco De Gregori, un doppio live registrato al Teatro Romano di Taormina lo scorso 27 agosto, che si intitola Sotto il vulcano ed è prodotto dallo stesso Guglielminetti. Uscirà sia in cd che nella versione più “preziosa”, in vinile. Buongiorno Guido, e grazie di cuore per aver accolto il nostro invito a rilasciare questa intervista a L’Isola che non c’era. Ci sentiamo telefonicamente in occasione dell’uscita del nuovo lavoro di Francesco De Gregori che tu hai curato, ma nonostante siamo molto curiosi non è di questo che vorrei innanzi tutto chiederti. A quello arriveremo naturalmente dopo, prima mi piacerebbe ci raccontassi qualcosa di te e dei tuoi inizi come musicista. Come hai scelto di suonare il basso e quando hai deciso che la musica sarebbe diventata il tuo mestiere? Come gran parte dei bassisti ho cominciato suonando la chitarra perché è il primo strumento che viene in mente a tutti, in quanto è quello che spicca di più in un gruppo, e poi il chitarrista è quello che rimorchia le ragazze, mentre il bassista è sempre un po’un personaggio di secondo piano, sullo sfondo, e quindi non lo vuol fare mai nessuno. Quando ho cominciato a suonare in parrocchia e sono entrato a far parte di un gruppo, del quale il cantante era Umberto Tozzi, a loro serviva un basso e quindi io mi sono adattato. In effetti per me è stata una grande fortuna avere questo tipo di opportunità anche perché poi ho scoperto che il bassista, il chitarrista o il batterista sono delle personalità precise, sono caratteri e tipologie di musicisti molto diversi tra loro, ed il basso è uno strumento che mi piace tantissimo. La vita è fatta di incontri: noi diventiamo ciò che siamo anche grazie ad alcuni incontri (fortunati o meno) che hanno in qualche modo guidato o condizionato le nostre scelte. Quali sono le persone, o gli eventi, che più sono stati importanti nel tuo percorso musicale? Guarda, dal mio punto di vista qualsiasi cosa mi sia successa nel bene e nel male è stata molto importante per la mia formazione perché, come sto scrivendo anche nel mio libro in cui ci sarà una parte dedicata appunto a un incidente che ho avuto che è stato determinante per farmi capire cose di me che prima non sapevo, devo dire che tutto ciò che mi è accaduto e tutte le persone che ho incontrato sono state molto importanti. Certo, poi i nomi che lo sono stati di più artisticamente sono Ivano Fossati, col quale ho cominciato un certo tipo di discorso musicale e prima, è chiaro, Umberto Tozzi perché proprio con lui ho iniziato, cioè abbiamo iniziato insieme suonando la chitarra ai giardinetti, e poco per volta abbiamo cominciato a fare questo mestiere seriamente e poi ci siamo separati per ragioni professionali, ma siamo sempre rimasti amici. Fino ad arrivare “al Nostro”, a Francesco De Gregori appunto, col quale ormai lavoro da più di trent’anni. A volte non me ne rendo conto però è più di quanto dura in media un matrimonio, e fra l’altro sono anche contento di notare che non sento, anzi, non sentiamo il peso del tempo. Guglielminetti bassista, ma anche autore. Ci sono infatti alcune canzoni che portano la tua firma, una delle quali (forse la più famosa) è Un’emozione da poco di Anna Oxa. Ci racconti come hai deciso di dedicarti anche alla scrittura dei brani? Mah, un po’ come in tutte le cose che riguardano questa mia grande passione, che poi per mia fortuna è diventata anche un lavoro, le scelte non le ho quasi mai fatte io. Le cose che mi sono successe, sono successe proprio perché per carattere io sono sempre molto aperto e disponibile alle nuove esperienze, non mi tiro mai indietro davanti a niente, per quanto riguarda la musica naturalmente. Quindi, anche in quel caso, stavo lavorando in quel periodo alla RCA con Fossati e abitavamo insieme in un appartamento a Tor Lupara, fuori Roma.
Stavamo lavorando all’album di Ivano La casa del serpente, quando a lui chiesero se avesse un brano per una ragazza esordiente da produrre ma Ivano non aveva niente e chiese a me. Io avevo una cassetta con un po’ di appunti di cose che avevo scritto così in casa, gliele feci sentire e lui scelse due pezzettini che gli piacevano particolarmente e li mise insieme facendoli diventare una canzone, perché poi in realtà erano due pezzi distinti. Ivano improvvisò un testo su un foglio di quaderno e lo facemmo sentire al pianoforte. Il pezzo, nato tutto per caso, piacque e lo fecero, ma ti dico, sinceramente gli ultimi a crederci eravamo io e lui: la canzone è nata da sola praticamente. In effetti è così che spesso accade: le cose migliori avvengono sempre quando meno ci pensi, perché invece più ti concentri su una cosa, cercando di fare sempre il meglio, alla fine rischi di appesantirla. Hai da parte qualche sorpresa, per un futuro prossimo, magari un disco di brani tuoi? C’è il libro, al quale sto lavorando da un bel po’ e su cui adesso sto arrivando alla stretta finale, e che avremmo in programma di far uscire nella prossima primavera. E poi in effetti sul fatto di proporre delle canzoni è da tempo che ci sto pensando, il materiale ce l’ho, e comunque vorrei partire dalle cose che ho scritto per altri e proporle in una mia versione. Sì, prima o poi lo farò, ma sono ancora giovane, ci penserò più avanti! – conclude ridendo. Tra gli artisti con i quali hai lavorato, ricordiamo in particolar modo due figure femminili molto diverse tra loro che hanno segnato la storia della musica italiana: Nilla Pizzi e Mia Martini. Come è stato il tuo rapporto con loro, che ricordi porti con te? Ah, che bello! Mi fa piacere che tu nomini Nilla Pizzi perché quando io ho lavorato con lei ero veramente piccolo, avevo tipo 20/22 anni, ero proprio agli inizi e lavorare con una professionista, una donna così importante ai miei occhi, e oltretutto con il mio retaggio rock, era veramente una cosa incredibile. In quel periodo esistevano ancora le case discografiche, esisteva il mestiere del turnista. Io entrai a far parte dell’Ariston quando aveva ancora gli studi in centro a Milano dietro Galleria del Corso, e quindi io lì facevo il bassista, lavoravo in studio anche con Claudio Rocchi, e comunque stavo lì ed ero a disposizione dei “clienti” della casa discografica. In quel caso Nilla Pizzi doveva fare due dischi: uno di canzoni di suoi successi e un disco di tanghi, io ero lì e quindi mi fecero fare questa cosa. Ero molto preoccupato, perché è un mondo che ancora non mi appartiene adesso, figurati allora, ma la bravura e la dolcezza di questa signora e dei due musicisti anche loro belli grandi che lavoravano con lei ormai da anni, espertissimi, hanno fatto sì che mi sentissi proprio accolto come un figlio. Ma d’altra parte io me ne rendo conto adesso, alla mia età, quando mi trovo a dover lavorare con ragazzi molto giovani anche io ho una sorta di affetto, di senso di protezione nei loro confronti. Quindi lavorare con questi mostri di bravura, perché lei era di una bravura incredibile, è stata un’esperienza bellissima. In un giorno abbiamo fatto due album, perché lei cantava così, le mettevano il microfono davanti e lei cantava, e poi arrivati tipo a mezzogiorno : “Eh no, ragazzi, adesso andiam a mangiare eh!” con questa cadenza romagnola (sorride rumorosamente al telefono) …un’esperienza fantastica! E poi Mimì. Beh, con Mimì è stato veramente molto bello perché anche in questo caso mi sono trovato a lavorare con una persona di un talento smisurato ed una sensibilità fuori dal comune, sia musicalmente che umanamente. Ci siamo voluti molto bene, lei era molto affezionata a me, e abbiamo fatto veramente un bellissimo percorso. Fra l’altro c’è stato un periodo in cui lei voleva produrre un mio disco, le piacevano le cose che io scrivevo e siamo andati anche in studio per fare un po’ di provini, ma poi la cosa è naufragata semplicemente perché io non ero convinto di voler fare l’artista, per cui a un certo punto le dissi: “guarda io non voglio che stiamo qui a perdere tempo e denaro” e quindi niente, continuammo a fare il nostro lavoro e abbandonammo queste mie velleità artistiche. Una cosa che mi piace ricordare di Mimì è che, un paio di volte tornando a Milano da una serata, e quindi arrivando nei pressi di casa alle 3 del mattino lei ci chiedeva se avessimo fame. Sai, alle 3 del mattino dopo aver suonato, come fai a dire no? Solo che Mimì non era una che faceva uno spaghettino aglio e olio al volo, quindi arrivavamo a casa sua e si metteva a fare la parmigiana di melanzane, oltre che gli spaghetti, la pasta al forno e tutto il resto! E quindi si finiva per fare le 7 o le 8 otto del mattino, pieni… e niente, era un personaggio eccezionale. Hai partecipato come musicista alla registrazione di sei album di Ivano Fossati, compreso l’ultimo Decadancing. Come immaginerai, per noi amanti della musica di qualità, il ritiro di Fossati è stato un colpo durissimo da digerire. Personalmente non credo di essermi ancora abituata all’idea che Ivano non canti più, spero ancora ingenuamente che ci possa ripensare. Come hai vissuto, da musicista e collaboratore, questa sua scelta? Con Ivano ho fatto il suo penultimo tour. Avrei dovuto fare anche quello dell’estate successiva se non che anche Francesco in quello stesso periodo partiva con i concerti. L’agenzia pensava di organizzare le date in modo che potessi fare tutte e due le cose, solo che poi, confrontando i calendari, mi resi conto che non era possibile e quindi a Ivano dissi: “abbi pazienza, d’altra parte la mia funzione all’interno del gruppo di Francesco è un’altra, non è solo quella di bassista, per cui devo fare una scelta.” Per Ivano non ci fu problema, lui comunque sapeva che prima o poi sarebbe successo, per me è stato un peccato perché sarebbe stato bello continuare a suonare con lui fino alla fine. Dopo la dichiarazione del suo ritiro, ho lasciato passare più o meno un mesetto e poi sono andato a trovarlo, perché avevo questa curiosità, volevo parlare con lui, volevo spiegargli il mio punto di vista. Mi ero reso conto nel frattempo che il modo di lavorare con cui nel corso degli anni mi sono abituato con Francesco è il modo ideale perché noi, come avrai avuto modo di notare, ancora ci divertiamo, per noi è veramente una ricreazione andare a suonare, cosa che invece con Ivano non era assolutamente, era veramente una grande fatica. Era molto molto difficile lavorare in quel contesto, e io chiaramente conoscendo Ivano da sempre, vedevo quanta fatica lui stesso facesse nel portare in giro uno spettacolo in cui ogni sera si dovesse fare sempre la stessa cosa, in quel punto lì, con la stessa intonazione, e fare sempre quei pezzi lì, tutto rigorosamente con le basi, tutto studiato; alla fine entri veramente in uno stato ipnotico perché non suoni. Siccome noi abbiamo iniziato suonando, suonare è veramente la nostra passione, quando tu ti rendi conto invece che di quella cosa lì è rimasto solo lavoro, diventa troppo faticoso, e cominci a sentire la fatica dei viaggi, le scomodità di certi alberghi, senti anche la difficoltà di alcune persone che magari ti stanno vicino. Quindi ho voluto incontrare Ivano per dirgli: “guarda che forse tu ultimamente hai preso una strada, non per colpa tua, che ti ha fatto disaffezionare a questo lavoro. Ma guarda che questo lavoro è bello, io te lo posso dire perché lo sto facendo, e per come lo sto vivendo con Francesco posso testimoniare che è un bellissimo lavoro!” Però, devo dire anche che, invece, ho trovato lui molto sereno, molto tranquillo, finalmente rilassato come non lo vedevo durante il tour, per cui a un certo punto mi son detto: se alla fine, per come lo vedo, sta bene, sono contento per lui. E arriviamo a De Gregori, con il quale lavori dal 1985, cioè dall’album Scacchi e tarocchi. Dal 2000 sei anche produttore artistico dei suoi dischi, oltre ad accompagnarlo in questa sorta di never ending tour in cui tu sei il “Capobanda”. Lui si definisce “il cantante della band”, quindi immaginiamo che il vostro rapporto sia parecchio stretto, perlomeno negli ultimi tempi, quasi simbiotico. Ce ne parli? Sì certo. Devo dire che la crescita del nostro rapporto è stata molto lenta e progressiva, perché entrambi siamo persone non dico chiuse però molto guardinghe, e siamo fondamentalmente molto timidi entrambi. Anzi, posso dire che quella che normalmente viene definita come la scontrosità di De Gregori, altro non è che una forma di timidezza, di riservatezza, che poi ultimamente ha anche in parte superato. E quindi il nostro rapporto è cresciuto molto lentamente, complice anche la distanza, che in questo caso è un fattore positivamente importante. Forse, se abitassimo nella stessa città, potrebbe subentrare quella cosa tipo vedersi quando non c’è niente da fare, che fa quindi prendere all’amicizia una piega diversa. Invece noi ci vediamo quando abbiamo dei progetti su cui lavorare, con grande felicità perché ci vediamo nel momento della ricreazione. Se ci vedessimo anche per andare al cinema ad esempio, dopo un po’ si diventa “quasi parenti” e alla fine secondo me il rapporto un po’ si deteriora. Invece nel caso nostro è cresciuto sì lentamente, ma molto bene. Intanto, io devo a lui la scoperta di cose di me che non conoscevo perché, tornando a quell’aspetto del mio carattere che mi ha sempre permesso di buttarmi nelle avventure a capofitto, quando lui la prima volta mi disse: “Senti un po’, perché non vai tu a Londra a fare i missaggi dell’album Terra di nessuno?” puoi capire che io ebbi difficoltà a rimanere in piedi, però senza farmi accorgere dissi sì, che non c’era problema. Poi comunque non ci dormii per una settimana, perché puoi immaginare, però grazie a lui in quel caso ho scoperto che certe cose le potevo fare. Così pure quando lui mi disse che c’era da scrivere gli archi per Stelutis Alpinis e poi Sempre e per sempre o L’infinito, io risposi: “sì sì, non c’è problema” anche se non avevo mai scritto gli archi in vita mia. Però imparai, e li scrissi. Ma poi, come se non bastasse, bisognava pure dirigerli, dal vivo in teatro, e in più curare tutta la registrazione live del concerto! (ride) Comunque alla fine ci riuscii grazie a Francesco, perché lui ha saputo darmi fiducia e spronarmi in questa direzione, e se alla luce di oggi queste cose ancora mi piacciono, evidentemente le ho fatte bene. Per cui io a un certo punto mi domandai: ma insomma, visto che questa persona, che è una persona che io stimo, ritiene che io sia in grado di fare questa cosa, chi sono io per dire che non è così, per mettere in dubbio una cosa del genere? Quindi, evidentemente, lui vede delle cose di me che io non vedo. Il nuovo album in uscita è un live, la registrazione del concerto che avete tenuto a Taormina la scorsa estate. Ci par di capire che Francesco ami molto i dischi dal vivo, che sono numericamente piuttosto presenti nella sua discografia. Perché avete scelto quella data in particolare e, se è stata fatta una selezione, con che criterio avete deciso quali brani inserire nell’album?
In realtà mancano solo due pezzi di quel concerto (L'Angelo e Battere e levare n.d.r.), molto semplicemente perché non ci piaceva come sono venuti quella sera, mentre tutto il resto è ineccepibile. In effetti al giorno d’oggi noi siamo un po’ strani, nel senso che per noi i live sono live, nel senso che non gli facciamo niente. Francesco non ha ricantato una nota in quell’album e nessuno di noi ha risuonato nulla, per cui sono come i concerti dal vivo a tutti gli effetti. La data di Taormina è una data particolare perché quel giorno Francesco mi telefonò al mattino e mi disse: “Sai, stasera vorrei fare nei bis 4 marzo 1943” e io allora sguinzagliai tutto il resto della “banda”; al pomeriggio ci preparammo, ascoltammo l’originale, ci imparammo le parti e quando arrivò lui cambiammo al volo solo la tonalità perché non andava bene, la provammo due volte nel pomeriggio e alla sera la suonammo. Gli proposi anche di registrare quella serata, memore del fatto che quell’unica volta che avevamo fatto Vita spericolata avevamo registrato e poi quel pezzo è uscito, ma lui disse di no. E io dissi “va beh” …e infatti a sua insaputa decisi di registrare! Mi sono dato da fare per avere dei microfoni in più per il pubblico, un computer adatto, insomma decisi di farlo comunque e mi organizzai. Dopo di che abbiamo fatto il concerto ed è finita lì. È passato qualcosa come 15 /20 giorni, e Francesco mi telefona e mi fa: “Senti qua, ma tu hai registrato Taormina?” E io: “Certo!” E lui: “Ah ma allora sei stronzo!” ridendo naturalmente, “e non me lo fai sentire?”. “Ah” dissi io: “adesso lo vuoi sentire!” Allora gli mandai l’mp3 di tutto il concerto, a lui piacque molto, e dopo un po’ di tempo decise di farlo, così con Tommasini, il nostro fonico, facemmo il mix e a novembre in 20 giorni in studio è nato questo disco che uscirà domani. Sono molto contento di questa cosa, perché se io non avessi voluto fare la registrazione “di nascosto”, ora non esisterebbe, e invece vi assicuro che è un bellissimo documento. Il fatto poi che Francesco sia così affezionato al live rispecchia comunque una sua caratteristica che come tu ben sai è quella di non fare mai la stessa cosa da una sera all’altra, e quindi a volte nei live troviamo delle versioni molto belle, spesso più belle dell’originale o comunque con caratteristiche molto interessanti sia dal punto di vista degli arrangiamenti che del suo modo di cantare, o anche delle cose che dice (di quel poco che dice).
Infatti, a proposito, si nota che ultimamente Francesco sul palco è diventato meno “timido”, può essere frutto della più recente esperienza con Lucio Dalla, secondo te? La mia teoria, che è perfettamente d’accordo con la tua, e della quale ci ha messo al corrente anche lui è che adesso Lucio abita praticamente dentro di lui, anche perché comunque per le dimensioni (ride)…ci sta. Praticamente Francesco “è posseduto” da Lucio in certi atteggiamenti, ad esempio con certe persone che fino a poco tempo fa avrebbe mandato a quel paese, non sembra quasi più lui: adesso si vergogna meno, è più disinvolto, percepisce l’affetto delle persone che lo stimano e non è più sfuggente come un tempo, è più sicuro di sé ed è più divertente, anche. Comunque un’altra cosa che mi piace molto di Francesco è questa sete che ha ancora oggi di imparare da tutto e da tutti, e questa voglia di crescere continuamente sia musicalmente che come uomo, e infatti mi sono accorto che durante il tour con Dalla (che è stato molto faticoso per questo scontro di personalità, non dei due artisti ma proprio dei due mondi completamente diversi) Francesco, che è sempre molto attento a tutto quello che gli succede intorno, trovandosi costretto a stare con Lucio e fare tutte le cose insieme, ha imparato che comunque ricevere l’affetto delle persone è una cosa che dà grande soddisfazione e poi sentirne il calore è umanamente molto bello. Puoi darci a questo punto qualche anticipazione su un eventuale tour estivo o su un nuovo album di inediti del Principe? Ne stiamo parlando in questi giorni, ma più che fare una vera e propria presentazione del disco vorremmo andare un po’ in giro a suonare, magari fare qualcosa all’estero, un girettino qua fuori di casa, però ancora non c’è niente di definito. La cosa importante è che questo è un periodo che Francesco dedica alla scrittura: in questo momento sta lavorando e non lo vogliamo disturbare perché sta scrivendo delle cose nuove. C’è in programma un disco di inediti, non so quando potrebbe essere pronto…Se tutto va come deve andare, azzardo, potrebbe essere che intorno a maggio-giugno facciamo il disco che potrebbe uscire in autunno, ma per ora sono tutte congetture. L’importante è che lui ora si concentri sui pezzi inediti di cui noi tutti abbiamo bisogno; sei d’accordo, no? - Naturalmente sono d’accordo, e sorridiamo all’unisono al telefono. Ci avviamo a chiudere questa bella chiacchierata guardando al futuro. La tua attività di musicista e di produttore ma anche di insegnante ti ha portato a individuare dei giovani talenti, sia musicisti che voci e compositori interessanti, personaggi che in qualche modo potranno diventare il “nuovo Fossati” o il “nuovo Guccini” (tanto per non citare chi è ancora in piena attività)? Intanto voglio fare una precisazione: il termine “insegnante” non mi calza molto. Ho inventato questo mio corso PSR (Practice Studio Recording) che è relativamente nuovo e che in qualche modo insegna, ma per il ragazzo che viene da me è un modo che si avvicina a quello in cui io stesso ho imparato a fare questo mestiere, cioè guardando chi era più bravo di me. Consiste in due giorni di lavoro nel mio studio durante i quali io e il corsista di turno realizziamo un suo brano inedito, ma se quando dico “brano” ti viene in mente una canzone, spesso mi arrivano delle cose che di “brano” hanno veramente poco. Così come succede anche a me quando scrivo un brano, con un’idea, due accordi, una pseudo-melodia, due parole di testo e poi diventa una canzone, facciamo la stessa cosa con questi ragazzi. C’è stata una ragazza ad esempio che ha ammesso subito di non suonare niente. “Se vuoi ti canticchio qualcosa” ha detto, e ha tirato fuori un pezzo di carta con due parole scarabocchiate e mi ha cantato una melodia. Per sua e mia fortuna questa ragazza canta molto bene, è intonata, la linea melodica era carina per cui da lì, accompagnandola al pianoforte ci siamo inventati un pezzo che poi è diventato una canzone molto bella, della quale siamo molto contenti. Ci sono tanti ragazzi che scrivono bene e ci sono dei talenti, però devo dire anche che purtroppo si risente molto di quello che c’è in giro, perché uno che vive nel 2017 non può non sentire cosa gli succede intorno e non esserne influenzato. Allora, nella migliore delle ipotesi c’è quello che è influenzato da De Gregori o quello che è influenzato da Fossati, però in realtà manca tutta una parte centrale, infatti stiamo parlando di grandissimi musicisti ma di due generazioni fa. Manca il passo successivo e, soprattutto in questo momento, per questi ragazzi proporre la propria musica è estremamente difficile. Come dicevo, le case discografiche non esistono più, gli altri canali ci sono, li stiamo percorrendo e sono molto interessanti, ma ormai bisogna mettersi in testa che bisogna diventare imprenditori di sé stessi. Chi vuole fare musica lo deve fare a proprie spese, proprio perché non è più così costoso come un tempo, e deve essere anche un po’ pratico di tutto. Poi attenzione, come dico sempre io, se per fortuna la tecnologia oggi permette a chiunque di fare musica, la sfortuna è che chiunque crede di poterla fare, ma non è così: ci vuole talento, ci vuole il lavoro, ci vuole studio, cioè se non hai delle capacità è meglio che fai altro. Tanti pensano che scrivere e realizzare sia una cosa facile, poi quando vengono qua nel mio studio si rendono conto che ci sono delle cose che bisogna sapere, che ci vuole tempo per imparare, che è un lavoro vero. Non c’è più il discografico che ti scopre e ti lancia, quel tempo è finito, non esiste più quella figura là. Prima ho citato questa ragazza che si chiama Giorgia Bazzanti, perché tra i ragazzi che sono venuti da me è quella più intraprendente, il suo brano è su tutti i portali in internet, usa tutti i canali, si sta muovendo molto bene per cui la strada è questa, dobbiamo cercare in qualche modo di sfruttare la fortuna che abbiamo di poterci realizzare i brani in casa, con poco, e poterceli distribuire in tutto il mondo con poco. Un po’ alla volta arriveremo anche a capire come far funzionare al meglio questo meccanismo, visto che ormai i cd sono diventati obsoleti. Adesso c’è un bel ritorno del vinile, che non è nemmeno più così costoso da realizzare come era un tempo. Tutti quanti abbiamo una certa nostalgia del vinile che è anche un bell’oggetto, no? E quindi tutto sommato ci si auspica che il cd scompaia e poi, oltre al vinile, naturalmente rimangano gli mp3 che scarichi da internet, metti nella chiavetta, ascolti in macchina e porti con te ovunque. Questi sono i due supporti che chi fa musica deve cercare di sfruttare per poterla fare a 360°. Infine una curiosità “social”: sappiamo che sei molto attivo e presente su Facebook. I tuoi amici sono molto divertiti dai tuoi indovinelli e hai creato un personaggio piuttosto originale e di tutto rispetto, il Lumaco, che noi “fans” amiamo molto. Come vedi il ruolo dei social network nella promozione di un prodotto musicale o di un personaggio pubblico? Credo che dipenda molto dalla personalità del soggetto: io Facebook lo uso molto, è attraverso Facebook che veicolo il mio corso e faccio sapere le cose che faccio, quindi per me è utile. Comunque, questa cosa da parte mia non è nata con lo scopo di farmi pubblicità, in realtà è nata come divertimento. Infatti, al contrario di tante persone della mia età, io sono stato sempre appassionato di computer, di questo mondo, ho iniziato proprio da bambino coi videogiochi e poi coi programmi, ed è una cosa che mi piace e che faccio con grande divertimento. Poi, alla fine è diventato anche quasi un altro lavoro, nel senso che mi serve per far conoscere la mia attività, e anche quello che faccio con altre persone dell’entourage di Francesco. È utile anche a lui poi alla fine, perché comunque rende sempre vivo e accessibile un personaggio del quale, se non ci fosse sempre un aneddoto, una foto on line, di De Gregori non avremmo più sentito parlare dalla fine del tour. Naturalmente non va bene postare qualsiasi cosa, dipende dall’artista e dalla misura in cui si usa il social. C’è Morandi che ha la sua caratteristica e fa certe cose, e adesso anche Leali si fa i video eccetera, ma non so se vedrei un De Gregori fare le stesse cose! Per carità, poi ci siamo abituati a tutto, ad esempio fino a poco tempo fa sarebbe stato poco credibile che De Gregori andasse in tv dalla De Filippi, ad esempio. Poi, se alla fine ci va e fa il suo mestiere di cantante indipendentemente dal contesto, su questo devo dire che sono d’accordo, mentre non sono tanto d’accordo sulle polemiche che spesso girano sul web. D’altra parte Facebook dalla stragrande maggioranza è usato veramente malissimo, come rivalsa, per buttar fuori tutto lo schifo che hanno dentro. Però c’è anche da dire che se sai riconoscere i sintomi puoi tranquillamente evitare i danni. Del resto è anche vero che io devo la mia grande fama a Facebook. Dopo 45 anni di onorata carriera, sono a fare il tour in Feltrinelli per presentare il disco Amore e furto in quella bellissima formazione solo in tre (pianoforte, basso e chitarra) e alla fine mi fermano e mi chiedono l’autografo dicendo: “ah, ma tu sei quello degli indovinelli!” (risata) E allora qui ho due scelte: o mi suicido, o me la godo. E a questo punto …me la godo!
Valeria Bissacco - http://www.lisolachenoncera.it/rivista/interviste/la-passione-gli-incontri-il-principe-e-larte-di-ar/
"Ecco perché ho 'dylaniato' la mia 'Buonanotte fiorellino'" di LUCA VALTORTA - 5 febbraio 2017 La Repubblica - Spettacoli e Musica
Francesco De Gregori, nella sua casa romana piena di luce, un pianoforte in mezzo alla stanza, dalla parte opposta una libreria, quadri, dischi, un pacchetto di Gitanes senza filtro appoggiate su un tavolino basso che fumerà con discrezione e un certo gusto insieme a un caffè in tazza grande. Anche l'sms che mi era arrivato il sabato precedente l'intervista era elegante ed essenziale: poche parole, concise, il luogo dell'incontro. A capo. 'f' minuscola. Punto. Tutti conosciamo Francesco De Gregori ma lei, in un pezzo intitolato Guarda che non sono io, dice "guarda che non sono io/ quello che stai cercando/ quello che conosce il tempo/ e che ti spiega il mondo". Insomma un conto è la fotografia, l’icona, un altro la persona reale, un po' come il Magritte di Questa non è una pipa. "L’arte è sempre qualcosa che allude. Non dà mai risposte, nemmeno in termini di identità. Gli oggetti si trasformano: l’Orinatoio di Duchamp può diventare tutt’altro. Il divertimento sta proprio nello spostare i termini della questione. Questo vale anche per il mio mestiere". A parte il punk, che si poneva l’idea di distruggere l’idea stessa di rockstar, non sono molte le 'icone' che cercano di non essere considerate tali, che dicono 'preferirei di no'. "No, ecco, appunto icona, no! Ma non è che io ci abbia fatto un ragionamento sopra. Io faccio uno dei mestieri più liberi del mondo: perché non devo approfittarne?". Lei suona con gli stessi musicisti da molto tempo e ama molto suonare dal vivo, cambiando spesso le canzoni. È alla ricerca del suono perfetto? "Sono alla ricerca del mio suono. E avendo una frequentazione ormai lunghissima con gli stessi musicisti ci capiamo al volo. Non sono degli esecutori, partecipano tutti al processo produttivo ma, banalmente, visto che ci conosciamo così bene, non si perde tempo. Soprattutto conoscono le mie idiosincrasie…Quali sono le sue idiosincrasie? "Certe scorciatoie che ammiccano al pop, certe soluzioni più banali. Io tra loro sono il meno musicista, nel senso che la mia formazione è avvenuta sul campo a poco poco, ma proprio per questo mi capita di avere delle idee non ortodosse che poi cerco di tradurre in musica: non è facile sintonizzarsi con la mia anarchia ma col tempo ci siamo riusciti. Io ho iniziato a fare le prime cose con un gruppo solo dopo aver fatto Rimmel nel '76/'77. Per me è stato drammatico l’incontro con altri perché partivo dal testo e cercavo di spiegargli quello che dovevano fare a partire da quello, dal senso del brano. A quei tempi, ai musicisti del testo invece non gliene fregava niente, non volevano nemmeno ascoltarlo. Io poi avevo preso dei giovani che venivano dal jazz, che era proprio un altro mondo, molto elitario, del tipo 'noi facciamo jazz, poi andiamo a suonare con De Gregori perché ci paga'. E io gli dicevo: 'Dovete suonare Atlantide, che sono tre accordi tutti uguali'. Loro lo facevano e a me faceva schifo come veniva. Glielo facevo notare e loro: 'Vabbè sono tre accordi!'. Certo, sono tre accordi. Che vanno suonati in un certo modo. Io per suonarli come volevo davvero ci ho messo vent’anni. E adesso ci riesco perché sono diventato più bravo io e perché si è molto alzato anche il livello culturale di chi suona: non c’è più nessuno che ti dice: 'Ah, ma no io faccio rock, jazz etc.!'. C’è molta più consapevolezza di cosa vuol dire suonare". Le scorciatoie sono odiose anche nel nostro mestiere, che è quello di divulgare dando al pubblico degli strumenti per capire, non perché i lettori sono stupidi, ma perché non hanno il tempo di informarsi su tutto. Ma naturalmente evitando anche qui, come nella musica cui faceva accenno prima, gli stereotipi. Tipo 'l’elfo islandese' quando si parla di Björk, 'la sacerdotessa del rock' per Patti Smith e, la madre di tutti i luoghi comuni, 'il menestrello di Duluth' per Bob Dylan… "Uh, uh, uh! (suoni di sincera disapprovazione, ndr). Quello dovrebbe essere proprio vietato per legge! Sono le cose per cui quando leggi un articolo e trovi una di queste definizioni volti pagina. Vale per tutti i settori di un giornale. L’uso di certi termini nei titoli: la rabbia per esempio è abusata. La rabbia dei postelegrafonici! O dei ristoratori o… intercambiabile per tutte le categorie (ride)". A proposito di sfidare gli stereotipi, lei a un certo punto ha fatto una cover di Vita spericolata di Vasco Rossi. "Perché è un pezzo che mi è sempre piaciuto. Sembra strano?". Abbastanza. "È una delle più belle canzoni italiane. La cosa incredibile è che Vasco la fece a Sanremo e notoriamente io non sono un ammiratore del mondo sanremese, ma devo dire che ogni tanto da lì uscivano pezzi straordinari. Ma perché sembra strano che io faccia Vita spericolata? (ride)". Beh, ho avuto l’impressione che anche il suo pubblico… "Il mio pubblico rimase esterrefatto (ride)". Insomma... lei è il Principe. "Che vuol dire? Il pubblico va per stereotipi: il Principe, il maledetto, il professore… A me è sempre piaciuto cantare le canzoni degli altri. Certo, lo ammetto, mi rendevo conto che poteva sembrare una provocazione ma per me non lo era per niente". Non essere mai dove gli altri pensano che tu possa essere, anzi che tu debba essere: tutto ciò è molto punk. Anzi è l'essenza stessa del punk: strano per De Gregori. "Per me conta il fatto di non porsi nemmeno questa domanda. Non voglio mai neppure lontanamente pensare a come devo essere. Non voglio essere dove qualcuno vorrebbe che io sia. Le dirò di più: anche se l'intero mio pubblico pensasse che io debba stare in un certo luogo, non ci starei. La mia necessità è solo quella di essere sempre me stesso. In un mondo dove ormai le playlist le fa Spotify mi sembra essenziale fare sempre e solo tutto quello che mi viene in mente e pazienza se non è quello che ci si aspetta da me. Con un solo limite". Quale? "Del cercare di non fare cose brutte. Per questo cerco di lavorare molto su tutto ciò che faccio: è questa la forma di rispetto che devo al pubblico, non il fatto di dargli quello che vorrebbe io facessi. Per esempio, se mi va di fare una cosa con Fausto Leali, come il duetto di Sempre per sempre, non ci penso due volte. La spinta deve essere di totale innocenza e indipendenza". Del resto, quando Vasco fa Generale, è un tripudio assoluto, si diverte tantissimo. "Certo. Per fortuna è solo ai puristi che non va che De Gregori faccia Vasco Rossi e viceversa: ben venga Vita spericolata quindi! Vasco poi ha uno stadio intero che lo ascolta: è un'emozione…". Lei però è stato il primo a riempire gli stadi. "Sì, io e Dalla. Siamo stati i primi proprio a farli gli stadi, in realtà. Si parla del 1978 e in effetti nemmeno gli artisti stranieri si esibivano lì, allora. Dopo di noi forse la prima fu Patti Smith, nel 1979, a Firenze". Come nacque l’incontro con Dalla? "Io stavo alla IT, una piccolissima etichetta discografica che faceva capo a Vincenzo Micocci che Lucio, che aveva preso da poco casa a Roma, frequentava perché c’era anche Ron. C’era un pianoforte, lui a volte si metteva lì e suonava. Era già famoso, aveva fatto 4 marzo 1943. A poco a poco ci siamo incuriositi l'uno dell'altro e così capitava che suonassimo insieme e poi magari partecipavamo ai rispettivi concerti. Era un’atmosfera un po’ da gita scolastica, tipo: 'Lucio, stasera io suono a Viterbo' 'Ok, vengo anch’io' e magari saliva sul palco con me e faceva una cosa col clarinetto; oppure ricordo, per esempio, che c'era Anidride solforosa, un pezzo che a me piaceva moltissimo. Lucio mi aveva detto: 'Dai, suonaci sopra l’armonica!'. E così facevamo. Pablo infatti è firmata anche da Lucio, perché mentre io la stavo scrivendo lui mi accompagnò a Bari e nel pomeriggio, mentre l'ascoltava, mi disse: 'Qui nell’inciso non si muove abbastanza'. Lui non sapeva suonare la chitarra ma io l’ascoltai perché avevo capito che aveva ragione. Ecco, questo era il clima. E quindi Banana Republic non fu altro che il coronamento di questa amicizia. Anzi, direi che poi con Banana Republic si esaurì inevitabilmente. Non ci vedemmo per diversi anni e ci rincontrammo nel 2010. La tournée che abbiamo fatto allora dal punto di vista musicale secondo me era molto più bella della precedente, però certo, non aveva più quel fascino della novità, dell’unione di questi due strani personaggi in un periodo in cui i grandi concerti non esistevano". Musica dal vivo: lei non fatto dischi live per un lungo periodo, poi improvvisamente ne ha fatti tantissimi. Come mai? "Io credo dipenda dal fatto che all'inizio non sapevamo suonare molto bene e quindi i dischi live ho iniziato a farli uscire quando mi sembrava che ne valesse la pena. Sono stato anche molto criticato per questo. In effetti, se vado a contare i dischi in studio e quelli live, sono quasi una discografia parallela. Perché li ho fatti allora? Un artista ha necessità di documentare quello che fa, nel mio caso i concerti, proprio come un pittore fa tutti i quadri che vuole. C’è del narcisismo? Sicuramente. Ma chi non ha piacere a mostrare una propria opera… A parte la compulsività a pubblicare se stessi, il live è anche rendicontare la possibilità di una canzone di trasformarsi, da sera a sera o dall'anno prima o da vent'anni prima. Io non la forzo: io vado appresso questa trasformazione. Cambia la mia voce da sera a sera, non può non cambiare la canzone. E questi cambiamenti per me è inevitabile raccontarli: è per questo che pubblico tanti dischi dal vivo. Molti mi hanno criticato ma per me non c'è una legge da seguire, la mia libertà sta nel fare quello che sento, la libertà del pubblico è nel comprare o meno i dischi che faccio: non divento ricco a fare tanti dischi live, ma perché mai non li devo fare?". Tra l’altro, in questo nuovo album, Sotto il vulcano, che è appunto un live e, oltretutto, doppio, lei ha rifatto un pezzo che cantavate con Dalla in Banana Republic. "Mi è venuta l'idea passando da Milo, in Sicilia, dove abitava Lucio. A un certo punto mi sono scoperto a canticchiare questa canzone e il giorno dopo, a Taormina, avevo la penultima tappa del tour. Ho deciso lì per lì. Tra l'altro, per motivi tecnici, non avevo la possibilità di provarla con la band per cui gli ho detto: 'Ascoltatela su YouTube, lì c'è la versione originale'. A quel punto mi è venuta la voglia contraria rispetto a quello che ho teorizzato fino a ora: ritornare a fare esattamente la canzone com'era, perché nel frattempo sono state fatte talmente tante versioni a molte delle quali ho partecipato anch'io. Non la rifacevamo mai uguale. Invece questa volta volevo proprio il violino e la chitarra con quel riff popolaresco. L'ho fatta solo quella sera: quella dopo avevamo un concerto in Sardegna ma non l'abbiamo suonata". Come mai ha scelto la versione censurata di 4 marzo 1943, quella in cui il verso "ancora adesso che bestemmio e bevo vino/ per i ladri e le puttane sono Gesù Bambino" è stato cambiato? "Mi sono innamorato di quella versione quando l'ho sentita a Sanremo: non so se l'originale era l'altro o se Lucio nel corso del tempo l'abbia attualizzata. Trovo molto più delicato dire 'ancora adesso che gioco a carte e bevo vino/ per la gente del porto sono Gesù Bambino' perché mi sembra più adatto a una canzone dedicata a un tema importante come la maternità. Non desiderata ma comunque vissuta con dolcezza, un tema nobile: questa giovane donna, lui che nasce e gli viene dato quello strano nome, tutto riconduce a un'atmosfera quasi sacra. Per cui immettere un tema che sicuramente è più realistico, come un riferimento alla bestemmia e alle puttane, non mi affascinava, anche se l'ho cantata tante volte insieme a Lucio anche con questo testo". Lucio non teneva a una versione in particolare? "No, credo che la cantasse di volta in volta come gli veniva. Questa canzone ha qualcosa di arcaico, non perché 'vecchia': lo era già quando è stata scritta. Fa rifermento a degli archetipi: la maternità, la guerra, la solitudine. È una delle canzoni più belle che abbia mai cantato Lucio. Poi non so se qualcuno ha detto a Lucio: 'Non usare parole come bestemmia o puttane a Sanremo'. È una canzone commovente per la sua bellezza". Restando sul tema delle canzoni commoventi, ha visto la performance di Patti Smith alla cerimonia del Nobel? "In un contesto così diverso da quello normale, così paludato non credo ci si senta a proprio agio e poi certo l'emozione: è facile dimenticare le parole in simili circostanze...". A lei è mai capitato? "Come no? Su YouTube ci sono cose impressionanti...". Lei ha un repertorio di più di duecento canzoni. Come fa a ricordarle? "Questa è una bella domanda. Me le ricordo al 99,9%. Quello che non ricordo lo invento al momento, oppure succede il disastro. Però mi piace ricordarmele: non ho mai usato e non uso il gobbo elettronico. Quando leggi non è la stessa cosa, credo che il canto ne risenta. Quando abbiamo fatto il tour nel 2010 leggevamo perché Dalla preferiva così. Ma devi stare attento: le sue parti erano segnate in rosso, le mie in bianco. Per me era un freno. A proposito di Dylan, però, devo dire che mi è piaciuto molto il discorso che ha mandato in occasione del Nobel". Cosa in particolare? "Beh, per esempio quando dice: 'Vi ringrazio per avermi chiarito le idee sul fatto che sono uno scrittore. Io in realtà nella vita ho sempre avuto problemi pratici, tipo trovare lo studio giusto, il bassista adatto'. Fa tutto un ragionamento low profile e poi, ecco la cosa che ti fulmina: 'Del resto credo che anche Shakespeare abbia avuto lo stesso problema: doveva rispondere ai committenti, allestire una sua tragedia, per cui si chiedeva: 'Ci saranno abbastanza posti in platea?', 'abbiamo lo sponsor?', 'dove lo trovo un teschio umano per domani sera?'. Per cui vi ringrazio di avermi detto che faccio letteratura perché non me ne ero mai accorto'. Capito? Prima dice di non essere uno scrittore e poi conclude ‘proprio come Shakespeare!’". Anche lei ama molto questa praticità del mestiere? "Certo: senza quella non saremmo qua né io né Dylan. Lo dico spesso: facciamo un mestiere che per buona parte è fisico, manuale, dove dobbiamo anche saper cambiare la valvola dell’amplificatore. Altrimenti hai voglia a scrivere di 'Pavese perduto nella pioggia': non arriva proprio materialmente. Viaggiamo quindi sulla falegnameria, sulla praticità, sulle previsioni del tempo, sull’elettricità". Parlando di Dylan, lei ha letteralmente 'dylaniato' uno dei suoi pezzi più famosi, Buonanotte fiorellino, un tempo considerato da alcuni un cedimento alla decadenza borghese, troppo smielato e al tempo stesso follemente amato dal suo pubblico. Forse persino troppo amato. "Certo l'ho 'dylaniata' mille volte e non solo con Dylan: una volta c'è il violino, un'altra no, una volta è in tre quarti, in quattro quarti non l'ho ancora fatta ma prima o poi ci arriverò. Sì, certo, da un po' la faccio dichiaratamente in versione Rainy Day Women (un brano molto giocoso e 'stonato' di Dylan che apre il suo capolavoro, Blonde On Blonde, ndr) è un po' la stessa operazione che fa Duchamp quando mette i baffi alla Gioconda. Prende, ruba, cita: fa tutte queste cose insieme. Diciamo che, fondamentalmente, si diverte. E forse mette anche il suo pubblico nelle condizioni di divertirsi, nel senso nobile: gli offre punti di riflessione, di arricchimento, di scoperta. La famosa 'sfasatura' che sta dentro i processi artistici". C'è una parte del pubblico che vorrebbe cullarsi con il ricordo della 'sua' Buonanotte fiorellino... "C'è una parte del pubblico che è conservatore. Mi rendo conto di cosa vuol dire perché quando io sono pubblico, anch'io sono conservatore. Se andassi a sentire un concerto di Dylan e lui per una volta mi facesse Like a Rolling Stone o Just Like A Woman o Blowin' In the Wind così come le ha fatte sui dischi esclamerei: 'Ooooh!'. Subito dopo però mi porrei il problema: è sincero mentre sta facendo questo o sta facendo un monumento a se stesso? E penso che la risposta sarebbe: 'Non è sincero fino in fondo'. Io a un artista sul palcoscenico quello che chiedo è la sincerità, cioè che in quel momento lui mi restituisca quello che sta succedendo nella sua testa. La sua testa non può essere quella di quarant'anni prima. L'evoluzione di una canzone è peggiore? Pazienza, mi becco la peggiore". Manuel Agnelli degli Afterhours a un certo punto chiedeva al suo pubblico di non cantare. Ma poi si è dovuto rassegnare. "Ha ragione, si può creare una discrasia che ti può far sbagliare, soprattutto se tu cambi il pezzo. Come anche battere le mani: succede spesso che il pubblico non vada a tempo e così diventa una cosa strana. Comunque va bene, il concerto è anche un momento di festa, non è un saggio accademico". Quali sono i suoi dischi dal vivo preferiti? "Direi 4 Way Street di Crosby, Stills, Nash & Young e sono indeciso tra Hard Rain e Before the Flood di Dylan, escludendo la Bootleg Series dal momento che sono dischi che lui non aveva intenzione di pubblicare in origine. Ha accettato di farlo solo molto tempo dopo". Come saprà è appena uscito un box di 36 cd, Bob Dylan: The 1966 Live Recordings, che documenta tutto il tour del 1966 di Bob Dylan, quello del passaggio dal folk al suono elettrico in cui ogni sera c’è una battaglia con il pubblico che gli urla 'traditore'. "Ecco, questo è proprio l'esempio giusto: un giorno ti ascolti un disco, un giorno l'altro e senti la stessa canzone come cambia nel giro di poco tempo. È un documento storico importantissimo e da musicista impari molte cose. Ma è importante anche per un non musicista, credo. È un po' come entrare nell'atelier di Picasso e vedere cosa c'è dietro un suo quadro: gli studi, i tentativi, gli errori anche. Diciamo che l'ascolto dei dischi live contraddice quelli che pensano che la musica debba essere per forza patinata, inappellabile dal punto di vista tecnico. Nei dischi live invece devi evitare l'eccesso di perfezione, anche perché altrimenti non ti fermi mai: puoi restare anni in studio su una canzone e non capire mai quando è davvero finita. Al tempo stesso devi contenere l'irruenza. Vivere con questa dualità nella testa è interessante. Io ho fatto un album intitolato Left & Right che non è nemmeno mixato: sono solo i canali del banco presi e masterizzati senza dire 'alzo i livelli del basso' o cose simili, ed è uno dei miei preferiti". Poi c'è Bootleg che si rifà all'idea della naturalezza, credo. "Sì, quello però è mixato. Ma è vero: andai a Dublino a mixarlo proprio perché volevo un fonico che non capisse il testo. Trovai uno che non solo non capiva il testo ma gli stavo anche antipatico: per me era perfetto! (ride)". Lei ha conosciuto molti musicisti nella tua vita. Chi ricorda più volentieri? "Uno di quelli che più ho amato è Leonard Cohen. Una volta l’ho incontrato proprio a Roma, per caso, mentre camminavo: era insieme a una mia amica che me l’ha presentato, a Santa Maria in Trastevere. Aveva una chitarra in mano e io pure: 'Ah, anche tu suoni?', mi chiede e ci scambiammo un po’ di pareri tecnici. La seconda volta fu nei camerini dopo un suo concerto al Teatro Olimpico a Roma e lì feci un po' il fan, andai in camerino dove stava mangiando da un cartone un pezzo di pizza al taglio, coccolato dalle due coriste, e mi misi a parlare un po'". Le disse che vi eravate già incontrati? "Non gli dissi nulla e per pudore non mi feci neppure autografare il disco. Dopo di me arrivò uno che si portò dietro l’intera discografia che Cohen firmò interamente, con grande pazienza". Immagino che capiti spesso anche a lei il contrario. "Sì. Cerco di fare fino in fondo il mio dovere, ma a volte vorresti che quelli che ti chiedono autografi non esistessero. Memore di questo, tollero a mia volta e cerco di essere discreto ma capisco il fan, lo sono anch’io e quindi capisco: però non ci devono essere invasioni improprie…". Qualche altro esempio del suo essere fan? "Stavo mangiando con mia moglie e i bambini a Venezia e al tavolo accanto al nostro c’era Elton John. Per me fu stranissimo perché non sapevo che stesse a Venezia, che ne fosse innamorato. I suoi primi dischi sono stati formativi per me e soprattutto per Antonello Venditti, anzi ricordo che in realtà fu proprio lui a farmelo conoscere: Tumbleweed Connection, un disco straordinario, lui e Bernie Taupin, il paroliere: che coppia! Poi col tempo per me ha perso interesse, pur mantenendo sempre una certa qualità di scrittura, ma cose come Your Song sono eccezionali". Ci parlò in quell’occasione? "No, 'schiscio', come dite voi a Milano. Un altro aneddoto divertente forse è quello che riguarda Lou Reed. Quando stavo alla Rca, nel 1978-'79, venne a Roma per un concerto e volle fare il soundcheck proprio lì negli studi dove pascolavamo tutti noi cantautori dell’epoca. A un certo punto si sparse la voce e ovviamente eravamo curiosi. Lui non voleva vedere né essere visto da nessuno. Quando si mise a suonare però, a poco a poco, alla chetichella, entrammo nella regia e… rimanemmo a bocca aperta! Sentimmo una botta di suono impressionante: noi li conoscevamo bene quegli studi ma era come se qualcuno improvvisamente avesse cambiato tutto lì dentro. Anche i fonici erano lì, con gli occhi di fuori, e dicevano: 'Ma questo da dove viene?'. E anche al di là del vetro aveva un’aria arcigna: non ti saresti mai avvicinato…". Negli ultimi anni si era addolcito: Laurie Anderson mi raccontava che dietro l’aspetto burbero era una persona tenera, che non smetteva mai di incoraggiare i giovani artisti. Una violinista che aveva suonato con lui durante l’intervallo di un concerto gli chiese com’era andata. Lui rispose: 'Tutto lì quello che sai fare?'. Così la violinista nella seconda prova fece rimanere tutti a bocca aperta. "Naturalmente sarà stata bravissima, ma certo, da uomo di musica ha fatto quello che andava fatto: l’ha spinta a dare il meglio di sé. Comunque è incredibile: anche in un pezzo come Perfect Day, apparentemente dolce, c’è una narrazione a doppio taglio: c’è ghiaccio, c’è distanza. La musica in realtà è quasi una presa in giro della dolcezza, c’è il diavolo dentro! La dolcezza è solo un abito di quella canzone". Lucio Battisti, un altro artista dal carattere difficile, l’ha conosciuto? "Ci ho parlato solo una volta al bar della Rca, un paio d’ore. Era molto timido ma al tempo stesso emanava un carisma assoluto per cui non ti veniva voglia di andare lì, dargli una manata sulla spalla e dirgli: 'Ciao Lucio, come va?'". Cosa vi siete detti? "Avevo appena pubblicato Alice e mi fece dei complimenti: 'Ahò, è forte quel pezzo!'. Poi mi disse una cosa che mi parve davvero strana: 'Tu canti benissimo'. In quel periodo mi sentivo tutto meno che un cantante! E poi: 'Sei bravo perché tu riesci a far capire bene il testo, quello che dici'. A me! Uno a cui tutti dicevano che non si capiva niente di quello che scrivevo! Tornai a casa volando". Tra i nuovi artisti chi le piace? "Non ho molto tempo per ascoltare musica, è brutto da dire ma è così. Però ho suonato una volta con Cristina Donà, che è bravissima, mi piace tantissimo e con Vasco Brondi. Anzi, con Vasco io ho suonato la chitarra mentre lui cantava Viva l’Italia (ride)". C’è un nuovo autore, si chiama Calcutta, e in suo brano, Limonata, fa un quadro impietoso della sua ragazza e dei suoi genitori e la cita, non so se le è capitato di sentirlo. Dice: "Tu spremi limonata e non ce la fai più/ salutami tua mamma che è tornata a Medjugorje/ e non mi importa niente di tuo padre/ ascolta De Gregori/ a me quel tipo di gente no non va proprio giù". "Beh intanto uno che riesce a fare una rima Medjugorje/ De Gregori è notevole. Lo trovo molto carino dai… (ride). No, non lo conosco ma credo nel karma: penso che prima o poi una cosa se ti deve arrivare ti arriva". estando sulle cose politicamente scorrette, è vero che lei ha conosciuto De André suonando una presa in giro de La guerra di Piero intitolata La cacca di Piero? "Sì, è vero. Avrò avuto diciott’anni: era una di quelle cose goliardiche che si facevano ai tempi del Folkstudio". Ma lei sapeva che lui era lì? "(ride) Sì… Andò così. Io credo di non averla nemmeno mai fatta in pubblico, quella canzone: tra l’altro La guerra di Piero era stata una canzone fondativa per me. Poi succede che mio fratello conosce De André in un bar di Roma, fanno amicizia, bevono insieme e qualche giorno dopo mio fratello lo porta al Folkstudio dove io suonavo insieme a Venditti e altri, tutti assolutamente sconosciuti. E questo disgraziato di mio fratello dice a De André che io avevo fatto questa ignobile cosa! E De André, che era luciferino, insistette perché la facessi: io non avrei mai osato farlo. Sarebbe stata veramente una cosa da idioti. E invece lui: 'Dai belin, fai sentire questa canzone!'. De André si divertì molto e da lì nacque il nostro rapporto, diventammo amici, tanto che tempo dopo mi invitò persino da lui in Sardegna a lavorare insieme". Da quel vostro incontro nacquero anche dei brani di Rimmel… "Non abbiamo mai cantato insieme se non una strofa per uno in una canzone di Fossati Quei posti davanti al mare. In Sardegna ho scritto Buonanotte fiorellino: lavoravo a Rimmel e, insieme, al suo disco". Anche se lui aveva il giorno invertito con la notte. "Sì è vero. Cominciava a ingranare molto tardi così capitava che stessi molto tempo durante il giorno con Cristiano che a quei tempi era proprio un ragazzino ma suonava già uno strumento: la batteria ed era molto bravo". Lei non ama la politica e nemmeno i salotti. "Per niente. Soprattutto detesto i politici che in un ingiustificato atto di supponenza ti passano davanti con le loro scorte a sirene spiegate costringendoti a fermarti. Ma non è rabbia anticasta: è proprio un dato di fatto che si tratti di qualcosa di intollerabile. Un abuso di potere che altrove non potrebbe accadere. In Inghilterra per esempio il Primo Ministro non ha la scorta con le sirene spiegate e si ferma normalmente ai semafori". Questa idiosincrasie le racconta in vari brani. Ma c’è un testo che mi ha colpito in maniera particolare, si intitola Povero me e dice: "I simpatici mi stanno antipatici/ i comici mi rendono triste/ mi fa paura il silenzio/ ma non sopporto il rumore". "Beh, è una buona descrizione di me stesso, autocaricaturale: io non sono così cattivo e malmostoso come in quella canzone. Dopo un po' di tempo dalla sua uscita incontro un’amica che non vedevo da parecchio e che nel frattempo era diventata psichiatra, e mi dice: 'Senti, ho ascoltato quella tua canzone: sono le parole di un depresso!' (ride). 'No guarda, davvero, descrive tutti i sintomi della depressione: ce li hai tutti!'. Io le dico: 'Guarda, non mi sento un depresso'. E lei continua: 'Eppure è la canzone di un depresso'. Che dire? Forse aveva ragione lei. Ma vuol dire che evidentemente sono bravo a identificarmi. Ci ho messo tutto: 'Nessuno mi vuole bene', 'sono tutti migliori di me' (ride). E appunto quello che dicevo prima: 'Ci sono i pretoriani con la sirena'. È una canzone che amo molto". Questo dunque non è Francesco De Gregori, almeno non tutto. Forse una piccola parte sì, ma appena vi voltate l'immagine è già cambiata. Non è più quella della fotografia. Del resto, non è forse così per tutti? Non siamo mai noi stessi, almeno non del tutto. Non sempre. Non siamo il profilo Facebook, non siamo neppure il nostro libro o la nostra canzone se abbiamo la fortuna di scrivere, non siamo il nostro lavoro, non siamo sempre coraggiosi o sempre vili, sempre tristi o sempre felici, non siamo quello che pensano gli altri di noi e neppure quello che pensiamo noi di noi stessi. Camminiamo tutti sui pezzi di vetro. E questa non è un'intervista.
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