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Questa canzone è stata ispirata da una serie di incisioni di un pittore, un artista espressionista tedesco che si chiamava Max Klinger e che racconta in dieci tavole una storia fantastica, un po’ psicanalitica. E’ la storia del guanto di una bella e affascinante signora che sta pattinando in una pista di pattinaggio a rotelle. Perde (o lascia cadere volutamente, non si sa) un guanto. Magari qualcuno lo raccoglie e chissà, chissà….. è una specie di invito a restituirglielo. Nella seconda tavola si vede un bel gentiluomo che sta seguendo questa bella amazzone sui pattini e da lì potrebbe nascere chissà quale storia d’amore. E quindi, ci si aspetta che in tutte le altre tavole ci sia la storia del corteggiamento e della passione fra questi due. E invece no, questi due spariscono dalla narrazione e qui la canzone prende tutta un’altra storia che si trasfigura in cinque strofe. I personaggi non sono più quelli, ma il protagonista diventa il guanto che si trasforma in una specie di feticcio erotico che subisce una serie di trasfigurazioni in scenari diversi, totalmente sconnessi l'uno dall'altro: illuminazioni gotiche, anche molto cupe, presenti in sogni che non si risolvono mai e che si moltiplicano all'infinito. Fa naufragio in un mare in tempesta e viene ripescato da un marinaio; dopo finisce su una spiaggia con milioni di rose che gli vengono scaricate accanto; poi diventa l'incubo di un uomo che sogna quanti grandi e guanti piccoli che gli vengono addosso e, quindi, giustamente non riesce a dormire. A un certo punto il guanto viene improvvisamente rapito da un mostro che lo strappa da due mani che cercano di trattenerlo e il mostro (che lui stesso è un enorme guanto) lo porta via. Alla fine, all’ultima tavola, questo guanto riposa ormai inoffensivo in una scena molto neoclassica, mentre un inerme Cupido che ha deposto arco e frecce lo ammira estasiato. Il guanto come simbolo d’amore, ma anche simbolo di perdizione, un simbolo notturno. Ora ditemi, ci voleva veramente uno scemo come me per fare una canzone a tutto questo? Credo che sia una delle canzoni dove ci ho messo meno tempo a scrivere, perché ho preso questo libro con le definizioni e in un’oretta… ho scritto la canzone.
(Francesco De Gregori, giugno 2019)
Scena uno: Luogo (anche il nome è da sceneggiatura). Una pista da pattinaggio a rotelle. Un gruppo di buoni borghesi riuniti, un cagnolino il guinzaglio, una bambina è caduta, qualche cappello a cilindro. Aria distesa e leggera.
Scena due: Azione. Una pattinatrice vista di spalle ha perso un guanto. Un uomo, per raccoglierlo, perde il cappello. Sappiamo che Klinger si era invaghito di una bella brasiliana. Tutta Berlino aveva perso la testa per lei. L'artista racconta del suo primo grande amore inappagato.
Scena tre: Desiderio. Un uomo si dispera piangendo la testa rovesciata fra le mani. È nel letto. Il letto sta in un paesaggio montuoso. Accanto giace il guanto da cui cresce un albero di frutti. In lontananza la sagoma di una donna.
Scena quattro: Salvataggio. Mare in tempesta. Una piccola vela rischia il naufragio. Un uomo solo cerca con una lunga asta di recuperare l'annegato: il guanto.
Scena cinque: Trionfo. L'umore cambia. La scena è radiosa. Quasi tutta bianca, via il segno nero di prima. Nella stampa tre sono i colori il bianco, il nero, il grigio e tutti i derivati. Dov'è il trionfo? Dopo la tempesta, una biga con i suoi due cavalli, tira il cocchio formato da una gigantesca carnosa conchiglia antropomorfa. Dentro il guanto anatomico tiene le briglia.
Scena sei: Omaggio. Il sole lancia i suoi raggi. Il mare calmo e placato trasporta sulla riva piccole ondate di rose. Sulla spiaggia un altare rende omaggio al guanto.
Scena sette: Paure. Un uomo si contorce nel letto insidiato da orrendi mostri mentre un enorme guanto si erge su di lui. Klinger fa qui un'aperto omaggio ai mostri di Goya, incisore come lui.
Scena otto: Riposo. Vetrina di un negozio. Un tripode espone un guanto. Da sotto le tende a forma di guantini sporge il muso di un uccellacelo.
Scena nove: Rapimento. L'uccellacelo si materializza in un orribile lucertolone pterodattilo che stringe nel becco il guanto che ha rubato da una camera. Dalla finestra con i vetri sfondati delle braccia cercano di afferrare la coda del mostro che fugge.
Scena dieci: Amore. Il finale è lieto, trasognato, lievemente beffardo. Il fatidico guanto, feticcio trionfale, riposa in pace sul pavimento accanto a Cupido che ha deposto le sue frecce.
LUOGO E AZIONE La più celebre tra le dieci acqueforti realizzate da Max Klinger nel 1881 (i disegni preparatori portano ad anticipare il progetto di qualche anno) è sicuramente la seconda, Handlung (Azione); sulla pista di pattinaggio, dove nasce l’evento, una giovane fanciulla perde (o, se non sembra eccessiva malizia di interprete, lascia cadere?) un guanto: alle sue spalle, il giovane artista (il volto è un chiaro autoritratto: nato nel 1857 a Lipsia, nel 1881 ha 24 anni) si china per raccoglierlo, e nel gesto il suo cappello cade/rotola goffamente sulla stessa pista: il gesto e l’azione rappresentano ad un tempo un segno di cortesia, un pretesto per un incontro/scambio di parole, e un inchino (per cogliere il guanto, Klinger è costretto a chinarsi, e in quella posa si rappresenta). Tutta la sequenza (di natura autobiografica) nasce su questo piccolo episodio: mentre le prime due immagini (Luogo e Azione) sono chiaramente ambientate nella pista di pattinaggio (pattini a rotelle), le successive otto immagini sviluppano temi meno narrativi: Desideri, Trionfo, Paure, Amore, e così via. La fanciulla (una brasiliana appena giunta a Berlino, sulla cui pista di recente inaugurata nel parco si svolge l’evento) se ne va, veloce, lievemente piegata sulla destra, mentre con la gamba sinistra si dà il colpo per scivolare sulle rotelline: poco oltre, due uomini sorreggono cavallerescamente una signora alle prime armi, seguiti da un immaginiamo rumoroso cagnolino; nel movimento, opposto a quello della nostra protagonista, si mostrano lievemente piegati a sinistra; chino, come già si è detto, il giovane Max. Sullo sfondo, il parco fitto di Berlino, alcuni lampioncini, una esedra; sulla pista, lievi, le ombre, ad indicare un sole pallido nella tarda primavera. Poco ci sarebbe da aggiungere alla dimensione narrata, e l’episodio potrebbe sfuggire alla lettura: l'immagine tuttavia arresta lo sguardo e inquieta. La raffigurazione mostra i protagonisti di questa «banale» storia in una verticalità precaria: è il primo termine di questa inquietudine. Di fronte al corpo inclinato restiamo incerti, timorosi forse di una inevitabile caduta (la storia dell’arte ci insegna che l’obliquità strutturale è veicolo di inquietudine). Dalle figure, si trascorre con l’occhio al berretto, rotolato ai piedi dell’artista; poi al suo fianco, bianco, inquietante nell’umano pallore, appare il guanto: protagonista in tutte le immagini successive, viene ripescato in un mare in tempesta, con un arpione marinaro, oppure esibito in trionfo sul cocchio solare, o ancora disteso nella quiete dell’immagine conclusiva, simile ad una figura femminile: ma al suo fianco riposa un amorino, distante dall’inutile arco, con cui ha colpito mezza Berlino. Klinger dimostra come la sottile inquietudine senza una causa forte, possa emergere dagli eventi quotidiani. Le linea poetica che viene alla contemporaneità attraverso le invenzioni luminose dell’impressione non avrebbe raggiunto la profondità che le riconosciamo, se ad essa non accostassimo con notevole peso tutta la dimensione simbolista, che in Francia, negli stessi anni dell’impressione, si riscontra nella linea Moreau-Redon, e in Germania, in quella più espressionista che si riscontra in quella Boecklin, Munch, Klinger, Von Stuck. Un approdo simbolista, quello tedesco-mitteleuropeo, che miscela Freud e classicità; in questa unione di immagini che vengono dal passato e dai simboli della quotidianità, emerge una dimensione innovativa, che scava nell’animo e dell’animo diviene cartina di tornasole. Si pensi alla storia della vita, raccolta in un’altrettanto celebre sequenza, che parte da un Paradiso dell’Eden e si conclude nel Nulla; o ancora alle inflessioni che vengono dall’accostamento dell’incisione alla musica (numerose opere del maestro tedesco sono illustrazioni di spartiti) e a quelle, più inquietanti, che trascrivono le vibrazioni dell’animo: si trascorre da raffigurazioni di Titani, ad altre che trascrivono personaggi della storia classica o biblica (Erode o Prometeo, poco importa), fino a giungere alle più interiori dimensioni espressive, proprie di immagini come quelle dedicate ai moti dell’animo; Regina e Dea, Cammino di sogno — nella serie (1915) dedicata alla Tenda, pochi anni prima della morte dell’artista di Lipsia, che si spegne nel 1920. Noto e apprezzato come pittore (una importante mostra si è tenuta non più di cinque-sei anni fa a Ferrara), Klinger è celebre per i cicli grafici che costituiscono il suo Opus fabulosum: attraverso una continua attività grafica, Klinger testimonia l’assunzione dei termini della contemporaneità attraverso la continua contaminazione iconografica, il ricorso ad un passato mitico, rivestito dalle inquietudini della quotidianità che si avvia al fango delle trincee e alla tragedia della Grande guerra. Difficile racchiudere tutta l’opera grafica del grande simbolista tedesco; una quindicina sono i suoi cicli grafici, distribuiti nel tempo, e tutti costituiti da dieci-venti incisioni per ogni sequenza tematica (una importante rivisitazione grafica è stata compiuta, lo scorso anno, nel giugno 2000, dalla Fondazione Antonio Mazzotta a San Donato Milanese): anche i non numerosi esempi esposti a Brescia danno il senso di una complessità, trascrivono quella varietà di accenti, quei differenti punti di vista, che dell’animo nostro sono la trascrizione. Anche per questa misura, i tre sostantivi utilizzati da Mazzotta nella mostra ricordata (Sogno, mito e realtà) possono davvero costituire il compendio di questa straordinaria avventura grafica, cui è possibile accostarsi attraverso la bella e importante mostra bresciana. Mauro Corradini, Bresciaoggi, 24 maggio 2001
Max Klinger. Ein Handschuh (Un guanto) di Emanuele Bardazzi
Il capolavoro del Guanto nacque nel 1878 come ciclo di disegni a penna che due anni dopo l’artista decise di incidere ad acquaforte e acquatinta per dar loro una maggiore diffusione. La prima edizione a stampa vide la luce a Berlino nel 1881. Pare che nel ciclo dei disegni l’ordine in sequenza dei fogli non fosse identico a quello poi deciso nella versione a stampa. Questo non fa che confermare l’ambivalenza e l’ambiguità di quelle immagini, che non possono vivere di vita separata, ma nello stesso tempo hanno una concatenazione narrativa non casuale, ma al contempo non obbligata. Uno stratagemma che Max Klinger decise volontariamente o inconsciamente, per lasciare a se stesso - e a chi osserva - la più ampia libertà alla fantasia creativa, nel sorvegliato abbandono alle alchimie magiche e turbate dei sogni e alle avventure romanzesche dell’immaginazione subliminale. Diversi sono i piani di lettura del Guanto. Ad esempio alcune scene sono osservate dal punto di vista dello spettatore esterno, altre dal punto di vista del protagonista che sogna. Alcune sequenze (o meglio sobbalzi di immaginazione) annunciano con piccoli segnali ciò che subito dopo, o più tardi accadrà. Quello che prima è apparentemente disperso o assorbito nell’insieme, avrà poi ruolo di protagonista. Sia Klinger che la donna infatti sono già presenti nell’inquadratura iniziale, ma ce ne accorgiamo solo se procediamo a ritroso dalla seconda scena alla prima. Anche il mostro, che nella penultima tavola irrompe definitivamente di forza, compare seminascosto già nella quinta (Trionfo), mascherato tra i riccioli di acanto che simulano le onde cavalcate dal cocchio guidato dal guanto-clitoride. Abbiamo parlato pur con qualche dubbio di sequenze – ed il Guanto per certi versi sembra proprio un film, o magari anche un “nobile”, straordinario fumetto – ma soprattutto viene in mente quel ritmo narrativo e associativo apparentemente sconclusionato e assurdo tipico dei sogni, dei quali lo psicanalista ricerca una logica d’interpretazione sondando nell’inconscio e vagliando indizi anche secondari e insignificanti, ma altamente rivelatori. E il doppio punto di vista al quale poco prima accennavamo sembra proprio quello dello psicanalista e dello psicanalizzato. Oppure anche un processo di autoanalisi, lucida, ironica, che si avvale di compiacimenti allegorici e splendidamente estetici. Queste interpretazioni e inevitabili proiezioni “a posteriori”, non sono tuttavia da ritenersi infondate, considerato che la parafrasi sul guanto nasceva in un momento in cui si stavano sviluppando in Francia e in Germania le prime conoscenze scientificamente rilevanti sul mondo dei sogni. Gli artisti, a detta degli stessi scienziati, rivestivano un ruolo di precorritori in materia, ma Klinger, che prestava molta attenzione alla propria sfera onirica, è molto probabile che abbia ricavato spunti per le sue strategie figurative e definizioni simboliche (il guanto come feticcio sessuale, il suo moltiplicarsi, ingrandirsi e deformarsi, la presenza ossessiva dell’acqua, il mare e l’ostrica come simboli e attributi della femminilità, mentre i cavalli e il mostro con le ali che vola via della maschilità, il desiderio-ripulsa, l’annidarsi dell’orrido nel meraviglioso ed i connotati sadomasochistici di tutta la storia) dalle ricerche sui sogni operate dai contemporanei studiosi pre-freudiani, come Albert Scherner (Das Leben des Traumes, Berlino 1861), Alfred Maury (Le somneil et les rêves, Parigi 1878), Hervey de Saint-Denis (Les rêves et les moyens de les diriger, Parigi 1867) e Friedrich Theodor Vischer (Der Traum, 1875, che offriva tra l’altro un’analisi penetrante del processo con cui il sognatore si abbandona alle proprie immagini rispecchiandovisi, con spunti poi sviluppati e applicabili anche alle teorie estetiche). E’ un momento particolarmente fertile nel quale l’elemento visionario romantico ha uno scatto verso l’espressione del linguaggio simbolico, alimentato dall’interesse per l’approccio scientifico al mondo dei sogni. Nei medesimi anni vedrà la luce anche Dans le rêve (1879), album litografico di un altro grande simbolista, Odilon Redon, anch’esso concepito come ciclo di immagini in sequenza. A differenza di Redon, che si esprime in un linguaggio fantastico già molto deformato e alieno, Klinger non viene mai meno a quel disegno veritiero, analitico e preciso che rende particolarmente ambiguo e intrigante l’irrompere dell’immaginario e dell’irreale nella realtà visibile e concreta. Aspetto particolarmente amato dai suoi principali esegeti a posteriori, Giorgio de Chirico in primis, e dai surrealisti, in particolare Max Ernst che nei suoi collages ricreava quelle associazioni bizzarre e stranianti delle quali il Klinger del guanto rappresentava un insuperabile e formidabile esempio - oltretutto coevo alle fonti ottocentesche utilizzate dai montaggi ernstiani. Colpisce nel Guanto anche il gioco variato di stile (eclettico, pur nella tenuta costante di precisione ed esattezza del segno) che fa da contrappunto alla trasformazione dei differenti campi visivi. Dalla prima scena, ampia, tranquilla e impostata secondo ordinati canoni di compostezza, si passa allo scatto dinamico della seconda: instabile, malcerta e pericolosa. Il punto di vista è contrario e guida in profondità verso quella natura scura e frondosa che prima si vedeva solo riflessa sui vetri dell’edificio situato sul lato opposto della pista. Nel terzo foglio l’immagine si assottiglia e si riduce ancora, ritagliando uno spazio figurativo che va sempre più in profondità, collegando il mondo esteriore con quello interiore, come una porta serrata che si apre sul sogno. Dalla tempesta del quarto foglio, dove lo scafo della barca biancheggia sull’oscurità del cielo e del mare con drammaticità cromatica, si passa poi al rischiararsi e all’ampliarsi di nuovo del campo visivo nella quinta scena: ornata, preziosa, luminosamente concepita sullo stile lineare dell’arabesco, memore dei delineati neoclassici o del limpido purismo dei disegni allegorici di Philipp Otto Runge. Lo stesso sobbalzo lo si prova passando dalla settima tavola – dove la sfera dell’incubo è ancora descritta con i mezzi “canonici” nel filo della derivazione grottesca e protoromantica alla Goya e alla Füssli – all’ottava, nella quale si vola tutto d’un fiato in direzione di una spaesante e improvvisa modernità concettuale che avrebbe colpito forse più di tutto i metafisici e i surrealisti. Infine ci viene da sottolineare l’aspetto musicale del Guanto. Klinger, che dedicò i Salvataggi di vittime ovidiane a Brahms e si ispirò alla sua musica nella Brahmsphantasie, che eseguì ritratti ai più grandi musicisti del suo tempo, come Beethoven, Wagner e Liszt, da deciso assertore dell’unità di tutte le arti realizzò col Guanto la sua sonata, il suo rondò, la sua piccola preziosa sinfonia, con l’andamento ciclico, con i movimenti, i Leitmotives, gli adagi, i vivaci e gli allegretti.
Emanuele Bardazzi, marzo 2001
UN GUANTO
Le preoccupazioni centrali nella carriera di incisione di Max Klinger - amore, morte e fantasia - appaiono in Ein Handschuh (A glove), la sua prima sequenza narrativa. Klinger descrive meticolosamente il reale e l'immaginario con chiarezza allucinatoria, ponendosi come protagonista. In una pista di pattinaggio a Berlino, Klinger osserva una bellissima giovane donna; scende in picchiata per recuperare il suo guanto caduto. Questo oggetto intimo e potentemente sessualizzato innesca una serie di visioni elaborate di desiderio e perdita, trasmesse attraverso distorsioni oniriche di scala e giustapposizioni stridenti. Mentre il desiderio minaccia di inghiottire Klinger, il guanto feticizzato assume una vita propria. Assume gli attributi di Venere, nata dalla schiuma del mare e alla guida di un carro di conchiglie. Una versione fuori misura lo tormenta nel sonno, ricordando le impronte di Francisco de Goya. La presa di Klinger sul guanto rimane sfuggente, e una creatura fantastica finalmente spinge via l'oggetto.
Max Klinger, un artista celebre in vita, poi a lungo dimenticato
Pittore, scultore e grafico, nacque a Lipsia nel 1857 e morì a Grossjena nel 1920. Dopo aver studiato nella città natale, nel periodo tra il 1875 e il 1879 si dedicò alle incisioni, pubblicate però soltanto nel decennio successivo. Nel 1882 realizzò la decorazione della villa Albers a Stegliz presso Berlino, suo primo lavoro importante. Dal 1883 al 1886 visse a Parigi, dove ebbe modo di indagare l’opera di Puvis de Chavannes e Goya, che gli ispirò l’esecuzione di dipinti di ampie dimensioni. Contemporaneamente intraprese l’attività di scultore. Particolarmente significativo fu per lui il soggiorno a Roma, durante il quale ebbe la possibilità di accostarsi all’arte classica: il mondo greco-romano esercitò su di lui una profonda influenza. Nel 1895 diede alle stampe il libro programmatico “Malerei und Zeichnung” (“Pittura e disegno”). Del 1902 è una delle sue massime espressioni plastiche, il monumento a “Beethoven”, che gli donò una grande notorietà. Se da vivo raggiunse i vertici della fama, una volta morto, però, la sua arte venne considerata obsoleta e fu quindi dimenticata, nonostante fosse ammirato e considerato un maestro da personalità quali De Chirico, Savinio, Ernst, Munch e Dalí. La “riabilitazione” di Klinger risale agli anni Settanta.
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